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considerate motori di sviluppo e forze motrici del
cambiamento sociale. Questa concezione, che parrebbe dare
alla tecnologia un primum mobile dello sviluppo e del
progresso, in realtà si scontra con i dubbi riconducibili a
questa centralità nello sviluppo economico e sociale, nelle
nuove forme di relazione, nel lavoro e nella vita associativa
privata, nelle nuove configurazioni di partecipazione alla res
pubblica.
Le varie etichette attribuite al periodo che noi tutti stiamo
vivendo sono esse stesse sintomatiche delle ambivalenze
insite nelle attese e nelle rappresentazioni della società
all’inizio del XXI secolo. Appare necessario adottare una
linea interpretativa, che possa andare anche oltre il campo di
pertinenza dei media studies, e che costruisca su una certa
flessibilità interpretativa, la sua base. Evidentemente questa
scelta può apparire azzardata, ma occorre contestualizzarla
rispetto al ritmo frenetico dell’evoluzione dell’Information e
Comunication Technology. Questa flessibilità potrebbe
rispondere, e quindi anche funzionare, all’interno di un
panorama di riferimento dinamico, complesso,
multidimensionale, più efficacemente di una linea rigida,
aut aut, che è limitata nelle sue possibilità di impiego e di
sviluppo, e che può risolversi in sterili contrapposizioni.
Lo scopo è condurre, alla luce di tali presupposti, una
riflessione sul digital divide, analizzando i meccanismi di
diffusione selettiva delle nuove tecnologie nei paesi
emergenti, gli orientamenti adeguati per governare la
tecnologia, e focalizzare l’attenzione verso locali contesti
d’uso.
È necessario superare il determinismo tecnologico che si è
accompagnato nella definizione e nella lotta al digital
divide, con il quale è stato concettualizzato il problema della
disuguale distribuzione delle ICTs tra diversi paesi o fasce
5
della popolazione, superando sia la concezione di un divario
da colmare, sia l’ottica mirata al parametro “diffusione”, che
tenga unicamente conto del tempo necessario affinché si
giunga ad una diffusione omogenea delle tecnologie tra le
nazioni e nelle nazioni. Gli interventi a sostegno della
riduzione del digital divide non possono e non devono
prescindere dallo studio del contesto all’interno del quale le
ICTs si vanno ad inserire, pena l’esposizione di quel paese
al rischio di un collasso tecnico, alla dipendenza da
determinate soluzioni, che possano giovare solo nel breve
periodo.
Il trasferimento tecnologico rappresenta solo il primo step
di un’adeguata programmazione degli interventi.
In questo lavoro è mia intenzione adottare una prospettiva
che tenga conto dell’aspetto poliedrico dell’oggetto di studio
e cercare di avanzare un’ipotesi di riduzione del gap
attraverso l’implementazione del modello di sviluppo del
software libero nei PVS.
Il software libero affonda le sue radici da un lato nell’etica
hacker e nel modello accademico, dall’altro nell’arcaica
cultura del dono. L’oggetto di scambio è la conoscenza, che
incrementa il proprio valore, attraverso una rete di
relazionali informali. La combinazione tra interesse
individuale, solidarietà e cooperazione, che caratterizza il
modello socioeconomico del software libero, rimanda
all’attuale dibattito economico, giuridico e filosofico sui
modelli di convivenza sociale. In definitiva, nelle società
postmoderne la scelta più adeguata può essere puntare sulla
cooperazione o sulla competizione?
La tesi che qui si vuol sostenere è che la valorizzazione
della cooperazione basata sulla reciprocità e della
condivisione delle conoscenze può condurre ad un nuovo
modello sociale giusto ed efficiente. I principi individuati
6
sono un ideale che sia dal punto di vista filosofico, sia sulla
base di considerazioni strumentali, sono preferibili come
paradigma sociale poiché la collaborazione scambievole
opera tanto a vantaggio dei singoli, quanto nell’interesse
delle collettività.
L’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione
dell’economia, paradossalmente, sono state associate più ad
un aumento delle disuguaglianze socioeconomiche ed a
nuove forme di esclusione piuttosto che alla riduzione delle
disparità sociali o ad un aumento della cittadinanza attiva. Si
è affievolito l’entusiasmo intorno al “potere salvifico” delle
ICTs, portando in primo piano come le nuove tecnologie
non hanno di fatto sganciato i paesi emergenti da alcune
carenze endemiche, né migliorato la loro condizione.
