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patrimoni delle antiche gentes, che potremmo considerare una sorta di
clan, costituivano la sopravvivenza dell’intero gruppo: era importante
quindi che fossero sottoposti al controllo e all’autorevolezza di un solo
elemento che ne evitasse l’eccessiva frammentazione. Questo aspetto,
unito al carattere fortemente gerarchico dei rapporti familiari e alla
tendenza androcentrica delle antiche civiltà mediterranee, si riversano
nell'istituto, i cui caratteri precisi si evincono dalle Istituzioni di Gaio.
La patria potestas si poneva inizialmente, come un potere
assoluto e perpetuo del pater sui figli, sulle loro mogli e sui loro figli,
su persone e cose che erano nella sua proprietà; non distinguendosi,
quanto meno sotto il profilo concettuale, se oggetto del potere fosse
una cosa o una persona.
La patria potestas cadeva su tutti i soggetti liberi e non liberi
della famiglia e costituiva la base su cui si fondava la familia romana
3
.
Il pater aveva un potere che era formalmente identico al
dominio sulle cose corporali e alla potestà sugli schiavi, con cui aveva
3
M. VIORA, Patria potestà – diritto intermedio, in Novissimo Digesto Italiano, XII, Torino, 1965,
p. 574.
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in comune l’indefinita possibilità di esplicazione che derivava dalle
attitudini fisiche e spirituali dell’“oggetto”
4
.
Costui si vedeva, quindi, riconosciuto, nei confronti dei figli, lo
ius vitae ac necis, il diritto di esporre il neonato (non riconoscendolo
così come figlio), il diritto di venderlo e di disporre delle sue relazioni
personali e patrimoniali a suo arbitrio. Poteva, altresì, locare i soggetti
liberi, punirli corporalmente, consegnarli all’offeso per esimersi da
responsabilità che a lui avrebbero fatto capo in seguito all’illecito
imputabile ai soggetti stessi.
A questo potere non poteva convenire un migliore nome se non
quello di potestas, e talora, per elevatezza di concetto, maiestas.
Al figlio mancava, dunque, ogni libertà d’azione: il padre
poteva imporgli o vietargli ogni atto giuridicamente lecito, a tutela
dell’organizzazione sociale e patrimoniale della famiglia. L’unico
limite posto a tale potere era dato dal diritto pubblico: ad esempio, il
4
V. ARANGIO -RUIZ, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1978, p. 474.
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filius familias poteva adire le magistrature senza che il padre potesse
impedirlo
5
.
La patria potestas romana era perpetua: i figli cessavano di
esservi sottoposti solo per un atto di volontà del pater
(emancipazione) o in conseguenza della sua morte, mai per avere
raggiunto una determinata età
6
. Dopo l’emancipazione, tuttavia, il
figlio era tenuto al dovere di rispettare entrambi i genitori, in virtù dei
vincoli di affetto.
Il tempo intervenne a temperare i rigori di un potere così
assoluto; rientrarono tra i poteri del pater anche la funzione di cura e
di tutela del figlio, cosi che il dovere sopraffece il potere: questo fu
considerato come un honor piuttosto che un dominium.
Il padre non dovendo anche allevare, ma soltanto educare il
figlio, trovò nella personalità di quest’ultimo un limite alla propria
volontà. La supremazia personale non sembrò più vitalizia ma
temporanea e se non vi erano cause che rendessero il figlio bisognoso
5
V. ARANGIO -RUIZ, op. cit., p. 475.
6
P. VOCI, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1954, p. 479.
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di appoggio e di guida, la maggiore età la faceva regolarmente
cessare. Il figlio non fu più legato perpetuamente alla casa paterna, e
la libertà di movimento a lui riconosciuta gli permise di avere un
domicilium diverso dal paterno
7
.
Vennero, dunque, progressivamente posti limiti al potere del
pater finché, in epoca post-classica e nella legislazione di Giustiniano,
si pervenne sostanzialmente ad un capovolgimento di tale potere, con
un’accentuazione del carattere protettivo e formativo della prole
8
.
La potestas del pater venne, di fatto, contemperata dall’uso
ricorrente di emancipare il figlio al raggiungimento della maggiore età
(compimento del 25° anno di età). Rimase, tuttavia, tra le prerogative
della patria potestas il potere del padre di disporre delle scelte
esistenziali dei figli, al fine di salvaguardare la conservazione del
patrimonio familiare, inteso come nome e beni, riservato al figlio
primogenito. I figli cadetti e le figlie femmine venivano indirizzati
verso carriere che non intaccavano l’integrità economica e sociale
7
E. BESTA, La famiglia nella storia del diritto italiano, Milano, 1962, p. 193.
8
V. ARANGIO -RUIZ, op. cit., p. 476.
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della famiglia, quali la vita ecclesiastica o militare, o matrimoni
accuratamente preparati per fini dinastici o successori.
Linee portanti di questo sistema erano le grandi aggregazioni
familiari, i casati nobiliari, i monti di famiglia patrizi e borghesi, le
fraterne o comunioni tacite familiari, e tutta una serie di istituti che
tendevano a rafforzare la struttura gerarchica del gruppo e la
preminenza dei maschi e dei primogeniti. Fedecommessi,
maggiorascati, regole feudali, il principio “paterna paternis materna
maternis” nella successione intestata, un’illimitata libertà
testamentaria, concorrevano tutti ad escludere la donna dalla
successione familiare o a limitarne drasticamente i diritti
9
.
