6
espressione della propria forma mentis e il linguaggio appreso
dagli altri durante l’osservazione, l’interazione e il confronto.
Wittgenstein sostiene che ogni uso linguistico implica una
particolare forma di esistenza, per questo “se un leone potesse
parlare noi non potremmo capirlo”
1
. Applicando a ritroso
questo concetto l’organizzazione rappresenta una peculiare
forma di esistenza, e per questo implica un peculiare
linguaggio. Le due dimensioni però - quella organizzativa e
quella prettamente singola e individuale - non sono
impermeabili, incomunicanti. Anzi, dallo scambio tra queste
due dimensioni nasce quell’arricchimento cui accennavo
prima. Per questo forse se noi e il leone di Wittgenstein
fossimo realmente interessati a quello che l’interlocutore ci
potrebbe dire, tra noi ci potrebbe essere una vera
comunicazione, forse persino un dialogo; sarebbe sufficiente
che entrambi ci impegnassimo in una critica reciproca, e il
linguaggio non produrrebbe più due forme di vita separate e
estranee, ma uno scambio produttivo e migliorativo.
Il soggetto organizzato impara altri modi di comunicare
per il fatto stesso di essere parte di una organizzazione, e questi
modi integrano la “cassetta degli attrezzi” del soggetto pre-
organizzato o post-organizzato. Tant’è che le persone
“entrano” ed “escono” dalle organizzazioni, e quando vi escono
sempre hanno qualcosa in più di quando ancora non vi erano
entrate, qualcosa che si portano dietro e riutilizzano anche al di
fuori dell’organizzazione stessa. Gli strumenti di cui l’uomo
organizzato si serve per comunicare hanno quindi una duplice
valenza: da un lato sono mezzi, strumenti per raggiungere
determinati scopi ed ottenere determinati effetti; dall’altro lato
sono sintomi, effetti di quella particolare forma di esistenza che
1
Wittgenstein L. (1967), Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, pag 292.
7
è l’azione organizzata, e in quanto tali la loro analisi ci può dire
qualcosa sull’organizzazione stessa.
L’agire organizzato può dare la possibilità di superare i
limiti che l’uomo naturalmente ha
2
, o può diventare un
impedimento a se stesso quando ad esempio è burocratizzato
3
.
La mia attenzione si concentra qui su un aspetto essenziale
delle organizzazioni: la loro capacità o meno di reagire e
rispondere adeguatamente ad uno stato di crisi. Questo è il
punto centrale.
Infatti se pensiamo al percorso di vita di un individuo o
di una organizzazione, intuiamo subito la gran mole di ostacoli
che essi potranno incontrare lungo il loro cammino, dai più
banali ai più gravi. Solo per rendere l’idea basta pensare a un
bimbo che si perde in un mercato affollato, o ad un lavoratore
che viene licenziato; a un’azienda in perdita o all’improvvisa
crisi dei mercati finanziari globali; ad una comunità isolata per
la troppa neve o a un’estesa area geografica colpita da un
cataclisma naturale; a un governo di fronte a uno sciopero o a
un dittatore di fronte alle mobilitazioni rivoluzionarie del
popolo. In casi come questi si è in uno stato di crisi. Nel mondo
contemporaneo situazioni del genere sono molto frequenti,
forse più di quanto avvenisse in passato. Ecco allora che le
situazioni di difficoltà che si incontrano non solo sono
generalmente numerosissime, ma finiscono per incidere così
profondamente nei processi di mutamento e adattamento che il
loro verificarsi (o anche solo la loro previsione) influisce
profondamente nella costruzione del contesto e sulle dinamiche
che in quel contesto si sviluppano.
2
Simon H. (1947), Il comportamento amministrativo, Il Mulino, Bologna,
tr. it. 1958.
3
Crozier M. (1963), Il fenomeno burocratico, Etas, Milano, tr. it. 1969.
