2
La realtà di quest’ultimo, pur manifestandosi in un’immagine sensibile, scritta
e/o parlata, è al di là del segno reso dal testo, “area di attrazione semantica,
intorno a cui si espandono aree di significazione attivate dai richiami testuali,
ma rese disponibili solo dalla ri-scrittura del lettore”
2
.
Il “nostro” testo ha a fondamento la verità dell’anima, trae da questa la sua vita,
il suo movimento e le sfumature che lo articolano e si svela capace così di
tradurre in atto la conoscenza del principio del movimento che avviene nella
parte divina dell’anima, la sapienza (nous): “l’anima se vuole conoscere se
stessa, deve guardare nell’anima e soprattutto in quella parte in cui sorge la
verità dell’anima, la sapienza”
3
.
E tuttavia il possesso della sapienza non è propria del dialettico, questi sarà
“amante di sapienza” piuttosto che sapiente, in quanto la sapienza è qualità
propria solo di un dio. “Chiamarlo sapiente, o Fedro, mi pare troppo, e che tale
nome convenga solo ad un dio, ma chiamarlo filosofo, ossia amante di
sapienza, o con qualche altro nome di questo tipo, gli si adatterebbe meglio, e
sarebbe più adeguato”
4
.
Il filosofo, allora, interprete del discorso dell’anima, ma consapevole dei limiti
che vincolano il logos alla realtà sensibile, delle parole che lo esprimono,
riconosce di essere in una condizione di aporia,dovendo dare conto di ciò che
trascende tale realtà, proprio perchè posseduto dal suo desiderio (mania).
2
F. De Luise, Platone-Fedro, Le parole e l’anima, Zanichelli, Bologna 1997, p. 57.
3
Platone, Alcibiade Maggiore in Tutti gli scritti (a cura di G. Reale), Rusconi, Milano 1997,
133B, p. 625.
4
Fedro 278D.
3
In questo contesto di così difficile collocazione il logos diventa mythos, un
racconto fatto di immagini che tenta di rappresentare ciò che non è conoscibile
logicamente, infatti “spiegare quale sia (l’anima) sarebbe compito di
un’esposizione divina e in tutti i sensi lunga; ma dire a che cosa assomigli è
una esposizione umana e piuttosto breve”
5
.
La verisimiglianza, che qui è espressa dal mythos, è la forma forte del
linguaggio persuasivo, quella che trae stimolo dalla intima conoscenza del vero;
infatti “una vera arte della parola senza essere connessa alla verità, non esiste,
né mai esisterà (…) forse che la retorica, presa nel suo complesso, non è una
specie di arte per dirigere le anime attraverso le parole? (…) e chi deve
ingannare un altro, ma non ingannare se stesso, deve per forza conoscere con
esattezza la rassomiglianza e la differenza fra le cose. (…) Ma allora, amico
mio, colui che non conosce la verità e che è solo un cacciatore di opinioni, ci
ammannirà, come tutto fa credere, una specie di arte ben ridicola e proprio
priva di arte!”
6
.
Le parole stesse, nel tentativo di esprimere il movimento di riflessione
dell’anima su se stessa, generano le immagini che riproducono tale movimento.
E ugualmente il discorso costruito dialetticamente sarà divino quando in esso
verrà rappresentato il movimento di riconoscimento di sé nell’altro, che
permette all’anima di poter vedere se stessa nel riflesso esterno: “vede sé
medesimo nell’innamorato come in uno specchio”
7
.
5
Ivi 246A.
6
Ivi 260E-262C.
7
Ivi 255D.
4
L’altro funge allora da segno indicatore, evocando nell’immagine bella il
principio divino al di là della forma: la bellezza che, godendo lei sola tra tutte le
altre idee del carattere della visibilità, e dunque della riflessività, “come s’è
detto, splendeva di vera luce lassù fra quelle essenze, e anche dopo la nostra
discesa quaggiù l’abbiamo afferrata con il più luminoso dei nostri sensi,
luminosa e risplendente”, ci risveglia nell’anima la memoria della verità. “(…)
Così solo la bellezza sortì questo privilegio di essere percepibile dai sensi e la
più amabile di tutte”
8
.
Se il logos si fa mythos , “risplende” allora la sua bellezza e armoniosità, e parla
all’uomo.
Il filosofo, perciò, è un hermenèus che, custode di questa armonia, collega la
parte al tutto, “perché sa vedere l’insieme in cui ogni cosa si trova”
9
, annuncia
ciò che ha visto nella “pianura della verità” e traduce l’eidos nell’espressione
linguistica più appropriata alla cosa.
“Ogni discorso deve essere costruito come una creatura vivente; deve avere un
suo proprio corpo cosicché non manchi né di testa, né di piedi, ma abbia le sue
parti di mezzo e i suoi estremi, composti così da essere in armonia fra loro e
con l’intiero. (…) Io sono innamorato di queste cose, delle suddivisioni e delle
riunificazioni, per essere in grado di parlare e di pensare. (…) E quelli capaci
di far ciò li chiamo finora dialettici”
10
.
