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CAPITOLO 1: IL PERCHÉ DEI FONDI PENSIONE IN ITALIA.
1.1 PREVIDENZA OBBLIGATORIA IN ITALIA – CAUSE DEL DISAVANZO.
La previdenza obbligatoria in Italia è attualmente caratterizzata da un andamento
tendenzialmente negativo di tutte le gestioni, andamento che pone enormi problemi di
sostenibilità finanziaria per il nostro paese. La politica economica della previdenza ha, come
obiettivo principale, la redistribuzione dei redditi tra soggetti attivi e pensionati; l’uso del
sistema pensionistico quale ammortizzatore sociale fa capo a tale principio. Ciò giustifica il
finanziamento pubblico del rilevante e crescente disavanzo previdenziale che, nelle fasi di
recessione, è stato però poco controllato e non si è interrotto nemmeno nei periodi di crescita
dell’economia. Il problema del deficit del sistema finanziario è stato così trasferito alle
generazioni future mediante l’incremento del debito pubblico e dei contributi obbligatori
imposti, senza mai essere seriamente affrontato.
Il debito previdenziale ha in Italia radici profonde e antiche e va ricondotto ad una pluralità di
cause, fra le quali il fattore demografico
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gioca un ruolo predominante.
La gestione della previdenza obbligatoria avviene, in Italia, attraverso il regime della
ripartizione e ciò comporta che, ogni anno, i contributi versati dagli attivi vengano impiegati
per il pagamento delle pensioni agli aventi diritto.
È evidente allora come l’equilibrio finanziario della spesa obbligatoria per pensioni dipenda,
oltre che dalla misura della prestazione spettante a ciascuno, anche dall’andamento della
struttura demografica e occupazionale del paese.
Se in un anno il numero dei posti di lavoro diminuisce, o se il numero delle pensioni
aumenta, gli effetti negativi sulla gestione sono immediatamente riscontrabili. Ancor più
grave è la situazione quando tali circostanze si verificano contemporaneamente e per più anni
di seguito, come è accaduto nel nostro paese.
Il fattore demografico agisce allora da un lato riducendo la base degli attivi a causa del calo
delle nascite, e dall’altro estendendo la fase in cui le pensioni sono in pagamento per via
dell’allungamento generalizzato della vita umana.
Anche la struttura occupazionale del paese è però determinante per il mantenimento
dell’equilibrio fra entrate ed uscite: nei periodi di recessione la massa degli attivi si riduce a
1
Vi è un detto comune che afferma:”nella demografia vi è il destino della democrazia”. (MARTINO in “Se la pensione
non è dei pensionati” da “Il Corriere della Sera” 6 Maggio 1995).
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causa della diminuzione dei posti di lavoro mentre al contempo viene favorita l’uscita degli
anziani dallo stato di attivi al fine di alleggerire i costi per le aziende.
Spesso nel nostro paese si è cercato di ristabilire l’equilibrio finanziario innalzando l’aliquota
di contribuzione obbligatoria a carico dei lavoratori, aliquota che ha ormai assunto
proporzioni inusitate. Simili interventi però, lungi dall’incoraggiare la costituzione di nuovi
posti di lavoro regolari, spingono verso un lavoro non ufficiale che erode ulteriormente la
massa dei possibili contribuenti.
Molti “giovani pensionati”
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scelgono quest’ultima soluzione poiché, un’occupazione in
regola, comporterebbe loro un duplice svantaggio dato dal pagamento di ulteriori contributi e
dalla sospensione della prestazione pensionistica.
Consapevole di questo scenario, in questi ultimi anni il legislatore sta cercando di introdurre
misure volte a favorire i lavoratori che desiderino trattenersi nello stato di attivi una volta
raggiunti i requisiti necessari per l’ottenimento della prestazione pensionistica.
Notiamo allora che il numero dei posti di lavoro ufficiali non coincide con il numero di
occupati, e che neanche il numero di pensioni erogate coincide con il numero di pensionati.