8
Come si reagisce a una situazione di crisi? E si può
prevenire o almeno prevedere una crisi? In che modo? Esistono
delle strutture appositamente pensate e realizzate per
rispondere alle crisi; studiandone un caso esemplare cercherò
di capire quali sono le caratteristiche e le dinamiche di questi
enti. Anche per vagliare la possibilità che le soluzioni
organizzative e comunicative da essi adottate possano essere
“esportate” in altri contesti. Come sono organizzate? Come
comunicano? Esiste una correlazione tra il modo di essere
organizzate e di comunicare, e la loro capacità di successo?
Cosa possiamo imparare da organizzazioni di questo tipo?
Quali meccanismi e quali strutture possono essere mutuate da
esse ed essere riproposte nelle imprese, nelle aziende, o nelle
organizzazioni internazionali senza scopo di lucro, o più in
generale in ogni ente esposto ai rischi di possibili cambiamenti
repentini? A questi interrogativi lo studio cercherà di dare
risposta, o almeno di fornire delle indicazioni utili.
Nel primo capitolo vengono introdotti i due pilastri
teorici che sostengono l’intero impianto concettuale della
ricerca: la sociologia dell’organizzazione e le scienze della
comunicazione. Viene proposta una lettura originale delle
istituzioni come beni comuni, proiettando già dall’inizio di
questo percorso di analisi lo sguardo sull’ente scelto come
campo di indagine. Viene poi affrontato il tema della
comunicazione istituzionale, attraverso un approccio che verte
prevalentemente sulle modalità di scambio delle informazioni e
sulla centralità che queste ultime hanno assunto per il corretto
funzionamento delle organizzazioni istituzionali. Il primo
capitolo si conclude focalizzando l’attenzione sulla sinergia tra
comunicazione e organizzazione, vale a dire sul profondo
intreccio che esiste tra le modalità comunicative e le
caratteristiche organizzative di un ente.
9
Il secondo capitolo verte sull’attualità della crisi e
introduce un elemento essenziale per l’approccio adottato in
questo percorso di analisi, vale a dire il contesto
internazionale. Sulla base di solidi contributi teorici,
provenienti della sociologia dell’organizzazione e da altre
discipline non meno importanti, viene proposta una lettura
originale del contesto e dell’incertezza che vi regna nella nostra
epoca contemporanea. Vengono poi proposte delle
interpretazioni teoriche “trasversali” ad alcune aree disciplinari
distinte per inquadrare compiutamente il concetto di crisi.
Nel terzo capitolo vengono esposti gli strumenti teorici
e analitici che insieme costituiscono il disegno della ricerca. I
contributi teorici e le riflessioni dei primi due capitoli
convergono in alcuni nodi problematici che vengono qui
affrontati con un approccio originale ma basato su alcune
indiscusse acquisizioni teoriche della sociologia e delle scienze
della comunicazione. Questo capitolo connette la riflessione
teorica su cui si basa la ricerca alla ricerca in senso stretto: in
altri termini ricollega gli strumenti concettuali messi a fuoco
nella prima parte dello studio con la realtà empirica di una
organizzazione quale l’Unità di Crisi del Ministero degli Affari
Esteri. Il tema della gestione della crisi viene infine tradotto in
alcune ipotesi di lavoro, con l’obiettivo di trarre da esse degli
elementi utili per capire come funziona un ente deputato a
gestire le emergenze, e soprattutto come e in che misura
organizzazione e comunicazione contribuiscono a questo
funzionamento.
Il quarto capitolo porta definitivamente l’attenzione
sull’Unità di Crisi. La descrizione dei vari aspetti organizzativi
e comunicativi và di pari passo con la loro analisi, nell’ottica
dell’individuazione di un modello esplicativo che possa portare
alla luce le caratteristiche di questa struttura.
10
Il quinto è il capitolo conclusivo, in cui si sintetizzano
gli elementi emersi nel corso dell’analisi e nel quale vengono
riprese le ipotesi di lavoro, verificando la loro validità o meno.