Il filosofo capace di generare questa “creatura” è consapevole dell’ ambiguità
della parola, strumento tanto di un logos “vivente”, quanto di una “scrittura
8
Ivi 250D-E.
9
Repubblica 537C.
10
Fedro 264C.
5
morta”, una “parvenza di respiro”, uno “spettro errante”; parola “orfana”, non
viva, perchè morta si nasconde sotto l’apparenza del vivo
11
.
Di qui il rischio, e la necessità per il filosofo di dare conto della
contrapposizione, o presunta tale, tra scrittura e oralità, e di insistere su un
incedere che usi la forma più adeguata ai suoi oggetti: la dialettica, intesa come
arte di rispettare “ gli intermediari” (ta mesa).
12
Il filosofo è Amore, e per questo “figlio d’Ingegno e Povertà, ecco che destino
gli è capitato. Anzitutto è povero sempre, e tutt’altro che delicato e bello, come
credono i più, ma anzi ruvido e ispido e scalzo e senza tetto; e abituato a
sdraiarsi per terra senza coperte, per dormire a ciel sereno sulle soglia e per le
strade: ritraendo in ciò dalla natura della madre, nella sua perpetua
convivenza con la miseria. Per parte del padre, d’altronde, è ardente
insidiatore del bello e del buono, valoroso e impavido e veemente, cacciatore
formidabile, sempre occupato a tessere inganni, desideroso di capire e
ingegnoso, tutta la vita intento a filosofare, terribile incantatore ed esperto di
filtri e sofista (…). Egli sta in mezzo tra sapienza ed ignoranza, e la ragione è
questa. Nessuno degli dei filosofa, né aspira a diventare sapiente; lo è già,
infatti; (…) la sapienza infatti è tra le cose più belle, e Amore è amore del
11
Derrida J., La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985, p.126.
12
Ibidem, pp. 145-146. Derrida intende per “intermediari”: il limite e l’infinità del Filebo, cioè
gli elementi, associati, contenuti in tutto ciò che si può dire che esista, costituito primariamente
dalla mescolanza di uno e molteplice. Vuole sottolineare così l’importanza delle regioni
intermedie fra i due estremi, appunto uno e molteplice, per cui la dialettica viene opposta
all’eristica che tende a passare direttamente all’infinità, senza tenere conto di tutti i passaggi
necessari ed intermedi per giungere al fine prepostosi. Il Filebo viene usato, dunque, in
contrapposizione al Fedro, per evidenziare la capacità delle lettere di introdurre chiarezza nel
discorso. La “metafora” scritturale interviene quindi ogni volta che la differenza e la relazione
sono irriducibili, trovando nella dialettica scritta la forma migliore di un discorso che si
vorrebbe parlato nella sua essenza, nella sua verità, e che tuttavia si scrive.
6
bello; sicchè è forza che Amore sia filosofo, e tale essendo stia tra il sapiente e
l’ignorante. (…) Questa dunque, caro Socrate, è la natura del demone”
13
.
Se il filosofo ha una natura daimonica, intermedia, la sua azione: l’interpretare,
è un gioco rischioso, un percorso di calibratura e organizzazione millimetrica
delle domande, in cui il suo intento di far maturare i frutti della parola
dell’anima, può cadere nel vuoto, se non tiene conto del destinatario e del limite
che lo racchiude, ma anche se cede alla tentazione di catturarlo, persuadendolo
con la sola forza suggestiva della parola senza toccarne l’anima come invece è
possibile con un “un discorso bello, che tu credo riterrai un mito, ma io un
ragionamento, ragionamento che, infatti, desidero esporti quasi come se fosse
una verità”
14
.
In quanto interprete, Amore, figlio di Hermes, è filosofia, cioè dominio
razionale dell’intelligenza sui sensi, in vista della Bellezza
15
.
Amore tende ad unire gli estremi, conciliandoli l’uno con l’altro in vista del
sapere, non come la opinione che è un “intermediario ignorante”.
Amore è il desiderio di ogni essere vivente di uscire dalla sua natura mortale
per elevarsi fino alla sua natura immortale (Met., A 1, 980a: “tutti gli uomini,
per natura, tendono al sapere”), perchè è un’ “essenza intermedia”, per
ritrovare ciò che si è amato e non cessa mai di essere amabile. E in questo
ambito intermediario, che è il demonico metaxù di eros, può collocarsi la
ricerca del Fedro
16
. “Infatti, chi è che filosofa se non sono né i sapienti né gli
13
Simposio 203D-204B.
14
Gorgia 523A.
15
Cfr. Robin L., La teoria platonica dell’amore, Celuc, Milano 1973, p. 221.
16
Cfr. F. De Luise, op. cit., p. 20.
7
ignoranti?... son quelli che stanno in mezzo tra gli uni e gli altri, e tra cui è
anche Amore”
17
.
Amore simbolizza la dialettica ascendente, come metodo filosofico. “Non
c’è,né potrebbe esserci, una via più bella di quella, di cui io sono da sempre
innamorato, ma che molte volte mi è già sfuggita e mi ha lasciato solo e senza
via d’uscita (…). Gli dèi, dunque, come ho detto, ci hanno dato la consegna di
indagare, di apprendere e di insegnare gli uni agli altri in questo modo.
