israeliana, in quanto riteniamo che la costituzione dello Stato d'Israele abbia falsato molti
valori dell'ebraismo nell'intento di conquistare un possesso territoriale in realtà ben più
limitato di quello che gli ebrei hanno sempre posseduto costituendo prolifiche comunità in
tanti paesi del mondo. Questo concetto è stato sinteticamente, nonché poeticamente,
espresso da Herman Cohen quando, negli anni Venti, in risposta all'invito di Martin Buber
di appoggiare il sionismo, rispose:
Veramente gli ebrei vogliono abbandonare la loro storica vocazione di aiuto alle altre
nazioni e cercare semplicemente di diventare felici?2
La seconda ragione è data dalla nazionalità del modello teorico utilizzato.
Suggeriremo, infatti, un approccio liberale al problema del disagio femminile nella
comunità ebraica, ispirati da uno dei più fecondi dibattiti filosofico-politici contemporanei,
quello tra liberalismo e comunitarismo. Vedremo infatti come la comunità ebraica presenti
nella sua struttura etico-politica forti tinte comunitariste: l'individuazione di un bene
dominante, un forte senso di appartenenza, l'importanza delle virtù come abito dei
cittadini, a ciascuno dei quali viene assegnato un ruolo specifico al fine di creare una
cooperazione atta alla realizzazione del Bene comune.
Inoltre, proprio in connessione a ciò, ma non esclusivamente per questo, c'è un
terzo motivo di ordine bibliografico poiché il materiale specifico sulla posizione della donna
entro le comunità ebraiche che abbiamo a disposizione è in lingua anglosassone e relativo
alla comunità americana.
L'ebraismo si presenta, dunque, come una vera e propria narrazione, centrata su
alcuni fattori fondamentali: essa è "good-centered, virtues-centered, community-centered",
dove i termini dell'accentramento sono tutti organizzati in modo tale da permettere il
raggiungimento di un fine dominante, di un iperbene, che è l' essenza stessa
dell'ebraismo, cioè il messianismo3. Il popolo ebraico si sente investito della missione del
messianismo, come:
2Citato da A. Yehoshua, Come imparare ad essere israeliani, in "La Repubblica", 29 Novembre 1995, p. 34.
3Cfr. S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano 1990, p.62: «E tuttavia l'‹essenza›
dell'ebraismo non sta nell'osservanza dei precetti ma nel messianismo».
speranza pneumatica, indeterminata, di natura così morale e religiosa da implicare una
trasfigurazione morale degli uomini4.
Per realizzare questa missione messianica, a cui è stato chiamato dall'alleanza con
Dio, il popolo teoforo deve raggiungere al suo interno una forma di totale santità e purezza
e ciò è possibile attraverso l'adempimento delle mizvoth imposte dalla Legge. Da ciò
deriva l'importanza dell'Halakhà, della via legalistica che incorpora in sé tutti gli aspetti
della vita, e del ruolo dei dottori della legge i quali, interpretandola ed elaborandola nel
corso dei secoli, hanno permesso al popolo ebraico di farne la propria norma anche nei
territori stranieri che lo hanno ospitato nel corso delle persecuzioni subite.
Il punto archimedeo del disagio femminile è rappresentato dal fatto che le donne,
pur sentendosi pienamente coinvolte da questo progetto messianico, in quanto
appartenenti al popolo ebraico, di questo fine sono solamente il mezzo, costituendo una
sorta di proletariato morale, definito e plasmato in modo tale da essere utilizzabile per
questo progetto, ma mai pienamente coinvolto nei valori e nelle pratiche realmente
significative dell'ebraicità.
Blu Greenberg, una delle più importanti teoriche del femminismo ebraico, ha,
secondo noi, riassunto in una frase questo problema, scrivendo che «Where there is a
rabbinic will there is a halchic way», rivelando come la gestione umana dell'halakhà
costituisca uno strumento potentissimo con cui partecipare al processo di elaborazione e
costruzione di questa complessa realtà religiosa, morale e legale, e come la struttura
giuridica dell'ebraismo non sia stata assolutamente data una volta per tutte attraverso la
Torah, ma richiami costantemente il fedele a leggervi e trovarvi una soluzione adeguata
per tutti i problemi, in ogni tempo e luogo, dell'esistenza ebraica5.