Quest’ultima circostanza è legata al frazionamento della previdenza obbligatoria in tante
piccole e grandi gestioni, delle quali l’INPS è la principale,fatto che che provoca il
fenomeno delle doppie e triple pensioni.
Ma in un’analisi delle cause del disavanzo previdenziale non può essere trascurata la
generosità insita nella formula di calcolo della prestazione pensionistica in Italia, che non
trova eguali in alcun paese con sistemi pensionistici analoghi: si tratta di moltiplicare gli anni
di anzianità contributiva per il 2% del salario pensionabile. Nel 1995 il legislatore è
intervenuto per porre fine a tali eccessi, ma ciò nonostante il sistema retributivo rimane in
vigore per tutti i lavoratori che nel 1996 avevano già compiuto almeno 18 anni di servizio,
quindi occorrerà parecchio tempo prima che i danni causati da tale meccanismo vengano
arginati.
1.2 IL PROBLEMA DEL DEBITO PENSIONISTICO E L’ITER LEGISLATIVO.
La necessità di una riforma del sistema previdenziale obbligatorio si era avvertita sin dagli
anni settanta, in conseguenza della crisi economica che stava investendo tutti i paesi
occidentali. Negli ultimi cinquant’anni la legislazione previdenziale si è sviluppata,
nell’ambito dell’ampia compatibilità con i principi costituzionali, attraverso un fitto
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Coloro che hanno ottenuto il diritto alla prestazione pensionistica avvalendosi delle pensioni di anzianità
contributiva e dei prepensionamenti autorizzati in passato in alcune fasi del ciclo economico
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susseguirsi di disposizioni sottese a scelte legislative di grande impatto economico-sociale.
La politica economica della previdenza ha, come obiettivo principale, la redistribuzione dei
redditi tra attivi e pensionati, e l’utilizzo del sistema pensionistico quale ammortizzatore
sociale fa capo a tale principio.
Una lontana concezione del sistema pensionistico, detto “della pensione contributiva”,
deponeva un tempo a favore di un rapporto assicurativo di stampo privatistico con finalità
“sociali”. Tale concezione coglieva una caratteristica propria di questo sistema, rappresentata
dalla ripartizione tra i soggetti destinatari delle prestazioni previdenziali, ossia i lavoratori
subordinati, dell’onere economico derivante dalle stesse tramite l’assolvimento dell’obbligo
contributivo. Correlato a questa ripartizione era il calcolo dell’ammontare delle prestazioni
previdenziali in diretta relazione ai contributi versati in termini di numero di anni di
contribuzione e del totale di contributi versati.
Questo tipo di sistema, detto “a ripartizione”, può reggere ad una condizione: che tra
lavoratori in attività e lavoratori a riposo, nel medesimo periodo di tempo sussista un
rapporto di equità. Infatti, qualora il numero di pensionati sia eccedente rispetto al numero
dei contribuenti, su questi ultimi verrebbe a gravare un onere contributivo elevato, al fine di
garantire una parità nelle poste di bilancio.
