Lo spazio come trappola nel cinema di David Fincher Mariaromana Casiraghi
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CAPITOLO PRIMO: MODELLI SPAZIALI
1. GLI ESTERNI
Cornici inquietanti per azioni che si svolgono prevalentemente in interni, gli spazi aperti sia
come entità a sé che come luoghi vissuti dai personaggi presentano caratteristiche
ricorrenti in tutti i film di Fincher. Si tratta di quartieri metropolitani periferici, bui e piovosi,
con strade labirintiche di cui è difficile trovare l’uscita.
LE CITTÀ
Dotate di un’aura negativa, le città influenzano non soltanto l’agire dei personaggi, ma
anche il loro modo di rapportarsi allo spazio interno e alla società.
La descrizione che il regista propone dichiara in più occasioni che esse rappresentano un
pericolo da evitare, preannunciando allo stesso tempo una chiusura in case ed edifici che
si rivelerà letale per i protagonisti.
Parole (soprattutto in Seven) e immagini (seppur a volte brevi come in Alien
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e Panic
Room) trasmettono un solo martellante messaggio: stare lontani dallo spazio cittadino.
ALIEN
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UN INCIPIT EMBLEMATICO
Spazio stellare – Equipaggio in ipersonno
Vuoto cosmico – Navetta USS Sulaco
Buio stellato – Insediamento alieno
Un contrasto che dice molto.
In Alien
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non c’è e non ci sarà una vera e propria città. Una città con strade, case ed
edifici. Una città nel senso più comune del termine.
Nonostante ciò, la sensazione della sua presenza non viene meno. Lo spazio, in questo
caso inteso come universo fisico, funge da rappresentazione macroscopica del globo
terrestre. Come spesso accade nei film di fantascienza (es. Dune e/o i vari episodi della
saga di Star Wars), i pianeti assumono le sembianze dei conglomerati sorti sulla Terra:
così Coruscant di SW Episodio I non è altro che una metropoli all’ennesima potenza
mentre Tatooine è un villaggio di provincia ai confini della galassia.
In Alien
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il pianeta Fury 161 è descritto semplicemente come un luogo di lavoro
(estrazione mineraria) e un’istituzione correttiva. Due luoghi in uno. Un luogo isolato ed
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isolante. Un pianeta isola. Un’Australia coloniale su larga scala. “Un incubo nero,
interminabile e senza via d’uscita”.
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Le dimensioni all’ennesima potenza, è proprio il caso di dirlo, permettono di evidenziare il
contrasto tra gli spazi esterni e quelli interni, presente ad almeno tre livelli racchiusi uno
dentro l’altro. Il primo è quello tra lo spazio stellare e gli interni della navicella, che si
alterna vistosamente durante i titoli di testa e viene sottolineato dall’opposizione
nero/bianco che caratterizza i due luoghi. Il secondo, immediatamente successivo, è
quello tra il pianeta su cui precipita Ripley e l’insediamento della prigione/fonderia mentre il
terzo è quello in cui quest’ultima diviene spazio aperto e le celle (sia dei detenuti, sia
quelle frigorifere dove vengono conservati i cadaveri dei compagni di Ripley non
sopravvissuti), i cunicoli (già accennati nei primi minuti del film) e i corpi (l’autopsia
eseguita sulla dodicenne rivela la funzione di rifugio che il corpo può assumere)
costituiscono spazi chiusi penetrabili dall’alieno.
Sono quindi due gli spazi propriamente esterni mentre uno quello con doppia valenza che
si rivelerà poi il vero centro dell’azione (e che verrà analizzato in seguito). Due spazi scuri
e oscuri. Due spazi ostili ed estranei.
Le stelle non brillano abbastanza per illuminare il nero dell’universo mentre il Sole o chi
per esso non è in grado di riscaldare Fury 161. Lo spazio cela la posizione della nave, la
sua provenienza, la sua storia. La tempesta sul pianeta si scatena, portandosi via il poco
calore e lasciando rovine in un luogo già desolato.
Fin dall’inizio lo spazio (in questo caso esterno) dichiara il proprio valore e potere
costringendo l’azione all’isolamento e alla reclusione.