Da tale potere le donne, come vedremo nel corso del secondo e del quarto capitolo,
sono sempre rimaste escluse con la conseguenza che sono state investite di ruoli,
4V. Jankélévitch, La coscienza ebraica, tr.it. a cura di D. Vogelmann, La Giuntina, Firenze, 1986, p.58.
5B. Greenberg, On Women and Judaism. A view from Tradition, The Jewish Publication Society of America,
Philadelphia, 1981, p.44: «A central theme seems to emerge: where there was a rabbinic will, there was a
halakhic way. This is not to say that talmudic and post-talmudic literature is not "the law of Moses at Sinai". It
is that, but it is also the substance of rabbinic will finding a halakhic way».
aspirazioni e desideri che non sempre hanno conciso con quelli che realmente nutrono la
loro spiritualità ebraica e femminile. Esse sono state riposte nella sfera domestica, isolate
dai luoghi pubblici dell'espressione religiosa, e poste a capo di un'istituzione, quale quella
della famiglia, che al contempo spesso rappresenta una trappola oppressiva. Manca,
dunque, alle donne il potere di essere veramente e attivamente partecipi del proprio
mondo.
In conformità a questa prospettiva il movimento femminista ebraico opera in due
direzioni: da una parte punta il dito sull'esclusione delle donne dal diritto di accedere alle
cariche più importanti entro la comunità, dall'altro mette in atto un meccanismo di
pressione sulle autorità rabbiniche, al fine di indurle a porre un definitivo rimedio alle
condizioni di maggior disagio che affliggono la donna (lo status di agunah, l'impossibilità di
chiedere il divorzio o di testimoniare, le leggi relative alla proprietà). A nostro parere la
prima delle due direzioni è la più importante e costituisce l'unico strumento per dare una
reale autonomia e una piena cittadinanza al mondo femminile. Qualora, infatti, si affermi la
necessità di modificare le leggi che più da vicino riguardano le donne, tali modifiche
devono essere pensate e realizzate dalle donne attraverso il loro accesso a
quell'elaborazione del diritto ebraico che non si è mai conclusa. Demandare, come sinora
si è fatto, ai rabbini la responsabilità di apportare miglioramenti alla posizione della donna
vuol dire prorogare quella situazione di paternalismo di cui, come dice la Greenberg, le
donne non hanno bisogno.
Come vedremo nell'ultimo capitolo, in realtà non tutte le comunità ebraiche sono
rimaste insensibili alle rivendicazioni femministe, ebraiche e non. Negli Stati Uniti e in Gran
Bretagna, soprattutto, esistono dal secolo scorso comunità progressiste e liberali che
hanno dato risposta sia alle nuove esigenze sociali e politiche poste dalla realtà ospite,
apportando sostanziali modifiche alla ritualità, sia alle richieste delle organizzazioni
femministe, dando piena cittadinanza alle donne. Non è un caso che per questi nuovi
movimenti il sistema halachico non sia primario, bensì secondario e strumentale rispetto a
quello che può essere considerato un elemento imprescindibile dell'ebraismo: l'alleanza.
In altre parole, non l'osservanza, possibilmente letterale, della legge può essere a lungo
andare la carta d'identità e il metro dell'essere-ebreo, ma la risposta viva alla volontà di
Dio, in rapporto alla situazione. Oggi la fedeltà all'alleanza di Dio con il suo popolo non
può essere una semplice ripetizione della fede ebraica classica6.
In questo modo si lascia maggior spazio all'individualità del singolo credente, il quale non
deve soggiacere alle regole spirituali imposte dal rabbinato, ma può partecipare
attivamente alla costruzione dell'ebraismo e pensare autonomamente la propria ebraicità.
Come vedremo, però, questa forma di privatizzazione del culto non è che uno dei
modi di dare una risposta al problema femminile, nella misura in cui alcune femministe
propongono che comunque il rabbinato mantenga la sua funzione spirituale e che questa
sia semplicemente accessibile alle donne, e altre si limitano a rivendicare il diritto
femminile di accedere agli altri incarichi importanti della comunità.
Premettiamo che il nostro punto di vista ha cercato di rimanere sempre interno alle
ragioni d'essere dell'ebraismo; di conseguenza non siamo mai entrati nel merito della reale
origine divina della Bibbia, su cui gli stessi pensatori ebrei (come "l'eretico" Spinoza) non
concordano; né abbiamo voluto esprimere un giudizio sul contenuto delle pratiche e del
culto ebraico, delle leggi e dei rituali, limitandoci a segnalare alcune palesi discriminazioni
nei confronti delle donne.