Consapevole del fatto che sono troppi i fattori in gioco, non
vorrei dare un onere così spropositato al modello in
questione. Naturalmente una scelta di questo tipo innesca
una serie considerazioni, delle quali occorre tener e dar
conto. Nel caso del software libero, la disponibilità del
codice sorgente consente elevate possibilità di
personalizzazione e adattamento, anche rispetto ad esigenze
legate ai locali contesti d’uso. Si pone l’interrogativo se una
tecnologia scelta e costruita socialmente, acquisibile a basso
prezzo, possa avere nel corso del tempo una notevole
diffusione sociale. Tuttavia, se da un lato, risulta chiaro che
la cooperazione con in paesi in via di sviluppo non può
basarsi esclusivamente sul trasferimento di tecnologie e di
sistemi per amministrare l’e-government, dall’altro si pone
il problema, o forse più la provocazione, della “tecnologia di
seconda scelta”, ovvero perché i paesi i via di sviluppo
dovrebbero “accontentarsi” delle piattaforme basate su
software libero, piuttosto che avere la tecnologia dominante
nei paesi industrializzati? Cercando di evitare la trappola del
7
determinismo tecnologico, faccio mia una tradizione di
pensiero che considera il rapporto tra tecnologia e società in
termini di coevoluzione. Questa prospettiva induce ad una
considerazione attenta alle dinamiche sociali e tecnologiche
in un processo di mutamento multidimensionale.
Un labirinto intricato e complesso in cui occorre muoversi
con estrema cautela.
8
Ringraziamenti
Questa tesi è il frutto delle letture, delle esperienze e delle
riflessioni maturate nei cinque anni appena trascorsi. Un
insieme di persone mi è stato vicino lungo questo percorso e
a tutte loro porgo un sentito ringraziamento.
Vorrei cominciare dalla mia famiglia che mi ha incoraggiata
e sostenuta sempre, cari mamma, papà, nonna, Francesco e
Michele spero che leggendo queste pagine possiate essere
fieri di me. Grazie a Marco, perché senza di lui sarebbe stato
tutto più difficile. Grazie a Vale e a Sabri, con le quali
abbiamo iniziato questo viaggio, condiviso gioie e dolori, e
molto di più.
Grazie a Raffaele, sempre puntuale e attento al mio
(pessimo) portoghese, mi ha aiutato in tanti momenti di
difficoltà. Grazie a Alessandra che ha condiviso con me le
tensioni dei miei ultimi giorni da studentessa e ha saputo
sopportarmi negli eccessi.
E poi grazie a tutte le persone che non hanno mancato di
offrirmi la loro disponibilità ad interviste e colloqui. Grazie
a tutti, di vero cuore.
9
1. Ripensare la società dell’informazione: nuove
opportunità e nuove esclusioni
Negli anni Cinquanta e Sessanta, la scena intellettuale è
stata dominata da una prospettiva ottimistica e unilineare
dello sviluppo basato sulla tecnologia, facendo propria una
qualche forma di determinismo tecnologico. Il ventennio
successivo ha svelato il carattere ingenuo di quella
ideologia: il calo dei livelli di produttività e di crescita, i
limiti ambientali allo sviluppo, i limiti del dello sviluppo del
welfare hanno ridimensionato le aspettative connesse alle
innovazioni tecnologiche e hanno determinato un’incertezza
di fondo nelle analisi e nella ricerca di un quadro
interpretativo univoco. La velocità, la rapidità con cui le
tecnologie si evolvono e penetrano nel quotidiano rendono
rapidamente obsoleti i modelli interpretativi. Accade che la
tecnologia o la scienza siano allo stesso tempo mitizzate o
demonizzate.
Il dibattito sugli effetti del nuovo paradigma tecnologico
sulla condizione umana, in effetti, non ci aiuta a capire cosa
stia effettivamente accadendo. La polarizzazione “abusata”
tra apocalittici e integrati, in altre parole tra chi giudica
questo cambiamento essenzialmente in senso “orwelliano”,
10
esprimendo preoccupazioni eccessive sui rischi per la libertà
individuale e per un'eccessiva mercificazione dell'individuo
e chi, invece, esalta le potenzialità liberatorie dei computer e
delle autostrade informatiche, risulta sterile
I tecnoentusiasti eccedono nel considerare le nuove
tecnologie informatiche la via d'uscita dalla crisi strutturale
delle società occidentali e celebrano la Rete come il nuovo
luogo di definizione dell'individuo, una nuova sfera
pubblicadiscendente diretta dell'agorà ateniese tralasciando
del tutto l'aspetto dell'esclusione di grandi masse di
individui da questo nuovo mondo digitale. I neoluddisti si
proclamano con orgoglio contrari alla realtà tecnologica,
sottolineando gli effetti dannosi di computer e Internet.