Invece, oggi, agli uomini sfuggono le realtà intermedie, in ragione delle quali
nelle nostre discussioni il procedimento dialettico si distingue dal suo opposto
eristico”
18
.
Per Platone, Amore è principio motore, dunque principio di conoscenza, perché
tendenza inesauribilmente attiva verso l’Idea, la scienza e la virtù.
Per questo il Fedro mi sembra essere il più adatto, sulla scia dei dialoghi che
hanno come tema dominante l’amore (Liside, Simposio), a restituire la natura
propria del filosofo, il suo essere intermediario, interprete del logos, diairetico e
sintetico allo stesso tempo.
Egli è mediatore fra due estremi, fra cui viaggia continuamente: filosofo perché
animato ( anzi “alato” ) da quella dùnamis, la mania, che fa dell’anima stessa
un “demone-intermediario”, un interprete.
“Eros e logos, i due grandi temi del dialogo, dunque, risultano non solo
connessi tra loro in quanto termini che esprimono il movimento del conoscere,
tali da essere intessuti insieme anche con tutti gli altri temi, ma sono quell’unica
forza che induce il filosofo a continuare la sua ricerca, tramite l’eros che spinge
17
Simp. 204B.
18
Filebo 16B-17A.
8
a cercare nelle parole una migliore descrizione di quello che siamo e dei nostri
desideri”
19
.
Per questo un dialogo platonico non presenta mai soluzioni certe e definitive;
solo la forma dialogica permette che si verifichino situazioni del tipo di quelle
dei dialoghi aporetici, in cui il mancato raggiungimento di una conclusione
certa provoca il dubbio nel lettore e lo stimola a proseguire l’indagine.
Si può riconoscere, ogni volta con ragione, che il dialogo sopperisce agli
svantaggi dello scritto e che esso rappresenta la miglior forma di scrittura per
Platone, proprio in quanto riproduce la situazione in cui è possibile attingere la
verità
20
. “So invece che anche altri hanno scritto su questi stessi argomenti; ma
chi sono, non lo sanno neppur loro. Questo solo ho da dire sul conto di tutti
coloro che hanno scritto o scriveranno su questo argomento, e che affermano
di essere esperti di ciò cui anch’io mi dedico (l’abbiano appreso da me, da
altri, o per proprio conto): penso che sia impossibile ne abbiano capito
qualcosa. Non esiste nessun mio scritto sull’argomento; né mai esisterà. Non si
tratta assolutamente di una disciplina che sia lecito insegnare come le altre;
solo dopo lunga frequentazione e convivenza con il suo contenuto essa si
manifesta nell’anima, come la luce che subitamente si accende da una scintilla
di fuoco, per nutrirsi poi di se stessa”
21
.
Infatti se si vuole chiarire come avviene l’esperienza di questo movimento che
infiamma l’anima e forma i discorsi dobbiamo approfondire lo studio dell’
“essenza della domanda”, e il Fedro di Platone sembra essere il dialogo che più
19
F. De Luise, op. cit., p. 24.
20
Cfr. Platone, Fedro (introduzione di B. Centrone), Laterza.
21
Lettera VII 341C-D.
9
di tutti si presta a mostrare l’assunzione dialettica del sapere, cioè la sua forma
di domanda.
“Non guardiamo alla risposta, ma ripetiamo la domanda. Che cosa è accaduto
della domanda?... se intendo bene la domanda allora con essa tutto si è fatto
serio”
22
.
Comprendere un testo è penetrare qualcosa che ci sembrava incomprensibile,
mettere a nudo ciò che sembrava un sotterfugio, un oscuro intrigo, perchè tale
“da nascondere al primo sguardo la legge della sua composizione e la regola
del suo gioco”
23
.
Ma “l’essere che si può comprendere è linguaggio”
24
. Esso è il gioco cui tutti
siamo partecipi, senza che nessuno possa prevalere sugli altri.
Se l’uomo, classicamente inteso, è “animale che possiede il logos”
25
, e la realtà
della lingua consiste nel discorso, il linguaggio è la hexis dell’uomo, cioè la sua
natura
26
.
E’ il linguaggio il vero mezzo dell’esistenza umana, tramite il quale ci si
“dischiude qualcosa”, solo quando sappiamo farci dire qualcosa dall’altro, non
facciamo trionfare il nostro punto di vista, ma ci comprendiamo, nella
prospettiva dell’altro, in quello che l’altro ha da dirci, accettiamo di
trasformarci e di convenire con lui in ciò che abbiamo in comune
27
.
22
M. Heidegger, Il concetto di tempo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1998, p. 50.
23
Cfr. Derrida J., op. cit., p. 45.
24
H.G. Gadamer, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 965.
25
Aristotele, Politica, I, 2, 1253a 10.
26
Cfr. H.G. Gadamer, Ermeneutica e metodica universale, Marietti, Casale Monferrato 1973, p.
159.
27
Cfr. Id., Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 779.