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scoprire se da esso potessero dipendere
caratteristiche specifiche della personalità del
bambino e conseguenze sul suo futuro approccio
alla vita e agli altri. Per uno studio di questo tipo
è necessario, pertanto, considerare sia il
bambino, con i suoi bisogni, sia la madre, con la
sua esperienza passata e il suo modo di
relazionarsi al figlio, sia l’ambiente all’interno
del quale si crea il rapporto; ambienti diversi,
infatti, possono offrire, o negare, tanto alla
madre quanto al bambino, stimoli differenti, con
conseguenti reazioni diversificate, tali da
influenzare positivamente, o negativamente, lo
sviluppo del bambino, il comportamento della
madre e lo stesso rapporto madre-figlio. Se la
relazione, infatti, si sviluppa all’interno di un
ambiente sereno che offre alla madre la
possibilità di rispondere alle esigenze del
bambino e al bambino stesso di fare esperienze
positive, il suo sviluppo sarà sicuramente
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diverso rispetto alle possibilità che potrebbero
essere offerte da ambienti “chiusi”, che
obbligano al rispetto di rigide regole e non
offrono al bambino gli stimoli necessari che lo
spingano a fare nuove esperienze di
apprendimento.
Nel presente lavoro, pertanto, saranno
considerate le diverse variabili che possono
influire sul rapporto madre-figlio, in riferimento
allo sviluppo di tale relazione all’interno di
istituzioni totali, più specificamente il carcere.
Si partirà dunque proprio dalle istituzioni, nel
Primo Capitolo, considerando le definizioni che
di esse hanno dato autori classici della disciplina
sociologica, da Goffman a Foucault. Le
istituzioni hanno precise caratteristiche
attraverso le quali si mantengono stabili nel
tempo, obbligano gli individui, che di esse fanno
parte, al rispetto di precise regole e possono
arrivare, come sosteneva Weber con la sua
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definizione di “gabbia d’acciaio”, a prendere il
sopravvento sull’uomo stesso, che le ha create,
riducendolo in schiavitù. Sarà considerato, a
questo proposito, il processo attraverso cui esse
si costituiscono, definito da Berger e Luckmann
di “istituzionalizzazione”, e il loro modo di
rapportarsi agli individui che ne fanno parte.
Le istituzioni totali in particolare, quali istituti
psichiatrici e prigioni, si caratterizzano per la
netta chiusura nei confronti del mondo esterno;
tali istituzioni rischiano di caratterizzarsi come
“istituzioni della violenza”, non offrendo
all’individuo un percorso di guarigione o di
miglioramento, dal punto di vista psicologico o
prettamente legale, in base al tipo di istituzione
all’interno della quale l’individuo stesso è
“internato”.
Lo sviluppo del carcere come istituzione può
essere diviso in tre fasi:
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1. la prima fase riguarda la nascita della
grandi “case d’internamento”, utilizzate
non per sostituire le punizioni ma come
loro supplemento. I primi internati erano
in genere vagabondi, mendicanti e gente
senza lavoro e senza dimora che
commettevano, generalmente, reati
contro la proprietà e che venivano
obbligati, all’interno dell’istituto ai
lavori forzati (cfr. Mathiesen, 1996: 32-
33);
2. la seconda fase va dal 1750 al 1825 ed è
caratterizzata dalla nascita di vere e
proprie carceri, istituti, cioè, prettamente
per i criminali. In tal modo l’istituzione
assume caratteristiche proprie e non
viene più interpretata, dunque, come
supplemento delle punizioni, con una
notevole diminuzione, anche, delle
punizioni stesse;
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3. l’ultima fase si sviluppa tra gli anni ‘70 e
‘80, anni in cui si è assistito, in molti
Paesi compresa l’Italia, a un
considerevole aumento della
carcerazione, con un conseguente
sovraffollamento delle strutture (cfr. ivi:
34-44).