È vero, però, che ci siamo serviti di tre assunzioni forti che costituiscono la linea
guida del nostro lavoro. La prima consiste, come abbiamo già detto, nel dichiarare il valore
che, secondo noi, possiede l'accesso delle donne al rabbinato. Più volte nel corso dei
capitoli abbiamo rilevato l'importanza che avrebbe per affermare la totale autonomia
femminile il diritto di partecipare all'elaborazione dell'Halakhà. Questa prima assunzione
implica necessariamente la seconda, presente nel quarto capitolo, circa la possibilità che
l'ebraismo possa concepire questo diritto. Abbiamo infatti assunto la natura
giusnaturalistica dell'impianto legalistico mosaico, in virtù della quale le leggi che per gli
ebrei furono date da Mosè sul Sinai hanno il carattere di leggi naturali e possiedono come
interlocutori ed esecutori tutti coloro che furono presenti a quell'evento, il popolo ebraico
nella sua interezza. Da ciò consegue che il monopolio rabbinico maschile è di carattere
6H. Küng, Ebraismo, tr.it. a cura di G. Moretto, Rizzoli, Milano 1992, p. 533s.
positivistico e successivo al primo stadio naturale, e che esso non può essere giustificato
mediante il suo mandato divino.
La nostra terza e più importante assunzione è rappresentata, come accennato
sopra, dalla teoria filosofico-politica liberale rawlsiana, che a nostro parere può fornire un
modello alternativo a quello tradizionale per individuare un nuovo status della donna nel
mondo ebraico7. Si tratta di un parametro prettamente occidentale, che secondo noi
contiene indicazioni capaci di operare idealmente all'interno della struttura religiosa
ebraica a sostegno delle rivendicazioni femministe pur rispettandone i valori fondamentali,
come dimostra il fatto che le comunità riformate, americane e britanniche, hanno già fatto
propri alcuni di questi valori, che hanno avuto modo di assorbire direttamente.
Nel capitolo terzo abbiamo cercato, infatti, di mostrare quanto i tre concetti chiave
su cui s'impernia il liberalismo rawlsiano, giustizia, libertà ed eguaglianza, siano molto forti
anche all'interno dell'ebraismo, pur con ovvie modifiche dovute alla componente religiosa
di questa tradizione, la quale implica che questi valori abbiano sempre Dio come referente.
Anche il femminismo ebraico - ne consegue - va inquadrato necessariamente all'interno
della più vasta concezione spirituale ebraica. È pur vero che molte delle citazioni utilizzate
nel nostro lavoro riguardano il movimento femminista laico europeo o americano, o che
alcune autrici spesso citate, come Mary Daly, non appartengono al mondo ebraico; ciò è
stato reso possibile dalle molte affinità rilevate tra i termini con cui queste pensatrici
denunciano il disagio femminile nel mondo secolare occidentale e quelli utilizzati dalle
femministe ebree. Le organizzazioni femministe prese in esame, inoltre, per lo più
appartengono al mondo americano, dal quale hanno assorbito molti valori, come quello
della eguaglianza, della privacy, dell'autonomia. Occorre però precisare che il percorso del
femminismo ebraico è necessariamente diverso in alcuni aspetti da quello americano ed
europeo, perché comunque le femministe ebree portano inscritto nel proprio patrimonio
spirituale dei valori che non possono porre in secondo piano rispetto ai diritti della loro
femminilità. Esse, dunque, devono cercare un compromesso tra la tradizione a cui
appartengono e i nuovi e affascinanti richiami del femminismo occidentale.
7
I testi a cui ci riferiamo sono J. Rawls, Una teoria della giustizia, tr.it. a cura di U. Santini, Feltrinelli, Milano
19914 e J. Rawls, Liberalismo politico, tr.it. a cura di G. Rigamonti, Edizioni di Comunità, Milano 1994.
La famiglia, per esempio, va sempre tutelata come istituzione primaria all'interno
dell'ebraismo. Come afferma la Greenberg:
The very centrality of the family means that feminists who take Judaism seriously will
explore every possible avenue of strengthening the family and correcting its evils before
dismissing it. (This includes a willingness to suffer some disabilities, if necessary, and to
live at times with frustration for the sake of the greater goal of Jewish survival and
stability)8.