Mentre questa contrapposizione si pone la questione del
nuovo in un’ottica bilaterale, qui si crede più opportuno
porsi il problema del “nuovo” in un’ottica di mediamorfosi
1
,
piuttosto che di vera e propria rivoluzione. Tale prospettiva
rende estremamente sottile i confini tra singoli sistemi
mediali favorendo ibridazioni e mutazioni reciproche. De
Kerckhove (1998) ci illumina:
La forma della radio è stata rivelata dalla tv. La forma della
tv è divenuta manifesta soltanto dopo l’invenzione del
computer. La forma del computer è già possibile
comprenderla meglio perché siamo entrati nel mondo delle
Reti. La forma delle reti, invece, non è ancora visibile,
perché non c’è nessun medium più avanzato delle Reti.
1
L’espressione è riferita alle posizioni espresse da R. Fidler,
Mediamorfosi. Comprendere i nuovi media, a cura di R. Andò e A.
Marinelli, Edizioni Guerini e Associati, Milano 2000.
11
L’idea che sta alla base di questo discorso, ampiamente
trattata dal volume di Bolter e Grusin, “Remediation”
(2002) è frutto dell’acuta intuizione, ormai più di
quarant’anni fa, di Marshall McLuhan, il quale nelle pagine
iniziali di Understanding Media (trad. it. Gli Strumenti del
Comunicare), aveva proclamato che il contenuto di un
medium è sempre un altro medium (McLuhan 1967 p.16).
Bolter e Grusin approfondiscono il discorso attraverso il
ricorso ai principi di immediatezza ed ipermediazione, facce
complementari della “medaglia” rimediazione: il processo di
recupero, evoluzione e fusione dei linguaggi mediatici, che
attivano un tipo di comunicazione ipermediata.
Questo capitolo offre una panoramica sullo sviluppo della
società dell’informazione, un lungo percorso dalla
ricostruzione delle specificità del nuovo paradigma
tecnologico fino alle conseguenze sociali delle istanze
tecnologiche ed economiche. Concludo con una riflessione
sul digital divide che rifiuta sterile dicotomie e avanza un
nuovo concetto di accesso.
12
1.1 La rivoluzione dell’informazione
Eminenti studiosi, appartenenti a diversi campi, dalla
sociologia alle scienze della comunicazione, dalla storia
all’economia, si sono confrontati sulla genesi dell’era
dell’informazione, approdando a posizioni diverse.
Secondo alcuni studiosi, la “rivoluzione dell’informazione”
ha avuto origine “ben prima dell’ingresso della nozione di
informazione nella lingua e nella cultura della modernità”
(Mattelart 2001). In particolare, in un noto saggio, il
sociologo francese Mattelart, nota come i presupposti della
nascita della “Società dell'Informazione” vennero posti alla
metà del XV secolo con l'invenzione della stampa a caratteri
mobili.
Circa due secoli dopo, intorno alla prima metà del XVII
secolo, gli Stati-Nazione appena definiti dal Trattato di
Westfalia, avvertirono l’urgenza strategica sia di pianificare
il loro sviluppo, che di garantire la propria sicurezza. In
questo scenario l'informazione si legò strettamente all'ascesa
del capitalismo moderno. L’esigenza di una rigida
organizzazione del ragionamento e del discorso secondo
un'impostazione matematica portò alla nascita di discipline
come la statistica, che permetteva di ottenere una
rappresentazione vicina alla realtà della popolazione, del
territorio e dei fenomeni socioeconomici.
Nel periodo tra il XVII e il XVIII secolo si andava pian
piano formalizzando il progetto di una società trasparente,
governata dal “pensiero del numerabile e del misurabile”
(Mattelart 2001).
Le innovazioni in materia di organizzazione del lavoro,
l’affermazione degli ideali illuministici di “calcolabilità” e
“matematizzazione della realtà” e di “automatizzazione del
ragionamento e dell’azione” (Mattelart 2001) hanno
13
costituito i presupposti della società dell’informazione.