A partire dagli anni ’70, purtroppo, l’andamento demografico del nostro paese ha subito un
forte calo della natalità, determinando un precoce innalzamento dell’età media nazionale con
la conseguenza più logica di avere a che fare con una situazione in cui ci sono sempre più
anziani e sempre meno lavoratori. La necessità di una riforma del sistema si rese quindi
necessaria. L’emanazione della legge n. 153 del 30 aprile 1969 ha segnato un’accelerazione
in questo senso e nel senso di una maggiore evoluzione della tutela pensionistica in modo
tale da rimanere un fondamentale punto di riferimento nel tempo. I principi stabiliti da questa
legge possono così sintetizzarsi:
- abbandono di ogni residua forma di capitalizzazione;
- perfezionamento della formula retributiva per il calcolo della pensione, già resa
operante dal D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488 con il passaggio al regime retributivo che
non ha mai cessato di evolversi negli anni successivi, sia attraverso l’aumento del
rapporto pensione/retribuzione, che a partire dal 1976 è passato all’80 per cento, sia
attraverso il miglioramento dei criteri di determinazione della retribuzione
pensionabile, cosicché dal 1988 non esiste più un valore oltre il quale la retribuzione
assoggettata a contribuzione non sia produttiva di alcun rendimento ai fini del calcolo
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della pensione (v. D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488; legge 23 aprile 1981, n. 155; legge
29 maggio 1982, n. 297; legge 11 marzo 1988, n. 68);
- erogazione della pensione sociale ai cittadini ultra-sessantacinquenni sprovvisti di
tutela pensionistica e reddito;
- istituzione della pensione di anzianità per coloro che avevano trentacinque anni di
contribuzione pur non avendo raggiunto l’età pensionabile, istituto già introdotto una
prima volta nel 1965 e successivamente abrogato;
- estensione all’assicurazione invalidità e vecchiaia, nei limiti della prescrizione
decennale, del principio dell’automaticità delle prestazioni di cui all’art. 2116 del c.c.,
già applicato all’assicurazione per la tubercolosi, all’assicurazione per la
disoccupazione ed all’assicurazione per la nuzialità e la natalità;
- perequazione automatica delle pensioni, in luogo dell’adozione di appositi
provvedimenti legislativi, con rivalutazione in base all’indice dei prezzi al consumo.
Il meccanismo ha garantito solo in parte la rivalutazione effettiva delle pensioni, in
mancanza dell’aggancio alla dinamica salariale. Il doppio aggancio aveva permesso
una tutela effettiva del valore reale delle pensioni tra il 1975 ed il 1992, dopo di che
l’aggancio automatico alla dinamica salariale è stato soppresso.
Il perseverare di un utilizzo costantemente inadeguato della previdenza obbligatoria e dei
suoi strumenti, che evidenziava una disattenzione generale nei confronti dei problemi
dell’equilibrio finanziario del sistema, unito alla difficoltà politica di intervenire in direzione
di un restringimento della copertura sociale in un campo che investe simultaneamente
l’interesse pubblico, gli interessi collettivi delle varie categorie di lavoratori, le aspettative di
diritto dei singoli, l’interesse delle imprese sotto il profilo del costo del lavoro, ha dato vita
ad un dibattito sulla riforma protrattosi per oltre 15 anni e che non si può dire ancora
concluso. Il dibattito sul ruolo della previdenza complementare, infatti, prese avvio sulla base
di una serie di considerazioni alcune di carattere politico, di carattere tecnico, ossia insite nei
meccanismi del sistema previdenziale, ed altre ancora di carattere economico
3
. È stato così
provato che la struttura del finanziamento del sistema a ripartizione, a fronte del decremento
demografico, determina sensibili deficit nel bilancio.
1.2.1 Il D.lg. 30 dicembre 1992, n. 503.
3
Per una vista in generale sul tema,si veda Cinelli, 1986.
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Una prima svolta legislativa si ebbe con il governo Amato nel dicembre 1992 quando, con
l’omonima riforma indotta dalla grave emergenza finanziaria emersa dal deficit di bilancio,
intervenne allo scopo di porre le premesse per un risanamento del sistema. Il decreto
legislativo del 30 dicembre 1992, n. 503 in attuazione della delega recata dall’art. 3 della
legge 23 ottobre 1992, n. 421, rappresenta quindi il primo intervento concreto di riforma. Le
direttive fondamentali dettate per il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori
dipendenti, privati e pubblici, sono state:
- l’omogeneizzazione della normativa tra le diverse categorie di lavoratori del settore
privato e pubblico;
- la stabilizzazione della spesa pensionistica in percentuale del prodotto interno lordo;
- la tenuta finanziaria del sistema previdenziale, allo scopo di garantire le prestazioni ai
pensionati attuali e futuri;
- la garanzia dei diritti acquisiti o, quantomeno, delle legittime aspettative maturate.