Dunque non si tratta di rifiutare questa istituzione, ma di mutare gli aspetti oppressivi che
essa impone alle donne. Una possibile direzione che la femminista americana propone
può consistere nel maggiore coinvolgimento dell'uomo all'interno della sfera domestica.
Una seconda caratteristica del femminismo ebraico consiste infatti nella certezza che
anche gli uomini debbano essere liberati, e che non ci possa essere una liberazione
femminile finché si assumano gli uomini come controparte ostile.
We must check the excesses of those feminists who are ostile to men. Jewish women do
not need to hate men to liberate themselves. [...] Instead of polarizing, we must try to
liberate men so that [...] they, too, can come to understand and grow in their tradition9.
Il rifiuto di una politica separatista da parte del femminismo ebraico è dovuto anche al forte
senso di "instituzionalization of sexual and social status". Si tratta del concetto ebraico
secondo il quale Dio ha creato la prima donna e il primo uomo come esseri differenti
perché ha attribuito loro diverse funzioni e diversi scopi. Di conseguenza molti ebrei e
molte ebree rifiutano il femminismo perché vi vedono implicito l'annullamento di queste
differenze, l'errato desiderio delle donne di diventare come gli uomini. Come sottolinea la
Aiken:
multiple goals in Judaism allow women to be valued in their own right, not only when they
are like men10.
8B. Greenberg, Judaism and Feminism, in E. Koltun, The Jewish Woman. New Perspectives, Schocken
Books, New York 1976, p. 186.
9
Ivi , p. 190.
10L. Aiken, To Be A Jewish Woman, Jason Aron Inc., Northvale (New Jersey), 1992, p. 30.
Come, vediamo dunque, il femminismo ebraico ha fatto proprio il concetto dell'eguaglianza
nella differenza, però con sostanziali diversità rispetto allo stesso traguardo raggiunto dal
femminismo europeo e americano, perché sempre resta vivo il progetto ebraico di
realizzare una meta precisa al raggiungimento della quale tutti devono contribuire con la
loro specificità, impegnandosi in determinati ambiti. Ciò che le femministe ebree chiedono
è di poter partecipare più attivamente, da decisioniste, a questo progetto.
A partire da questi aspetti dell'ebraismo, abbiamo ritenuto che i valori proposti
nell'opera rawlsiana possano essere d'aiuto nel sostenere le innovazioni che il movimento
femminista ebraico vuole apportare nel rispetto della tradizione in cui esso è inserito.
Vedremo come il valore dell'autonomia, in virtù del quale le donne devono poter scegliere
liberamente il proprio progetto di vita, l'importanza del rispetto di sé, a cui contribuisce quel
riconoscimento sociale che si ottiene attraverso l'impegno vivo nella comunità,
l'inserimento delle donne in un sistema educativo di livello superiore, la libertà politica
come libertà di partecipazione e costruzione del proprio mondo, sono tutti concetti che il
liberalismo in generale, e quello rawlsiano in particolare, portano alla ribalta e che possono
essere acquisiti dall'universo femminile ebraico non per prendere le distanze dalla propria
tradizione, e cercare una liberazione dai suoi valori oppressivi, ma proprio per poter
continuare a sentirsene partecipi, per trovare nuove fonti di valori e nuove prospettive da
cui arricchirla e rafforzarla, per porre fine al carattere oppressivo di ruoli, come quello
moglie/madre, e quello assistenziale, che perdono ogni loro significato e valore se imposti
come l'unica alternativa possibile.
Non si tratta, dunque, di utilizzare questi valori per disconoscere l'essenza
dell'ebraismo, per rinnegare il progetto messianico, per tirarsi indietro dal fine per il quale il
popolo ebraico sa di esser stato chiamato da Dio, bensì si tratta di accettarli per fare in
modo di recuperare nuove forze spirituali, quelle femminili, che l'ebraismo ormai sta
perdendo.
Per realizzare il progetto appena esposto, è stato necessario dividere il presente
lavoro in cinque parti fondamentali, dotate di una loro autonomia, ma legate dagli assunti
cui si è accennato.
Il primo capitolo, infatti, si occupa dell'analisi delle fonti bibliche e dei passi toraitici
relativi allo status femminile all'interno del diritto ebraico.