Nella “mistica del numero”, egli intravide, quel “linguaggio
universale”, lontano antesignano del “linguaggio
informatico”, che si affermerà circa due secoli più tardi. Si
immaginano le prime macchine intelligenti, fondate sulla
nozione di algoritmo, in cui l’aritmetica binaria e il calculus
ratiocinator, sviluppato successivamente dal mondo
numerico fino al progetto di automatizzazione del
ragionamento stesso, trovano le prime applicazioni. Il
“ragionamento teorico numerico” attraversa un periodo di
tre secoli, nel quale la capacità di analisi dei dati è
progredita attraverso vari step: la nascita e lo sviluppo della
statistica, lo sviluppo dell’indagine geostrategica militare, la
possibilità di calcolo delle probabilità, l’automazione della
produzione, la contabilizzazione dei processi industriali.
L’invenzione dei sistemi tecnici fondamentali (telegrafo)
della comunicazione e il principio del libero scambio
segnano un era nella quale la comunicazione diventa un
fattore di integrazione tra le società umane (Mattelart &
Mattelart 1997).
Il ruolo della comunicazione è stato cruciale per la nascita
della sfera pubblica. È stato, come noto, il filosofo e
sociologo tedesco Jurgen Habermas a ricostruire con
inalterata efficacia nascita, potenziamento e disgregazione
della “sfera pubblica borghese” (Habermas 1962). Il
concetto racchiude in maniera sintetica un insieme ampio di
fenomeni. L’affresco che Habermas disegna vede la
famiglia borghese avere un ruolo primario, è la struttura
sociale fondativa della sfera pubblica: è l’ambito del privato,
dell’intimità, dove non devono giungere interferenze da
parte dei pubblici poteri.
“La sfera pubblica borghese può essere concepita in un
primo momento come sfera dei privati riuniti come
14
pubblico” (Habermas 1962 p. 41). Il pubblico borghese
diventa in grado di usare gli strumenti della discussione
razionale, di polemizzare e di porsi in antitesi a soluzioni
politiche e istituzionali non gradite. Il ruolo della stampa è
fondamentale nel percorso di sviluppo e
“autointendimento”, anche politico, della sfera pubblica
borghese. Giornali, riviste, pamphlet e libri fornirono
l’infrastruttura comunicativa necessaria al pieno dispegarsi
di una sfera pubblica cosciente delle questioni sia
economico-politiche, sia quelle di carattere culturale e
letterario. Parallelamente alla diffusione della stampa, un
numero importante di opere letterarie contribuirono alla
determinazione dell’identità della sfera pubblica. Il
sociologo tedesco passa in rassegna le opere che hanno
permesso il suo dispiegarsi, alle volte apologeticamente,
altre criticamente. Avviene una sorta di identificazione del
pubblico come “pubblico di lettori”. A partire dagli ultimi
decenni del XIX secolo, la fine della divisione netta tra
Stato e società, resasi necessaria, a suo tempo, per
oltrepassare il modello medievale di potere politico, e per
avviare il modello della concorrenza nel libero mercato,
determina la nascita di uno “Stato sociale”, che propone una
nuova forma di interventismo, di interventi regolativi sulla
sfera economica: ripristino del protezionismo, opposizione
alla concentrazione oligopolista nei principali settori
industriali. Tali fattori hanno avuto conseguenze negative
sulla sfera pubblica del periodo “aureo”. Non solo, il
“pubblico culturalmente critico”, dei salotti e dei café, dei
club letterari diventa il “pubblico consumatore di cultura”.
Sull’onda della critica alla mercificazione della produzione
culturale che accomuna gli studiosi della Scuola di
Francoforte, Habermas associa ai nuovi mezzi di
comunicazione, radio, cinema soprattutto, al degrado della
15
sfera pubblica. L’amara delusione emerge con forza: “la
dimensione pubblica critica è soppiantata da quella
manipolativa”, “il consumo della cultura di massa non lascia
alcuna traccia: il tipo di esperienza che ne risulta è
regressivo, non cumulativo” (Habermas 1962 p.199). Il
sociologo e filosofo nota come i nuovi mezzi di
comunicazione incoraggino la centralizzazione e il
rafforzamento dell’apparato statale e imprenditoriale teso
proprio a compromettere il dibattito razionale in favore di
istanze di razionalizzazione e controllo (Robins e Webster
1999). Il periodo preso in considerazione dallo studioso
tedesco vide un’impetuosa crescita dei fenomeni di
industrializzazione. Gli storici dell’economia sono soliti
denominare tale periodo la terza grande fase della
rivoluzione industriale, dopo la “fase classica”,
caratterizzata dalla diffusione del settore tessile, e la
seconda fase, denominata rivoluzione dei trasporti, in cui le
lavorazioni siderurgiche trovano particolare rilievo e
comincia l’età delle ferrovie. La terza grande fase è
soprattutto caratterizzata dalle rivoluzioni organizzative, che
hanno avuto un’ enorme influenza in tutto il mondo
capitalistico. Il trattato di Taylor, “Principi
dell’Organizzazione Scientifica del lavoro” risale al 1911,
mentre è il 1914, quando Ford fissò la giornata lavorativa ad
otto ore a cinque dollari per gli operai della catena di
montaggio automatizzata.