Il vero filo conduttore dell’intero provvedimento è stato rappresentato dall’intento di
riavvicinare le normative in vigore nei vari regimi pensionistici, attualmente assai
diversificate, mentre il problema del contenimento della spesa pensionistica, potendo essere
apprezzato solo nel lungo periodo, è rimasto in secondo piano. Infatti la pluralità di
normative rispondenti ad un’ottica di categoria, giustificabile al momento della nascita del
sistema di sicurezza sociale, non poteva più trovare spazio nell’ambito della definizione di un
organico sistema pensionistico di base, dove le esigenze di universalità e solidarietà devono
prevalere sulle istanze di tutela di interessi di parte. I punti cardinali della riforma possono
così sintetizzarsi:
- elevazione, estesa a tutti i regimi pensionistici, dell’età per la pensione di vecchiaia da
55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini, in via graduale e con esclusione
di alcune categorie che hanno conservato i vecchi limiti;
- elevazione del requisito contributivo minimo per la pensione di vecchiaia, in via
graduale, da 15 a 20 anni, per la generalità delle forme assicurative obbligatorie;
- allineamento al settore privato nella determinazione del requisito contributivo per la
pensione di anzianità per gli iscritti nelle forme di previdenza sostitutive ed esclusive;
- rideterminazione del periodo di riferimento per l’individuazione della retribuzione
pensionabile al fine di renderlo gradualmente uguale per tutti i regimi pensionistici
4
e
di allungarlo progressivamente all’intera vita lavorativa;
4
Nel settore pubblico prima veniva presa a riferimento l’ultima retribuzione anziché alla media degli ultimi 5 anni
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- valutazione anche del reddito del coniuge, prima non preso in considerazione, ai fini
dell’attribuzione dell’integrazione al trattamento minimo;
- nuova disciplina del cumulo delle pensioni con i redditi da lavoro, compreso quello
da lavoro autonomo, con riferimento a tutto il sistema obbligatorio;
- dal 1994, perequazione automatica delle pensioni con adeguamenti alla variazione
dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo e non più alla dinamica salariale, e possibile
corresponsione di ulteriori aumenti in relazione all’andamento dell’economia e tenuto
conto degli obiettivi di aggancio della spesa pensionistica all’andamento del PIL;
- rideterminazione delle aliquote di rendimento per ogni anno di contribuzione oltre il
limite del “tetto pensionabile” e delle corrispondenti quote di retribuzione eccedenti
tale limite, con graduale estensione del principio dell’applicazione delle aliquote
decrescenti alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive;
- sistema di calcolo della generalità delle pensioni liquidate dal 1 gennaio 1993 diretto
a salvaguardare i diritti acquisiti, per cui la quota di pensione corrispondente
all’anzianità contributiva acquisita fino al 31 dicembre 1992 è calcolata in base alla
normativa previgente, mentre la quota afferente l’anzianità contributiva
successivamente acquisita è calcolata secondo le disposizioni della riforma.
Con la riforma “Amato” e le sue successive modifiche ed integrazioni, quindi, anche in Italia
sono state gettate le fondamenta per un sistema di previdenza integrativa da affiancare al
sistema della previdenza obbligatoria. Fatta eccezione per i pochi fondi pensione sorti ad
iniziativa di enti ed imprese di grandi dimensioni a favore dei propri dipendenti, la domanda
di previdenza integrativa nel nostro Paese fino a quel momento si rivolgeva, in assenza di
specifici strumenti regolati per legge, a forme individuali e private di assicurazione sulla vita.