Il secondo capitolo descrive i termini comunitaristici della comunità ebraica e il ruolo
che essi assegnano alla donna. In esso viene analizzata la centralità della famiglia,
l'ingerenza del rabbinato nell'ambito della vita personale e intima del credente, il ruolo
della tradizione, il forte sentimento di appartenenza che caratterizza i membri della
comunità ebraica. È stato inevitabile, data la centralità che abbiamo inteso assegnare al
modello liberal di Rawls, richiamare alcune tematiche che in polemica diretta con questi,
hanno sviluppato negli anni Ottanta i teorici del comunitarismo, che si richiamano a motivi
vicini a quelli della tradizione ebraica.
Nel terzo capitolo offriamo una lettura ebraica dei concetti di giustizia, libertà ed
eguaglianza, nella prospettiva che si richiamava più sopra.
Il quarto capitolo contiene l'assunto del carattere giusnaturalistico delle leggi
noachiche e mosaiche, che fonda il diritto delle donne ad accedere all'elaborazione
dell'Halakhà. Attraverso i filosofi giusnaturalisti classici e moderni, e ai filosofi ebrei che
hanno appoggiato o criticato la tesi della legge naturale ebraica, sottolineeremo il carattere
positivo del monopolio maschile della Legge, e analizzeremo il significato dell'esclusione
delle donne dall'accesso allo studio, dalla partecipazione ai momenti importanti della
sinagoga, dal rabbinato.
Infine, nel quinto capitolo proporremo una panoramica sul mondo femminile
secolare e sui concetti chiave del liberalismo americano. Ciò sarà utile per comprendere
meglio le problematiche del femminismo ebraico e per mostrare quali suggerimenti teorici
può offrire ad esse il liberalismo rawlsiano di Una teoria della giustizia .
CAPITOLO PRIMO
LE FONTI E LA TRADIZIONE
Il motivo per cui abbiamo voluto iniziare questo lavoro con l'analisi di alcune parti
del Pentateuco, i primi cinque libri dell'Antico Testamento, è dato dal fatto che esso
costituisce la fonte della legge religiosa, morale e sociale del popolo ebraico11. Riteniamo
che un esame del contenuto di questi testi, relativamente agli argomenti che affronteremo
nel nostro lavoro, e del modo in cui sono stati di volta in volta interpretati e riadattati ai
tempi e ai luoghi che gli ebrei hanno attraversato durante la loro peregrinazione, ci possa
fornire i mezzi per conoscere l'ebraismo e capire, sulla base di questa conoscenza, sia le
origini sociali e religiose dello status della donna nella società ebraica, sia le alternative
teoriche che ne potrebbero favorire un cambiamento.
È importante precisare che la Torah non è l'unico testo sacro ebraico a contenere
una parte legalistica12. Infatti un discorso sul diritto ebraico non sarebbe mai completo
senza l'esame della parte halakhica contenuta nell'altro fondamentale libro sacro, il
Talmud13. Ma abbiamo preferito aprire il nostro studio con la disamina della sola Torah
proprio in quanto essa contiene la prima legge codificata ebraica14 su cui si fonda quella
successiva, elaborata nel periodo post-biblico, e contenuta nel Talmud il quale, con le sue
due parti, la Mishnah e la Gemarah, rappresenta:
il monumento legislativo in cui vengono a depositarsi, a sfociare tutte le norme non scritte
dei secoli più antichi e tutta l'elaborazione dei secoli posteriori15.
L'analisi del Talmud è perciò rinviata al secondo capitolo, dove ne esamineremo le parti
relative alle leggi in materia di matrimonio e divorzio, aborto e sessualità che hanno come
soggetto soprattutto la donna e che rappresentano, non a caso, il maggiore bersaglio delle
11Pentateuco è il nome greco dei primi cinque libri della Bibbia. Il nome ebraico è Chomàsh.
12Torah è un sostantivo femminile la cui radice ha un duplice significato: il primo è quello di porre
fondamenta, il secondo quello di istruire, insegnare.
13Dal verbo HaLaKH, camminare, procedere, rappresenta la parte normativo-giuridica della tradizione
ebraica.
14Precedente ad essa sono le norme non scritte della primitiva società nomade ebraica.