Robins e Webster offrono un’analisi dettagliata delle
ciclopiche mutazioni capitalistiche in atto a cavallo tra
l’Ottocento e il Novecento, si focalizzano sul ruolo
dell’informazione nelle società industriali e sull’apparato
ideologico che ne ha accompagnato la crescita, ricostruendo
il percorso che ha determinato il passaggio dei principi
16
dell’organizzazione scientifica oltre le “mura” della
fabbrica.
I modi di “organizzazione scientifica del lavoro”
determinarono la creazione di una società-macchina, in cui
la “pianificazione e l’organizzazione scientifica si sono
mosse oltre la fabbrica per regolare l’intero stile di vita”
(Robins e Webster 1999 p.154). La società era governata
sulla base degli stessi principi di calcolabilità, razionalità
strumentale ed efficienza (Robins e Webster 1999).
La razionalizzazione dei processi produttivi e l’elaborazione
della funzione “consumatrice” della classe operaia da parte
del modello imprenditoriale fordista, comportarono aumenti
salariali e riduzione della giornata lavorativa, creando le
premesse per un maggiore tempo libero, che poteva essere
dedicato alle attività legate alla ricreazione ed al
divertimento (Forgacs 1992).
“Quando queste strategie di amministrazione e di controllo
dell’informazione sono state sviluppate su una base
sistematica, è stato in quel momento storico, crediamo, che
la rivoluzione dell’informazione si è scatenata. Le nuove
tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno
fatto avanzare con maggior sicurezza, e automatizzato,
queste attività combinate di informazione e intelligence, ma
esse rimangono essenzialmente miglioramenti di quella che
è stata fondamentalmente una rivoluzione politico-
amministrativa”
(Robins e Webster 1999, pp. 154-155)
I due autori, nonostante non assumano una posizione
conservatrice e antitecnologica, denunciano il loro
disappunto nei confronti di un’idea di progresso vincolata
alla dimensione tecnologica. “Le tecnologie non sono
variabili indipendenti che causano il cambiamento sociale”
17
(Robins e Webster 1999) e il progresso socio-culturale non è
insito nell’innovazione tecnologica. Rifiutano “la visione
magica delle nuove tecnologie come soluzione a tutti i nostri
mali sociali – che promuove una politica di partecipazione,
un conforto materiale, una migliore formazione, migliori
comunicazioni, comunità restaurate, e qualunque altra cosa
si possa immaginare” (Robins e Webster 1999). Robins e
Webster sganciano la “rivoluzione dell’informazione” dalle
specifiche innovazioni tecnicoscientifiche degli ultimi 50-60
anni, riconducendole a quelle istanze di pianificazione e
controllo in atto a fine Ottocento: “con la rivoluzione
dell’informazione, non solo la prigione o la fabbrica, ma la
totalità sociale può arrivare a funzionare come macchina
gerarchica e disciplinare” (Robins e Webster 1999 p. 166).
Secondo questa prospettiva, la mobilitazione delle risorse e
delle tecnologie informazionali è stata funzionale alla
regolazione delle istanze economiche, politiche e sociali.
Si tratta di temi vasti, che la discussione finora abbozzata
non ha certo esaurito. La progressiva estensione del numero
di lavori sulla comunicazione ha segnalato l’accresciuta
importanza intorno al suo ruolo all’interno delle dinamiche
sociali. Dagli anni ‘70 in avanti hanno avuto luogo una serie
di trasformazioni che sono state variamente interpretate
come “avvento post-industriale”, “condizione
postmoderna”, “società dell’informazione” e “società
informazionale” e così via. Quasi a dimostrare che
l’apertura di una polemica sulla questione della
denominazione, sia l’indicatore di una mutazione
consistente, di una trasformazione in seno alla società.