Queste ultime non possono però definirsi forme di “previdenza integrativa” in senso stretto,
trattandosi di strumenti rivolti essenzialmente ad un mercato individuale, strumenti nei quali
non sono previsti i benefici connessi agli strumenti di natura tipicamente previdenziale
destinati ad una collettività di soggetti. L’evoluzione della legislazione previdenziale risulta
così sempre più indirizzata verso scelte politiche, adottate in sede legislativa, che
prescindono dal contemperamento di interessi che si muovono nell’ambito di una solidarietà
parziale e limitata, per realizzare l’interesse pubblico con il ricorso alla solidarietà di tutta la
collettività.
1.2.2 La legge 8 agosto 1995, n. 335 e le successive rettifiche.
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Nella prospettiva di realizzare l’interesse pubblico finalizzato al recupero degli equilibri
finanziari delle gestioni previdenziali ed al risanamento del sistema, ad appena due anni dalla
riforma “Amato”, è intervenuto il Governo Dini con la legge 8 agosto 1995, n. 335, che nasce
con tre diverse motivazioni:
• la constatazione della necessità di un urgente cambiamento: il calo della popolazione
attiva e l’improbabilità di ottenere livelli di crescita della produttività e delle
retribuzioni analoghe a quelle conseguite nella fase di sviluppo industriale del nostro
Paese lo richiedevano. Questi due fattori, infatti, determinavano l’impossibilità di
garantire ai lavoratori un tasso di rendimento del sistema previdenziale superiore al
tasso di crescita della contribuzione. Lo scenario alternativo all’intervento si sarebbe
risolto in un’insolvenza strutturale del sistema che si sarebbe ripercosso sulle future
generazioni attraverso una più elevata pressione contributiva;
• l’armonizzazione tra i dipendenti da datori di lavoro privati e lavoratori pubblici, tra
lavoratori dipendenti e autonomi, nonché tra uomini e donne, dei diversi regimi di
contribuzione e di prestazione, al fine di evitare ingiustificabili privilegi o disparità
eccessivi che creano erosione del gettito contributivo;
• “l’agevolazione delle forme pensionistiche complementari allo scopo di consentire
livelli aggiuntivi di copertura previdenziale”, come riportato nell’art. 1 comma 1, con
l’ulteriore risultato di rendere possibili la costituzione dei fondi pensione.
Da un punto di vista tecnico la riforma in esame, accanto allo sviluppo del sistema
previdenziale, contempla anche l’esigenza di stabilizzare la spesa pensionistica nei confronti
del prodotto interno lordo con l’introduzione di una nuova formula contributiva per il calcolo
delle pensioni. Il nuovo metodo di calcolo
5
rappresenta un cambiamento radicale rispetto a
quello previgente, in quanto consente di superare il problema finanziario rappresentato
dall’istituto del pensionamento di “anzianità”
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e di porre in correlazione più stretta il livello
5
Ai fini della determinazione del montante individuale dei contributi, si individua la base imponibile annua,
cioè la retribuzione annua per i lavoratori dipendenti ed il reddito per i lavoratori autonomi, e si calcola
l’ammontare dei contributi per ciascun anno moltiplicando la base imponibile annua per l’aliquota di computo
(33% per i lavoratori dipendenti e 20% per i lavoratori autonomi). Il montante individuale, rivalutato come se
fosse stato investito al tasso di variazione dei PIL, è oggetto di un procedimento di “capitalizzazione simulata”,
gestito all’interno di un sistema a ripartizione ed è distribuito sulla speranza di vita dell’individuo al momento
del pensionamento, attraverso l’applicazione del coefficiente di trasformazione relativo all’età dell’assicurato
alla data di decorrenza della pensione, a partire dall’età di 57 anni.