Infine viene delineato il modello organizzativo particolare
dell’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, e vengono
evidenziate le caratteristiche organizzative e comunicative che
consentono ad un ente una efficace gestione della crisi
internazionale.
11
Capitolo 1 - Le organizzazioni istituzionali e
la comunicazione
1.1 - Pervasività delle organizzazioni
Il primo pilastro teorico che sostiene questo lavoro è
costituito da quel corpus di teorie e di dottrine sufficientemente
consolidate per connotare una materia di studio qual è il
pensiero organizzativo.
Quando parliamo di pensiero organizzativo ci riferiamo
a un insieme di contributi che nascono in diversi campi
disciplinari, come le teorie manageriali, la teoria d’impresa e
soprattutto la sociologia dell’organizzazione.
L’attenzione che è stata posta sulla questione
dell’organizzazione, è nata infatti in ambiti e momenti storici
spesso distanti tra loro. La distinzione che spesso connota la
natura di questi contributi, quella tra modelli prescrittivi e
modelli interpretativi
4
, è utile per inquadrare il percorso di
analisi che qui si propone.
I contributi prescrittivi elaborano e propongono un
modello concepito come ottimale per la progettazione concreta
delle organizzazioni; essi appartengono soprattutto alle teorie
d’impresa e del management, e hanno come fine la reificazione
dei loro concetti e delle loro soluzioni nel modo di organizzare
4
Bonazzi G. (2002b), Come studiare le organizzazioni, Il Mulino, Bologna.
12
un ente. La cosiddetta “organizzazione scientifica del lavoro”
(Osl), ideata, applicata e diffusa da Frederick Taylor
5
, è un
esempio di modello prescrittivo. Esso fu applicato e
perfezionato da Ford
6
, con l’introduzione in fabbrica della
catena di montaggio semovente, la quale sconvolse e cambiò
radicalmente l’organizzazione industriale di tutto il XX secolo.
Altri esempi di modelli prescrittivi sono molte delle teorie su
cui poggia il marketing moderno
7
, oppure le disposizioni
legislative che appunto regolano e prescrivono come un ente
deve essere organizzato
8
.
I contributi interpretativi esaminano invece i fenomeni
organizzativi, e mirano alle dinamiche sociali osservabili al
loro interno; questi appartengono in prevalenza alla sociologia
dell’organizzazione. Modelli di questo tipo sono ad esempio i
tentativi della sociologia di spiegare i meccanismi che stanno
alla base di sistemi burocratici, come l’apparato teorico di Max
Weber
9
o di Michel Crozier
10
, oppure di indagare le dinamiche
del potere decisionale, come ha fatto Simon
11
, o di cercare di
spiegare il funzionamento del processo di comunicazione, con
gli approcci di Shannon e Weaver, Lasswell o Eco
12
.
5
Taylor F. (1967), L’organizzazione scientifica del lavoro, Etas Kompass,
Milano.
6
Accornero A. (1975), Dove cercare le origini del taylorismo e del
fordismo, Il Mulino, settembre 1975, n. 242.
7
Kotler P. (1999), Marketing management, ISEDI, Torino.
8
A titolo d’esempio: D. Lg. n. 29/1993, D. Lg. n. 80/1998, L. n.150/2000;
nei rispettivi riferimenti all’organizzazione degli uffici per le relazioni con il
pubblico (URP).
9
Weber M. (1922), Economia e società, Comunità, Milano, tr. it. 1961.
10
Crozier M. (1963), Il fenomeno burocratico, Etas, Milano, tr. it. 1969.
11
Simon H. (1947), Il comportamento amministrativo, Il Mulino, Bologna,
tr. it. 1958.
12
Morcellini M. e Fatelli G. (2002), Le scienze della comunicazione,
Carocci, Roma.
13
“In altri termini i modelli prescrittivi prescrivono come
dovrebbe essere, i modelli interpretativi spiegano com’è”
[Bonazzi, 2002a, pag. 14].