Se il carcere attuale, dunque, si caratterizza
come luogo di “internamento” di criminali è
necessario fare, comunque, una differenziazione
dei soggetti che si trovano al suo interno per
capire se esistono dei “modelli” di criminali e
che cosa li spinge ad avere comportamenti
devianti. Una prima distinzione utile in questo
senso è quella di genere. Nel Secondo Capitolo
sarà considerata, conseguentemente, la
criminalità femminile, partendo dalle diverse
definizioni del concetto di “devianza”, per
arrivare a individuare le diverse tipologie di
criminali e i crimini da esse commessi. Come si
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vedrà attraverso la lettura dei dati statistici, la
criminalità femminile registra una netta
differenza rispetto a quella maschile arrivando, a
fine anno, a rappresentare solo il 5% del totale
dei crimini commessi. I motivi alla base di
questa differenza sono molti e, a seconda della
disciplina, hanno origine diversa: dalla minore
capacità bio-psichica della donna che la
porterebbe, anche, a commettere meno crimini,
tesi sostenuta in passato dalla criminologia, fino
alla diversa partecipazione della donna alla vita
sociale, ipotesi che riconduce la criminalità
femminile alla “minore presenza” della donna in
società. Analizzando i crimini commessi dalle
donne è indispensabile, inoltre, un riferimento
alla legislazione attuale in materia, argomento
affrontato nel Terzo Capitolo nel quale si farà
riferimento, in particolare, alle disposizioni
legislative riguardanti le detenute con prole e le
donne incinte. Dal 2000, infatti, con la Legge n.
10
40, conosciuta come legge Finocchiaro, sono
previste forme alternative alla detenzione in
cella, con l’introduzione della detenzione
domiciliare speciale, per condannate con figli
piccoli, o il rinvio obbligatorio della pena per
donne incinte. La legge Finocchiaro ha
modificato la precedente normativa basata sulla
Legge 253 del 1975 che, all’articolo 11, aveva
introdotto la possibilità, per le detenute, di
tenere i figli in carcere fino al compimento del
terzo anno di età, e le successive modifiche: la
Legge Gozzini, del 1986, e la Legge Simeoni-
Saraceni, del 1998. La legge attualmente in
vigore, tuttavia, non è applicabile a tutta la
popolazione carceraria, ci sono casi - come
quello delle donne rom, che non hanno una fissa
dimora, o quello delle tossicodipendenti,
considerate recidive - per i quali la legge stessa
risulta di difficile applicazione con la
conseguenza, ancora oggi, di bambini detenuti
11
con le madri. Proprio a questi bambini si fa
riferimento nel Quarto Capitolo.
Il 20 novembre 1959 le Nazioni Unite hanno
approvato la Carta dei diritti del fanciullo (cfr.
Meucci, Scarcella, 1984:7). In tale occasione i
diritti dei bambini sono stati suddivisi in alcuni
gruppi quali: il diritto alla vita, che comprende il
diritto di essere accettato e il diritto all’integrità
fisica; il diritto alla sicurezza, diritto ad avere,
dunque, una famiglia che si prenda cura del
bambino stesso, o una comunità con operatori
specializzati; il diritto all’autonomia, che
prevede, fra gli altri, il diritto al gioco; e i diritti
alla socializzazione, all’adolescenza e a non
essere considerati diversi (cfr. ivi:12).
In alcuni casi, come all’interno delle istituzioni
totali, i bambini non godono di questi diritti. Le
istituzioni totali, infatti, non hanno una struttura
e un’organizzazione interna tali da poter
assicurare ai bambini gli stimoli e le risposte che
12
la loro età richiede. Un’indagine condotta da
Gianni Biondi nelle carceri italiane evidenzia
come la maggior parte dei bambini cha vivono
in cella con la mamma manifesti segni di
chiusura e insofferenza nei confronti del mondo
esterno, disturbi del sonno, ritardi
nell’articolazione del linguaggio e poca curiosità
di apprendimento rispetto a bambini che non
vivono in tali situazioni. Riconoscendo
l’importanza dei diritti di questi bambini, anche
grazie alla Convenzione Internazionale sui diritti
dell’infanzia
1
, in vigore già dal 1989, si è
cercato di creare per essi specifici progetti, su
tutto il territorio nazionale, da parte di
associazioni diverse, per far vivere loro
un’esperienza che sia il meno traumatizzante
1
Il Testo della Convenzione è stato approvato
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20
novembre 1989. Tra i punti fondamentali del Testo: il
riconoscimento dell’importanza, per lo sviluppo della
personalità del minore, di crescere in un ambiente
familiare, comprensivo e privo di tensioni (cfr. Calvi,
1991:159-160).