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Si può ottenere prima di aver compiuto l’età prevista per la pensione di vecchiaia. È necessario però aver
maturato i seguenti requisiti: 35 anni di contributi e 57 anni di età per i lavoratori dipendenti; 35 anni di
contributi e 58 anni di età per i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti e coltivatori diretti). Si può
prescindere dall’età, se si ha una maggiore anzianità contributiva. In tal caso servono: i) almeno 37 anni di
contributi per i lavoratori dipendenti; ii) almeno 40 anni di contributi per i lavoratori autonomi. Il requisito della
maggiore anzianità contributiva salirà gradualmente, fino ad arrivare a 40 anni nel 2008, anche per i lavoratori
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delle prestazioni con quello delle contribuzioni. Il ricorso a coefficienti di trasformazione
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del montante contributivo in pensione, tanto più elevati quanto più elevata è l’età
dell’assicurato alla data di decorrenza della pensione, consente di perequare il rendimento
delle prestazioni per i soggetti che, pur avendo accumulato una uguale base contributiva,
liquidano la pensione in età diversa.
La formula contributiva trova integrale applicazione soltanto per i soggetti assicurati per la
prima volta a partire dal 1 gennaio 1996 e per coloro che, pur essendo già assicurati a tale
data, optino per il calcolo della pensione secondo detta formula. L’opzione è vincolata alla
condizione che i soggetti optanti abbiano compiuto l’età prevista per il pensionamento nel
sistema contributivo, e cioè 57 anni, ed abbiano inoltre conseguito un’anzianità contributiva
complessiva pari o superiore a 15 anni, di cui almeno 5 maturati nel sistema contributivo. Per
rendere possibile l’esercizio dell’opzione, il Governo è stato delegato ad emanare
disposizioni in materia di calcolo delle retribuzioni di riferimento, di coefficienti di
rivalutazione e di ogni altro elemento utile per la ricostruzione delle posizioni assicurative
individuali. Alla delega è stata data attuazione con il Decreto Legislativo 30 aprile 1997, n.
180, successivamente modificato dal Decreto Legislativo 28 giugno 1998, n. 278.
Peraltro, l’articolo 69, comma 6, della legge finanziaria n. 388/2000 aveva rinviato dal 1
gennaio 2001 al 1 aprile 2003 il termine a partire dal quale sarebbe stato possibile esercitare
l’opzione per il calcolo contributivo per correggere l’effetto distorsivo
8
, non previsto nella
fase di studio della riforma, per cui i titolari di redditi elevati avrebbero potuto ottenere, con
largo anticipo rispetto alla età pensionabile attualmente vigente, una pensione mensile di
importo superiore sia a quella che avrebbero ottenuto con il sistema retributivo, sia allo
stesso stipendio. Con il nuovo meccanismo si è attenuato il valore degli anni più remoti della
vita lavorativa, rendendo meno elevato il montante individuale dei contributi che scaturisce
dall’esercizio dell’opzione. La nuova norma, infatti, introduce per quegli anni una
valutazione ponderata con il rapporto tra l’aliquota contributiva vigente in ciascun anno e la
media delle aliquote dei dieci anni precedenti quello in cui viene esercitata l’opzione.
dipendenti. Per avere la pensione di anzianità i lavoratori dipendenti devono dimettersi dal lavoro. Gli autonomi
possono invece continuare la loro attività, senza obbligo di cancellazioni dagli elenchi di categoria.
7
È stata una scelta quella di esporre gli iscritti ai rischi della variabilità del livello delle prestazioni, in
dipendenza del tasso di crescita dell’economia (PIL) e della durata media di vita residua all’età del
pensionamento, prevalendo l’interesse a garantire la sostenibilità e l’equilibrio finanziario del sistema
pensionistico e ad assicurare il meccanismo del “patto sociale” tra generazioni con forme di
autoregolamentazione interne allo stesso sistema, che consentano di mantenere la pressione contributiva e
fiscale a carico della popolazione attiva entro livelli tollerabili.
8
Per eliminare tale effetto distorsivo, è stato emanato il Decreto Legge n. 158/2001, convertito nella legge 2
luglio 2001, n. 148, che ha abrogato la norma di rinvio contenuta nella legge finanziaria, ripristinando, di fatto,
la possibilità di esercitare il diritto con decorrenza dal 1 gennaio 2001, ed ha apportato, nel contempo,
modifiche alle regole per il calcolo della pensione secondo detto metodo.