L’esterno, infinito, sconosciuto e ostile lascia posto all’interno, chiuso e finito. Uno spazio
potenzialmente controllabile ma facilmente sopravvalutabile. Un luogo che si definisce
apparentemente in opposizione all’esterno, verso cui sembra non si possa fuggire e da cui
non ci si possono aspettare soccorsi.
SEVEN: UNA CITTÀ RACCHIUSA NELLE PAROLE
Somerset – “Nelle metropoli, farsi gli affari propri è diventata una scienza (…) nessuno risponde a
una richiesta d’aiuto”
Mills – “Che società di merda! ”
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Emanuela Martini, L’ultimo viaggio della Nostromo, “Cineforum” n.320, dicembre 1992, p.68
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Se Fury 161 altro non era che un luogo ai limiti, un luogo isolato ancor prima che isolante,
la città di Seven è la prima delle metropoli che capeggeranno nei film di Fincher.
Più che le immagini, spesso tanto rapide da risultare sfuggenti, sono le parole a
descriverne la desolazione e il grigiore. Dialoghi che vedono il detective Somerset
(Morgan Freeman) protagonista, ma che paradossalmente raccontano di un rapporto che
coinvolge anche Mills (Brad Pitt) e Tracy (Gwyneth Paltrow). Dialoghi che rimarcano
costantemente le bruttezze e gli orrori che avvengono tutti i giorni tra le strade umide e
sporche percorse freneticamente da milioni di cittadini. Dialoghi talmente espliciti da
risultare denotativi più che connotativi. Dialoghi che spiegano in modo inconfutabile una
realtà comprovata dalle immagini.
Capo – “Non ci credo che te ne vai. Non puoi lasciare tutto questo”
Somerset è l’esperto della città, in contrapposizione a Mills che si è appena trasferito.
Nonostante ciò, dichiara di non capire più il posto in cui vive. L’atteggiamento di rinuncia,
di accettazione delle cose così come stanno, di apatia, di colpevolizzazione della metropoli
e di stereotipizzazione degli eventi la dice lunga sul rapporto tra Somerset e lo spazio. Un
rapporto in cui fin da subito il detective si dice arrendevole e per certi versi già arreso.
Tassista – “Dove la porto? -
Det. Somerset – “Dovunque, lontano da qui - ”
Siamo di fronte a una vera volontà di cambiamento, di fuga, di allontanamento dallo
spazio? Può Somerset vivere veramente senza il grigiore che gli permette di giustificare
un’apatia altrimenti ingiustificata?
Forse più che essere uno schiavo dello spazio, il detective ne è un emissario
inconsapevole. Un uomo che conosce il pericolo e lo evita limitando le interazioni con
esso, chiudendosi in una casa ordinata lontano da ogni rapporto umano. Non è un caso
che il detective in questione sia ironicamente soprannominato “Simpatia”.
Tracy – “La odio questa città
Somerset – “Come si può crescere in un mondo come questo?”
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Sia Somerset che Tracy hanno preso coscienza dell’alone di negatività che circonda lo
spazio. La sostanziale differenza è che il primo sembra essersi adattato, dando grigiore al
grigiore e oscurità all’oscurità.
Tracy, invece, personaggio più luminoso e illuminante (è lei che cerca comunque di
instaurare e far instaurare dei rapporti umani) è inevitabilmente una vittima. Incapace di
trovare una collocazione nello spazio, rispondendo alle condizioni ambientali, non è in
grado di crearsi quella corazza di indifferenza che Somerset si è costruito negli anni.
Vulnerabile e in cerca di protezione, si dichiara da subito come una potenziale preda dello
spazio, ancor prima che dell’assassino.
Capo – “Tu dove sarai?
Somerset – “Da qualche parte, ma non lontano”
Aveva dichiarato di volersene andare, aveva detto di non capire più la sua città, aveva
sperato forse che con il pensionamento qualcosa sarebbe cambiato. Ma lo spazio alla fine
ha ristabilito la sua superiorità, il suo potere. Somerset non va da nessuna parte, resta
inchiodato nel punto di partenza, forse proprio perché si è creato un rapporto, quello con
Mills, che a lungo aveva cercato di evitare.