Il percorso di analisi che qui si propone è una
interpretazione dell’organizzazione dell’Unità di Crisi della
Farnesina, quindi un contributo esplicativo che si rifà alla
tradizione dei modelli interpretativi. Nella storia delle scienze
sociali, modelli di entrambi i tipi hanno comunque contribuito
a spostare il dibattito scientifico più avanti o ad aprire altri
fronti di studio.
Ogni attività esistente nella società, sia essa un’impresa
a scopo di lucro, una partita di calcio, un summit di governo,
una vacanza, o una semplice cena tra amici, possiede al suo
interno il gene dell’organizzazione. Questo elemento permea la
forma, i contenuti e i modi dell’agire umano in modi
assolutamente vari e variabili. Il concetto di organizzazione è
quindi il nostro punto di orientamento e il nostro principale
strumento di studio.
Innanzi tutto è necessario capire cosa vuol dire
“organizzazione”. Questo termine nel linguaggio comune è
usato in due modi differenti
13
.
ξ Per indicare un ente caratterizzato da una divisione
ragionata del lavoro e delle competenze: quando ad
esempio parliamo di un ministero, di un’associazione per
la difesa dei diritti umani, di un’azienda economica, di
un’associazione sportiva.
ξ Oppure il termine “organizzazione” può essere usato per
indicare il modo in cui un ente è organizzato: quando ad
esempio esprimiamo dei giudizi sull’efficienza di un ente,
13
Bonazzi G. (2002a), Storia del pensiero organizzativo, Angeli, Milano.
14
e parliamo di una buona o cattiva organizzazione, o
quando diciamo “dobbiamo ottimizzare l’organizzazione
del nostro lavoro”; in questi casi ci riferiamo alle
modalità in cui si realizza la divisione dei compiti e delle
competenze. In quest’ultima accezione un aspetto
dell’ente, quello organizzativo, è assunto come sinonimo
dell’ente stesso.
Nel senso comune pensare un’organizzazione evoca
spesso concetti come struttura, burocrazia, gerarchia, e la
nostra immaginazione va subito ad enti del tipo prima indicato:
grandi, complessi, strutturati rigidamente in base a criteri
strettamente razionali. Pensiamo a banche, ospedali, aziende,
fabbriche, ecc... . In realtà l’organizzare è qualcosa che permea
molte realtà che non sempre sono sinonimi di burocrazia o
gerarchia. Se pensiamo alle cose che facciamo durante una
normale giornata di studio o di lavoro, o anche nel tempo
libero, ci accorgiamo che passiamo “tutto il giorno attraverso
organizzazioni di vario tipo e di tutte le grandezze, alcune
burocratiche e altre assolutamente no” [Bonazzi, 2002b, pag.
13]. Se immaginiamo solo alcune delle azioni più comuni di un
qualsiasi cittadino ci troviamo di colpo a camminare in mezzo
ad organizzazioni. Leggiamo giornali stampati da
multinazionali dell’editoria, organizzazioni grandi e complesse.
Saliamo su autobus o metropolitane gestite da aziende di
trasporti pubblici che sono organizzazioni regionali del servizio
pubblico; il nostro biglietto riporta sul retro la pubblicità di una
mostra organizzata al museo d’arte moderna, un ente culturale.
Entriamo nel posto dove siamo diretti, che è un’impresa, un
ministero, una università o un supermercato, tutti enti
organizzati. Incontriamo altre persone, colleghi, amici,
conoscenti, estranei; con qualcuno esiste un rapporto di lavoro
15
gerarchico, burocratico, con altri esistono reti di relazioni che
sono costellazioni di organizzazioni informali.
Insomma, siamo immersi nelle organizzazioni. Ci
passeggiamo in mezzo senza quasi vederle; a volte ne
ignoriamo l’esistenza, altre volte sono sempre presenti nei
nostri pensieri, in ogni caso esistono. Le organizzazioni
permeano la nostra società, e noi ne facciamo parte o ne siamo
fruitori più o meno consapevolmente.