15
Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1949, p. 377.
critiche avanzate dalle femministe ebree16. La Bibbia rappresenta il punto di partenza del
nostro lavoro anche perché riteniamo che il giusto modo per affrontare il tema del rapporto
delle donne con la religione ebraica non sia quello di rifiutare il testo sacro dell'ebraismo in
quanto riflesso di una tradizione religiosa così fortemente intrisa di patriarcalismo da
rendere, per usare un'espressione della teologa femminista tedesca Marga Bührig, la
donna "invisibile" di fronte a un Dio patriarcale17. Occorre invece che le donne rileggano il
testo sacro per "depatriarcalizzarlo"18 e per riappropriarsi del loro passato e, quindi, del
loro ruolo legittimo nell'elaborazione dell'ebraismo del domani.
1.1 La Torah: lo strumento dell'alleanza
«Mi sarete un regno sacerdotale e una nazione santa» (Es. XIX, 6). Con queste
parole venne suggellata la terza alleanza tra Dio e l'uomo19, quel patto che avvenne sul
Sinai e che rappresenta il momento più alto della storia del popolo ebraico; esso infatti
costituisce l'elezione di Israele al duplice ruolo di "regno di sacerdoti", per mezzo del quale
Israele veniva chiamato al compito universale di servire l'intera umanità20, e di "nazione
santa", con il quale veniva destinato ad una vita di isolamento da tutte le altre nazioni e di
totale dedizione a Dio, attraverso il rispetto di una serie di norme atte a condurlo verso un
16Da notare che il terzo dei sei ordini in cui è divisa la Mishnah, e contenente le leggi sul matrimonio e il
divorzio, le norme relative al rapporto tra i coniugi e tra i due sessi in generale, è chiamato Nashim (Donne),
quasi ad affermare quell'identificazione tra donna e famiglia che di fatto esiste nell'ebraismo.
17Cfr. M. Bührig, Donne invisibili e Dio patriarcale, tr.it a cura di M. Abate Leibbrand, Claudiana, Torino
1989.
18Cfr. P. Trible, Depatriarchalizing In Biblical Interpretation, E. Koltun, Op.cit., pag. 217-240. Relativamente
al carattere patriarcale della Bibbia, esistono tesi contrastanti. A sostenere l'ipotesi secondo la quale la
religione profetica rompe con le strutture patriarcali è, per esempio, Max Weber, Sociologia delle religioni.
Tra gli autori più recenti ricordiamo la teologa Rosemary Redford Ruether, la quale sostiene che sia nel
Vecchio che nel Nuovo Testamento sia presente la critica al patriarcato, e vede nella tradizione profetica e
liberatrice della fede biblica la corrente principale di questa critica. Invece scettica sulla possibilità di un
rilettura depatriarcalizzante della Bibbia è M. Daly in Al di là di Dio padre, tr.it. di D. Maisano e M. Lister,
Editori Riuniti, Roma 1990, pag. 245-246.
19La prima è quella tra Dio e Noè ed è simbolo dell'alleanza con l'umanità nel suo complesso, la seconda è
quella tra Dio e Abramo (confermata con Isacco e Giacobbe), la terza è appunto quella tra Dio e il popolo
ebraico attraverso la mediazione di Mosè.
20Cfr. E. Levinas, L'al di là del versetto. Letture e discorsi talmudici, tr.it. a cura di G. Lissa, Guida ed., Napoli
1986, pag. 47: «Esso [il popolo ebraico] è, infatti, intimamente legato a una concezione del religioso che,
riponendo l'essenza del divino nella morale, trasforma la religione ebraica in una religione universale,
suscettibile d'essere comunicata a ogni uomo».
particolare costume di vita, una vita di santità21. Queste norme sono contenute nella
Torah, la Legge che Dio diede a Mosè affinché fosse per Israele lo strumento di
educazione alla santità, la via da percorrere per realizzare l'invito che Dio rivolse ai figli
d'Israele: «Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo» (Lev. XIX, 2). Dunque
berith (patto) e torah (legge) diventano gli elementi di cui è costituito il destino del popolo
ebraico, partner in una alleanza che gli richiede, per rimanere il popolo di YHWH, il rispetto
di quei comandamenti ricevuti sul Sinai che esprimono la volontà di Dio.