Indirettamente, i dialoghi sulla città parlano anche di Mills. Nuovo arrivato dal Nord dove, a
detta di Tracy, “è tutto un altro Paese”, il giovane detective sembra determinato a
cambiare le cose, a voler vivere lo spazio piuttosto che sopravvivergli, come fa il suo
collega anziano. Il tentativo di sfruttarlo a proprio favore, di dominarlo e di resistergli, da
bravo protagonista fincheriano, preannuncia di fatto una sconfitta vicina, una trappola che
sta per scattare.
Realmente impegnato nel suo lavoro, convinto di poter trasformare il grigiore che vede tutti
i giorni, deciso a portare aiuto a chi ne ha bisogno, Mills sembra un paladino della giustizia
in contrapposizione al rinunciatario Somerset che è ormai stato inglobato dalla città. In
realtà saranno proprio queste convinzioni a illuderlo, facendolo cadere nel tranello
spaziale tesogli da un assassino che forse è l’unico in grado di sfruttare lo spazio aperto a
proprio piacimento.
La metropoli di Seven, senza nome, senza identità e proprio per questo inafferrabile e
indefinibile, non è poi così diversa da Fury 161. L’azione si svolge in periferia (il distretto di
polizia infatti non è quello metropolitano), a sottolineare ancora una volta la marginalità e
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la precarietà di chi ci vive, in bilico tra un dentro (città) grigio e piovoso e un fuori (oltre la
zona industriale) insolitamente soleggiato ma altrettanto desolato. Una marginalità che fa
dei tragici omicidi di John Doe soltanto l’ennesima notizia di cronaca nera per chi vive al
centro.
THE GAME: LA LUCE OSCURATA
San Francisco, California. Dell’immagine solare, positiva e vivibile di San Francisco rimane
ben poco. Tramutata in una metropoli scura e pericolosa, la città è vissuta già dai primi
minuti, come un luogo di passaggio, un luogo che porta da uno spazio chiuso all’altro.
“Cos’è San Francisco di notte, eh?!” (Christine)
Strade, vicoli, marciapiedi: questa è la città di The Game. Non un’entità a sé,
continuamente definita come grigia, indifferente e triste come succedeva in Seven.
I vetri delle macchine riflettono edifici alti, infiniti ma allo stesso tempo li riducono, li
schiacciano, li rendono claustrofobici.
“Non è prudente rimanere per strada così” (Conrad)
La macchina si rivela la vera protagonista degli esterni. Un guscio protettivo che permette,
almeno in apparenza, di guardare il mondo e lo spazio aperto senza esserne toccati. Con
il suo alone di sicurezza, è l’unico mezzo che Nicholas Van Orton (Michael Douglas)
conosce per esplorare la città. Tanto che nel momento in cui ne viene privato, non può
fare altro che rivolgersi alla ex moglie per farsene prestare un’altra.
La conoscenza “mediata/distorta” dalla macchina e la chiusura in uno spazio piccolo e
famigliare altro non sono che metafore del rapporto che Nick intrattiene sia con la città, sia
con le persone. È proprio per questo che Conrad (Sean Penn) gli regala “il gioco”: perché
“stava diventando troppo stronzo”, come rivela nel finale.
Nel momento in cui il gioco ha inizio è Christine (Deborah Unger) a fare da guida
attraverso i vicoli e le strade secondarie della città, in fuga da qualcuno o qualcosa non
meglio identificati.
Nick, uomo dell’alta società, è un tipo da strade principali, illuminate. Costretto a cambiare
i propri itinerari, deve velocemente adattarsi all’ambiente per sopravvivergli (cosa che
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forse suo padre non aveva fatto, come è chiaro dalle prime immagini/flash back versione
filmino di famiglia con Nick bambino).
Nick, uomo di periferia, ai margini dorati in questo caso, della società, è costretto a seguire
per trovare la salvezza. Seguire una donna che non conosce, che vive apparentemente
nei sobborghi poveri di San Francisco, che recita una parte e che proprio per questo è
costretta a viaggiare. Seguire dei piani stabiliti da altri e innescati dal fratello Conrad,
un’altra personalità girovaga (lui il gioco l’ha fatto a Londra e arrivava da Ibiza) e instabile
(problemi di droga e analisi) ma che forse per la sua abitudine al vagabondaggio meglio sa
adattarsi all’ambiente tenendosene debitamente a distanza (un po’ come sapeva fare
Somerset).