16
1.2 - Le istituzioni
Le società occidentali, durante la loro lunga e spesso
travagliata storia, hanno prodotto un’incredibile varietà di
organizzazioni, ognuna delle quali rappresentava e rappresenta
una risposta più o meno efficace a domande determinate
14
. Di
questa varietà fanno parte le istituzioni, strutture a complessità
variabile, inserite in un sistema sociale basato sulla
condivisione tra più individui di valori, storia, tradizioni,
cultura, ecc... .
“Dalla sociologia delle organizzazioni complesse
possiamo ricavare l’idea che nella costituzione delle istituzioni
rientrano elementi come le routine, le culture, i riti, e i miti
locali, la struttura microcorporativa e l’informe delle relazioni
personali che permeano le relazioni formali. Guardando in
questo pozzo profondo è un po’ come guardare dentro noi
stessi, poiché siamo fatti di istituzioni. Vi troviamo quello che
una società ha voluto e cercato di essere al suo meglio, e al suo
peggio, miscele di vizi privati e pubbliche virtù, di impegni e
lassismi, di intelligenza e ottusità.”
15
. Le istituzioni infatti sono
coprodotte da una pluralità di processi e di attori. Esse possono
essere il frutto di decisioni deliberate, ma anche e di più
costrutti dell’intelligenza sociale, cioè il frutto di lunghi
processi riflessivi e cognitivi interni ad una comunità. Possono
inoltre nascere da progetti, i quali sono ambienti ristretti e
complessi, e che devono aver assimilato e introiettato dentro di
sé grandi dosi di intelligenza sociale e istituzionale (a cui
14
Per un approfondimento si vedano:
Barnard C. (1938), Le funzioni del dirigente, Utet, Torino, tr. it. 1970;
Maslow A. (1954), Motivation and personality, Harper and Brothers, New
York.
15
Donolo C. (1997), L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, Milano.
17
spesso si oppongono le volizioni degli attori politici,
amministrativi o imprenditoriali).
Seguendo l’impostazione data nel riportare
16
le
organizzazioni nel quadro della vita quotidiana, è possibile
rifarsi ad alcuni contributi teorici abbastanza recenti, che hanno
proposto una lettura nuova e originale di questo particolare tipo
di organizzazioni.
Carlo Donolo [Donolo, 1997], ad esempio, concepisce
le istituzioni come beni comuni, intendendo con questa
espressione una classe di beni che si presentano nell'esperienza
sociale come presupposti di ogni forma di agire e insieme come
esiti - voluti o non voluti - dell'interazione tra gli attori. I beni
comuni stanno perlopiù nella dimensione astratta o virtuale più
che essere reificati in oggetti; sono le modalità verificabili
empiricamente in cui si manifesta la natura del legame sociale.
Possono essere caratterizzati da una dimensione normativa, e la
loro dinamica non dipende solo dall’innovazione, dalla
tecnologia o dal progresso, ma anche dalle scelte/opzioni
praticabili socialmente. In sostanza i beni comuni sono legati
alle materie sociali, cioè ai fatti sociali più costitutivi (lavoro,
interesse, identità, colpa, felicità). Intendere le istituzioni come
beni comuni significa allora pensare queste organizzazioni
come un patrimonio sociale e culturale comune, in continua
costruzione e in continua evoluzione. Esse determinano sia il
problem setting sia il problem solving; sono al contempo
posizioni di problemi sociali e loro (ipotetica o presunta)
soluzione. Conviene quindi considerarle nella loro natura
processuale, in quanto immerse in una catena di interrogazioni
16
Dalla lettura di autori quali Barnard (1938), Donolo (1997), Bonazzi
(2002b), Powell e DiMaggio (1991), è chiaro che la separazione e
l’opposizione tra vita quotidiana e organizzazioni è solo apparente, e frutto
di una disconosciuta pervasività delle organizzazioni.