Il diritto ebraico, scaturente dal Pentateuco, presenta due caratteri particolarmente
importanti per il nostro studio. In primo luogo possiede un carattere unitario: in esso è
impossibile porre una distinzione tra leggi religiose, civili, penali, legislazione sociale e
idea morale, in quanto la santità investe tutti gli aspetti e gli atti della vita. La seconda
peculiarità del diritto ebraico consiste nel fatto che, dopo esser stato accettato
volontariamente sul Sinai, le vicende storiche del popolo d'Israele, vicende di persecuzioni
e continui peregrinaggi, hanno fatto si che esso non fosse semplicemente un canone
giuridico, ma diventasse il cemento unitivo e la base dell'esistenza, ma soprattutto della
sopravvivenza, di Israele come popolo. Come afferma Parsons, nel suo studio sulle
società tradizionali,
Lo status della legge come mezzo per stabilire la relazione con Javè forniva il fondamento
più importante per la natura particolare della comunità societaria israelitica, solitamente
indicata con il termine di popolo. Il popolo era definito tanto in base all'essere stato
"eletto", quanto in base all'essersi in un certo senso volontariamente associato al suo
interno. [...] questa concezione del "popolo" produsse il simbolismo costitutivo necessario
al mantenimento dell'identità societaria, che sopravvisse non tanto alle "persecuzioni"
quanto alle pressioni tese all'assorbimento esercitate su di esso da parte di società
complesse22.
Così, ovunque gli ebrei venissero portati dalla golah (emigrazione), qualunque
dominazione subissero,
21Cfr. I. Epstein, Il Giudaismo, tr.it. a cura di V. Di Giuro, Feltrinelli, Milano 1987, pag.15.
22T. Parsons, Sistemi Di Società. I. Le società tradizionali, tr.it. a cura di D. Pianciola, Il Mulino, Bologna
1971, pag. 183.
il primo obbligo degli Ebrei era nei confronti della legge ebraica e non in quelli dell'autorità
politica - questo è il senso dell'episodio di Daniele e dei suoi compagni in Babilonia23.
Da queste due proprietà, l'aspetto unitario e quello strutturale del diritto ebraico,
deriva il carattere etico del patto e il carattere di ius naturae et gentium dei sette
comandamenti che Dio diede a Noè (e quindi a tutta l'umanità)24. Infatti, questa
concezione ebraica della legge naturale sarà destinata ad essere assimilata dai primi
cristiani, i quali affermarono che ciò che dell'Antico Testamento era espressione di legge di
natura andava accettato25.
1.2 Legge morale e legge religiosa
Ciò che risulta subito evidente dalla lettura delle prescrizioni contenute nei primi
cinque Libri della Bibbia è l'esistenza di un forte connubio tra morale e religione, legame
da cui consegue quello tra membro singolo e collettività che caratterizza la comunità
ebraica. Questa, infatti, si costruisce sul valore della solidarietà tra tutti gli individui, i quali
creano una unità morale tale che la colpa dell'uno ricade su tutti gli altri e la preghiera del
singolo è recitata sempre al plurale, nel nome di tutti i fratelli.
L'idea del peccato acquista una base sociale: io e l'altro diventiamo moralmente uno, per il
fatto che il suo peccato diventa mio ed io partecipo della sua colpa […] Noi viviamo
insieme in società per guardarci a vicenda dal male e guidarci scambievolmente verso il
bene. Agli occhi di Dio una società ha il diritto di esistere solo se aspira a compiere il
bene26.
23
Ivi , pag. 182.
24Essi concernono la giustizia tra uomo e uomo, la proibizione di adorare idoli, di bestemmiare, uccidere,
rubare, commettere incesto e mangiare parti tagliate da animali vivi.
25San Giovanni Crisostomo vide nei Dieci Comandamenti una codificazione della legge naturale. L'analisi
della legge ebraica come legge naturale, tema assai controverso su cui non tutti gli studiosi concordano, è
rinviata al capitolo 4.
26L. Baeck, The Essence of Giudaism, pag. 219-220, (citato da D.Lattes, Aspetti e problemi dell'Ebraismo,
Carucci, Roma 1980, pag. 66).
Questo è il concetto, centrale nell'ebraismo, della responsabilità collettiva in virtù
della quale l'individuo diventa strumento attraverso il quale raggiungere la meta collettiva
dell'ordine morale basato sulla giustizia e la misericordia sia di fronte a Dio che di fronte al
prossimo27. Come afferma Epstein:
L'intimo rapporto tra leggi religiose e leggi morali non è casuale, ma è frutto degli elementi
morali presenti nelle prescrizioni religiose. [...] le prescrizioni religiose hanno una carica di
dinamismo morale capace di trasformare l'individuo e, per suo tramite, la società di cui
l'individuo è un'unità. Conformemente, l'inosservanza della legge religiosa non è più una
questione privata; in quanto indebolisce la fibra morale di un uomo e la sua capacità di
resistere al male, ogni infrazione della legge religiosa è un delitto commesso, in un certo
senso, contro la società. E analogamente, l'osservanza della legge religiosa non è più un
fatto isolato; contribuendo a far salda la morale dell'individuo e riverberandosi perciò sul
suo comportamento generale, essa è un fatto sociale28.