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Per eliminare i dubbi interpretativi che ancora permanevano in ordine agli effettivi destinatari
della norma, è stato emanato il decreto legge n. 355/2001 - poi convertito in legge
27.11.2001, n. 417 - che ha fornito l’interpretazione autentica dell’articolo 1, comma 23,
della legge n. 335/1995, precludendo, di fatto, ai lavoratori con più di 18 anni di contributi al
dicembre 1995, la possibilità di optare per tale sistema di calcolo. Al di là delle scelte di
contenuto, quali l’adozione del metodo contributivo e la flessibilità dell’età pensionabile, una
delle linee guida della riforma pensionistica del 1995 si esprime con la formula
dell’armonizzazione, cui si collega il processo di ridefinizione dei regimi particolari, destinati
a subire un assestamento normativo mediante la tecnica della legislazione delegata. Nella
prospettiva del conseguimento di un’armonizzazione del sistema pensionistico, la legge n.
335 è intervenuta anche per la regolazione di istituti giuridici comuni all’intero sistema
pensionistico in materia di prestazioni previdenziali ed assistenziali di invalidità e inabilità
(art. 3, comma 3), ed in materia di contribuzione figurativa, ricongiunzione, riscatto e
prosecuzione volontaria (art. 1, comma 39). La legge n. 335, all’art. 2, si rivolge
all’armonizzazione dei trattamenti pensionistici per il settore pubblico, ponendosi in termini
di assetto istituzionale, per l’attrazione dei trattamenti pensionistici a carico del bilancio dello
Stato nell’ambito dell’INPDAP
9
, e nel contempo di assetto sostanziale, per l’avvicinamento
alla configurazione del sistema pensionistico per il lavoro privato
10
. La legge 335, inoltre,
ricopre un ruolo di grande rilevanza in quel progetto di risanamento avviato dal legislatore
nel 1992, e rivolge un’attenzione particolare allo sviluppo della previdenza complementare.
Successivamente, le modifiche legislative apportate nel corso del 1995 dal governo Dini,
unitamente al riordino dell’intero sistema previdenziale di base, hanno dato pieno ed
immediato sviluppo ai fondi pensione.
Degna di nota risulta la legge 27 dicembre 1997, n. 449 che è espressione del dibattito
scaturito dalla necessità di intervenire con modifiche di carattere strutturale anche sul sistema
pensionistico per concorrere al risanamento della finanza pubblica, al fine di consentire
l’ingresso dell’Italia nell’area della moneta unica europea. Inoltre, essa è da considerarsi un
9
L’INPDAP (Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica) svolge in
materia pensionistica i compiti che erano affidati alla Cassa per le pensioni per i dipendenti degli enti locali, alla
Cassa per le pensioni agli insegnanti d’asilo e di scuole elementari parificate, alla Cassa per le pensioni ai
sanitari ed alla Cassa per le pensioni agli ufficiali giudiziari ed ai coadiutori, amministrate in precedenza dalla
Direzione generale degli istituti di previdenza del Ministero del tesoro. Inoltre, con effetto dal 1° gennaio 1996
(articolo 2 della legge 8 agosto 1995, n. 335) è stata istituita presso l’INPDAP la gestione separata dei
trattamenti pensionistici ai dipendenti dello Stato.
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Nella convergente logica della armonizzazione e della generalizzazione del sistema, l’art. 1, comma 41, della
legge n. 335 ha esteso la disciplina della pensione ai superstiti vigente per l’assicurazione generale obbligatoria
alle forme di previdenza esclusive e sostitutive. Ne consegue che, fermo restando il trattamento sul quale
calcolare la pensione di reversibilità, si determinano invece secondo le norme dell’assicurazione generale
obbligatoria le categorie di superstiti aventi titolo alla pensione di reversibilità ed il calcolo di detta pensione.