18
e risposte che una società genera continuamente, piuttosto che
come apparati immobili e pesanti, come oggi il senso comune
tende a fare. Esse sono insieme processo sociale e costrutto
sociale, in quanto costituiscono la rete di pretese normative che
si fanno valere intorno ad una data materia in una data
comunità [Donolo, 1997].
L’approccio di Donolo è estremamente utile e
illuminante per evitare il rischio di confondere le istituzioni
con le manifestazioni del potere, le poste nel gioco politico o
gli apparati burocratici.
Questo sguardo infatti ci consente di ritornare
all’essenza del concetto di istituzione, riscoprendo il significato
primo che esse hanno, cioè essere una risorsa per la comunità e
per i singoli, e non dei vincoli fastidiosi. Inoltre con tale
approccio, che introduce l’elemento dinamico della
processualità, è possibile abbandonare l’idea di immobilità e
immutabilità che caratterizza la percezione delle istituzioni in
questo momento storico.
Tuttavia sembra esserci un elemento fondamentale delle
istituzioni che viene tralasciato da Donolo, e più in generale,
sistematicamente omesso quando si parla di istituzioni. Un
elemento non solo caratterizzante, ma costitutivo, senza il
quale non si giunge a capire perché le istituzioni non sono solo
una forma qualsiasi di organizzazione. Esse sono sì costrutti e
costruzioni sociali perennemente in progress, e possono essere
intese come beni comuni, ma la loro caratteristica essenziale è
quella di poggiare sempre su dei valori condivisi, che ne
determinano la natura, gli scopi e le modalità d’azione
17
. Le
17
Donolo (1997) parla di “preferenze”, cioè criteri seguiti dall’azione, che
non necessariamente coincidono con dei valori. Altri autori usano il termine
“metapreferenze”, per indicare le mete pubbliche in base a cui vengono
selezionati i criteri dell’azione.
19
connotazioni valoriali, in questo senso, sono parte integrante
delle istituzioni, perché costituiscono la spinta che porta alla
loro costruzione, e la spina dorsale che ne sostiene l’esistenza e
l’operato. Se viene riconosciuto questo elemento, l’istituzione è
innanzi tutto la risposta organizzativa che una comunità si dà
nel momento in cui vuole dare corso sociale a uno o più valori
di cui è portatrice. Secondo questa impostazione è ipotizzabile
che i modi dell’azione e gli scopi perseguiti da una
organizzazione istituzionale siano dettati più da implicazioni
valoriali di base [Schein, 1984, 1985; Simon, 1947; Crozier,
1963] che da logiche razionali [Taylor, 1967; Weber, 1961;
Drucker, 1967], come invece succede nella maggior parte delle
organizzazioni non istituzionali.
Le istituzioni sono però soggette al degrado, alla
distruzione in seguito a processi di usura senza risarcimento.
L’utilizzo e il consumo di queste risorse infatti spesso è attuato
da soggetti autointeressati, che se ne appropriano e le sfruttano
per il raggiungimento di scopi propri, che non solo non
coincidono con quelli comuni, ma spesso sono in contrasto con
questi. Quando l’utilizzo delle risorse istituzionali non è
bilanciato da un adeguato risarcimento, si generano delle
diseconomie tra domanda e offerta di istituzioni. Allora le
istituzioni si logorano, e come bene comune tendono a essere
overgrazed
18
da questi attori autointeressati [Donolo, 1997] .
Esse hanno difese inadeguate, e il tipico ricorso alla
normazione comporta la necessità di legittimare e motivare il
proprio monopolio di autorità, finendo per indebolire le stesse
difese. Quando si arriva a un overgrazing istituzionale diffuso,
e non solo locale, si arriva a un punto critico, a un carico di
rottura.
18
“Overgrazing” è un termine metaforico usato per spiegare i processi di
degrado di pascoli ad accesso non regolato.