Degna di nota è anche la priorità, presente nell'ebraismo, della ortoprassi
sull'ortodossia, che ci permette di porre ulteriormente in luce come la Legge sia:
concretamento della morale, espressione del dovere, della linea di condotta in relazione
all'ideale che va raggiunto, alla spiritualità che va effettuata; legge che sorge dalla
coscienza e dallo spirito collettivo, messo a contatto con l'infinito coll'universale, e
proiettata nel tempo29.
Per l'ebraismo, dunque, viene prima il "fare", l'azione attraverso la quale dimostrare
la propria fede. E tale priorità si riflette nel pensiero di molti filosofi ebrei: Spinoza rifiuta la
separazione tra intelletto e volontà, Maimonide respinge la dottrina platonica secondo la
quale prima Dio contemplò le idee e poi creò il mondo e Ibn Gabirol afferma che la
conoscenza deve essere accompagnata dall'azione30.
27Sul concetto di responsabilità collettiva vedi D. Lattes, Ivi , pag. 61-68 e, dello stesso autore, Apologia
dell'ebraismo, Formiggini editore, Roma 1952², pag. 49: «Questa è la concezione ebraica, che si potrebbe
chiamare della responsabilità collettiva e che non permette all'uomo la sterile contemplazione né gli
consente di ritirarsi nella torre d'avorio del suo Io, ma che gli chiede di espandersi nell'Umanità non ponendo
confini alla sua azione».Vedi, anche, E. Levinas, Op.cit. pag. 159: «Kol Israèl arévim zé lazé, ‹Tutti in Israele
rispondono di tutti› significa: tutti gli aderenti alla Legge divina, tutti gli uomini veramente uomini sono
responsabili gli uni degli altri».
28
I. Epstein, Op.cit., p. 19.
29D. Lattes, Apologia ....., cit., pag. 29.
30AAVV, L'eredità di Israele, tr.it. a cura di C. Galimberti, Vallardi, Milano 1960, pag.478.
1.3 Lo status della donna nel diritto ebraico: "la donna valente"
L'esame dei passi del Pentateuco relativi alla condizione della donna nella società
ebraica del periodo biblico ci mostrano, in primo luogo, che le donne vengono poste dal
diritto in una "situazione di ceto". Mutuando questa espressione dalla celebre opera di Max
Weber, Economia e Società, definiamo tale situazione come:
ogni componente tipica del destino di un gruppo di uomini, la quale sia condizionata da
una specifica valutazione sociale, positiva o negativa, dell' "onore" che è legato a qualche
qualità comune di una pluralità di uomini31.
Ciò è confermato anche dalla tesi, sostenuta da Saul Berman nel suo
interessantissimo studio sullo status della donna nel giudaismo halakhico:
Womanhood, within Jewish law, constitutes an indipendent juristic status, shaping to
varying degrees every legal relationship and being characterized by a special set of rights
and duties determined extrinsically by law rather than by contractual agreement 32.
Siamo del tutto d'accordo nel notare, insieme con Berman, che spesso l'uso di
attribuire ad uno specifico gruppo sociale una serie di diritti e doveri mediante il
conferimento di un determinato status è finalizzato ad un progetto più ampio: mantenere in
vita un certo assetto sociale mediante il controllo di tutti quei gruppi che possono costituire
potenziali fonti di disturbo 33.
Però, mentre Berman, in una nota, afferma che la funzione dello status come
mezzo per sfruttare il debole, piuttosto che proteggerlo, non gli sembra un discorso
presente nel diritto ebraico, a noi sembra invece che sia pratica da sempre utilizzata dai
31M. Weber, Economia e Società, tr.it. a cura di T. Biagiotti, F. Casabianca, P. Chiodi, E. Fubini, G.
Giordano, P. Rossi, Edizioni di comunità, Milano 1974, Vol.II, pag. 236
32S. Berman, The Status Of Women In Halakhic Judaism, in E. Koltun, Op.cit., pag.118
33S. Berman, Ibidem.