La famiglia si poneva, quindi, come entità autonoma, con un
rilievo proprio e prevalente rispetto alle individualità dei singoli, le cui
scelte dovevano essere coordinate alle decisioni utili per il gruppo
familiare.
9
D. VINCENZI AMATO, La Famiglia e il diritto, in La famiglia italiana dall’ottocento ad oggi a
cura di AA. VV, Bari,1988, p. 629.
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Permase nei secoli il carattere assoluto della patria potestas, sia
pure temperato da un controllo della pubblica autorità nei casi in cui il
padre intendesse punire il figlio. Anche le cause di cessazione della
potestà seguivano nel tempo l’evoluzione dell’istituto della patria
potestas. Tali cause erano, infatti, in origine riconducibili solo alla
morte del capostipite cui la potestà apparteneva. Solo nel diritto
giustinianeo venne introdotta per la prima volta la cessazione, a titolo
di pena, della patria potestà a seguito di determinati abusi, quali la
prostituzione dei figli. Il pater poteva, inoltre, volontariamente
rinunciare alla potestà attraverso l’esposizione degli infanti, ovvero
con l’emancipazione del figlio
10
.
10
V. ARANGIO - RUIZ, op. cit., p. 471.
7
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2. L’istituto nel diritto germanico ed
in quello longobardo in particolare
Nell’alto Medioevo, per influenza del diritto germanico, ebbe a
verificarsi una ripresa dell’autorità paterna, e si ravvisò nel mundium
un intenso potere familiare connesso, anche etimologicamente, alla
manus romana: tuttavia il parallelismo con il diritto romano non è
convincente.
È vero che nel diritto germanico si costituì in seno alla sippe,
quale unità morale e giuridica al tempo stesso, la famiglia, e che,
come nel diritto romano, suo fondamento fu la potestà paterna, di
modo che, avendo anch’essa carattere prevalentemente agnatizio, non
ne fecero parte direttamente i parenti per via di donna; ed è pur vero
che la potestà del capo famiglia in Germania non differì molto da
quella del pater familias.
Tuttavia la Haus non fu inaccessibile, come la famiglia romana,
ad ogni autorità esterna: infatti, in questa né la legge né i pubblici
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poteri esercitarono una propria azione, mentre quella fu soggetta
all’autorità della sippe, che serviva anche a temperare, di quanto
poteva avere di eccessivo, la potestà del padre di famiglia.
Inoltre non si poteva prescindere dal parere o
dall’autorizzazione dei parenti nei negozi di interesse comune, quali
l’espulsione dei familiari dal gruppo a titolo di pena, l’alienazione di
beni immobili, la tutela dei deboli e degli incapaci, la prestazione di
giuramenti purgatori: queste ed altre disposizioni delle leggi
barbariche indicano come, fin dalle origini, il potere del capo-famiglia
germanico fosse meno esteso che non quello del pater familias
romano.
Nonostante la perfetta soggezione della donna al mundio, i
germanisti concordano nell’attribuire alla moglie, fin dai tempi più
remoti, facoltà direttive nell’ambito delle pareti domestiche: è dubbio
tuttavia che queste norme prettamente germaniche abbiano avuto
rilevanza giuridica nella nostra penisola. Accanto agli organi direttivi
della famiglia ve ne furono altri destinati ad assistere ed anche
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controllare i primi. Per quanto riguarda i tribunali di famiglia, al
iudicium domesticum del diritto romano, sorta di giuria parentale per
l’accertamento dei più gravi reati familiari, fecero riscontro nel diritto
germanico istituti analoghi. Quanto poi al consiglio di famiglia, le sue
origini si fanno risalire all’ordinamento germanico: l’avrebbe infatti
generato il diritto di assenso dei singoli consigli a particolari negozi,
quali i matrimoni e le alienazioni.
In seno alla Haus, il figlio di famiglia era soggetto ad una patria
potestà per molti aspetti simile alla romana: simile, ma non in tutto
uguale, perché il mundium germanico, fin da principio, fu piuttosto un
diritto-dovere di protezione che non una vera potestà, come la
romana
11
.
L’autorità paterna non sopprimeva del tutto la personalità del
figlio, del resto su di lui la sippe esercitava un’alta tutela,
circoscrivendo la patria potestà e proteggendolo contro i suoi abusi.
11
“Il mundio non era ordinato soltanto in vantaggio del padre, ma anche e precipuamente in
quello dei figli. Perciò il padre doveva difenderli, rappresentarli in giudizio e sostenere per loro la
prova del giuramento o del duello. Doveva educarli secondo la loro condizione sociale alla virtù e
all’amor della patria, al quale intento era fornito della necessaria potestà punitiva: e se percepiva
il guidrigildo e le multe in cui altri incorresse offendendoli, rispondeva eziandio delle loro
azioni”. A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero alla codificazione, V. III,
Bologna, 1966, pp. 375 – 376.
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