E che la risoluzione di tutti questi problemi spazio/relazionali abbia luogo proprio con una
caduta libera, non è un caso. La disperazione del chiuso, del complicato, della
claustrofobia sfocia nell’esplosione verso l’esterno, chiudendo in un cerchio le vicende di
padre e figlio.
FIGHT CLUB: CERCASI PERSONE SOLE
“Abbiamo biglietti in prima fila per questo spettacolo di distruzione di massa”
La prima immagine della città di Fight Club è quella riflessa nel vetro dell’edificio da dove
Tyler Durden (Edward Norton/Brad Pitt) sta per assistere allo “spettacolo di distruzione”
messo in scena dai membri del progetto Mayhem.
Il rapporto che il Tyler/Norton intrattiene con il luogo in cui vive si dichiara subito come
non-diretto, per certi versi mediato. In un’altra occasione, il protagonista dichiara che,
quando si soffre d’insonnia, il mondo non è altro che una copia della realtà. La città, e non
solo quella, è invivibile, aliena, estranea.
Ancora una volta si tratta di una metropoli, senza nome. Ancora una volta ci si sposta
verso la periferia (Norton va a vivere nella catapecchia di Pitt), verso luoghi malfamati
(come il piccolo emporio in cui lavora Raymond), sporchi (i sacchi della spazzatura fuori
dal bar in cui ha sede il fight club), bui.
“Devo de-prioritare i miei rapporti finché Lei non comunica un cambiamento…”
I rapporti di Tyler, come quelli di tutti i personaggi analizzati finora, sono pressoché
inesistenti. Dopo la distruzione del suo appartamento, Tyler/Norton ha sole due persone
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da chiamare: Marla Singer (Elena Bonham Carter) e Tyler/Pitt (che poi sarebbe se
stesso).
Costretto a viaggiare visibilmente controvoglia, Tyler/Norton, il colletto bianco, viene
continuamente sradicato, inserito in svariati contesti metropolitani vissuti sempre ai
margini (aeroporti, alberghi) e sempre in “porzioni singole”.
Impossibilitato a conoscere profondamente il luogo in cui vive, si ritrova solo,
letteralmente abbandonato a se stesso, Tyler/Norton incontra “in esterno” delle copie di
sé. Dapprima la più palese: Tyler/Pitt. Poi dei soldatini pronti ad essere plasmati a
immagine e somiglianza del famigerato capo del club/clan.
La fase di reclutamento inizia proprio al di fuori del fight club, per le strade notturne di una
città piena di insoddisfatti pronti a scagliare la propria rabbia contro altrettanti sconosciuti.
“Uscire e fare a pugni con uno sconosciuto”
È il primo di tanti compiti assegnati ai membri del fight club che, una volta trovata una
sede “in interni”, inizia ad uscire allo scoperto. E devono combattere con uno sconosciuto.
Inizia così il processo di distruzione definitiva dei rapporti con la città e con la società.
Il tentativo di dominare lo spazio ha inizio proprio quando Tyler/Pitt tenta di
istituzionalizzare il fight club con i primi incarichi.
“Il fight club è uscito dagli scantinati”
E si è trasformato nel progetto Mayhem. Lo scopo è quello di cancellare i debiti di ognuno,
riportando virtualmente tutti al “ground zero”: il mezzo prescelto è quello della distruzione
di tutto ciò che è simbolo del consumo (caffè in fanchising, videonoleggi, edifici delle
compagnie di credito).
Sebbene il fine possa sembrare nobile, ad una prima occhiata, il mezzo della distruzione si
rivela da subito come uno sfogo più che una scelta consapevole. Come l’uccidere era un
piacere oltre che una missione per il John Doe di Seven, il portare il caos è per i membri
del progetto più una drammatica espressione di sofferenza, un disperato tentativo di
ribellione guidato da un capo che è per primo vittima dello spazio in cui vive.
Il rapporto con la città si rivela violento: Tyler, con la sua proiezione mentale, non riesce a
dominarla e a viverla. Allora la imbruttisce, la deturpa, la stupra deridendola.