13
possibile attraverso, ad esempio, la creazione di
ludoteche o spazi neutri, o la possibilità di uscire
dal carcere, accompagnati dai volontari, per
giocare con altri bambini o frequentare gli asili
comunali.
14
CAPITOLO PRIMO
Le Istituzioni
1.1 Definizioni e caratteristiche
Il termine “istituzione”, dal latino istitutiōne
derivato di instituĕre, indica la fondazione di
qualcosa di pubblico interesse o, comunque,
d’importanza sociale o morale. Quando si parla
di istituzioni ci si può riferire sia alla vita
pubblica sia a quella privata, ma anche alla
legge, al mercato, ai rapporti fra persone.
In sociologia le istituzioni sono forme di
aggregazione sociale caratterizzate da modelli di
comportamento che, grazie ai processi di
ripetizione, tipizzazione e oggettivazione, si
sono cristallizzati in ruoli all’interno della
15
società (cfr Ferrarotti, 1986: 113).
L’oggettivazione può avvenire tramite due
tipologie di strutture: visibili (organizzazioni
oppure gruppi primari) e simboliche (contenuti
culturali condivisi, rituali e linguaggio). La
realtà della vita comune contiene degli schemi di
tipizzazione che permettono all’individuo di
percepire gli altri in un determinato modo e
porsi in relazione con essi di conseguenza;
l’individuo, pertanto, può percepire un altro
individuo come: “un uomo”, “un uomo
simpatico”, “un europeo”, ecc. Le tipizzazioni
guidano gli individui nelle diverse situazioni,
determinando, anche, le loro azioni, in situazioni
specifiche (cfr. Berger, Luckmann, 1969:53).
Ogni istituzione sociale implica, inoltre, un
insieme di norme a cui gli individui devono
attenersi. Le istituzioni devono, quindi,
soddisfare due condizioni: avere uno sviluppo
16
storico
2
e fornire, agli individui che ne fanno
parte, uno schema di condotta (cfr. ivi:84). È
necessaria, inoltre, una distinzione fra le:
istituzioni formali: strutture codificate, dotate di
regolamenti e statuti giuridici, che gli individui
devono rispettare;
istituzioni informali: non formalmente
codificate, hanno proprie norme e regole, ma
non possiedono un apparato legislativo che
faccia applicare, obbligatoriamente, tali regole
(cfr. Ferrarotti, 1986:115). In tali istituzioni,
dunque, la sanzione non dipende dalle leggi o
dalla polizia, ma si basa piuttosto sul costume e
sulle aspettative generalizzate (cfr. Macioti, op.
cit.:81).
Delle istituzioni sono state date diverse
definizioni; generalmente, sono considerate
2
Lo sviluppo storico è indispensabile perché non si
possono capire a fondo le istituzioni se non si conosce il
contesto storico in cui esse stesse sono state create (cfr.
Berger, Lukmann, op. cit.:84).
17
organizzazioni, associazioni, che svolgono
funzioni rilevanti dal punto di vista sociale e
sono valutate positivamente dalla società che le
legittima dal punto di vista ideologico e le
sostiene economicamente. Le istituzioni sono
state oggetto di riflessione - in periodi e contesti
storici anche lontani fra loro - per molti studiosi
che di esse hanno parlato in termini diversi: K.
Marx, per esempio, precursore del
conflittualismo, le definisce come formazioni
sovrastrutturali che riflettono i rapporti sociali
reali che costituiscono la struttura di base di una
produzione all’interno di una formazione socio-
economica (cfr. Macioti, op. cit.:84).
C.H. Cooley
3
le considera, invece, sistemi
simbolici diffusi, significati condivisi dai
3
C. H. Cooley è stato uno dei precursori
dell’interazionismo simbolico. Ha teorizzato la diversità
tra gruppi primari e gruppi secondari, intendendo “l’Io”
come risultato dell’informazione che ci giunge come
riflesso del giudizio delle persone con le quali interagiamo
(cfr. Macioti, op. cit.:117).