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INTRODUZIONE
Lo studio del processo integrativo‐assimilativo che interessa gli immigrati indiani a
Londra, necessita di un’ampia contestualizzazione storica. Se è vero, infatti, che la
migrazione di massa verso il Regno Unito si sviluppa nel secondo dopoguerra,
toccando il suo apice nella prima metà degli anni sessanta, è altrettanto vero che tali
arrivi incominciarono ben prima di quella data. Il primo dato ufficiale che relaziona
la Gran Bretagna al Sub‐continente Indiano è il charter emanato dall’imperatrice
Elisabetta I con il quale si concesse il monopolio del commercio verso quelle zone
alla Compagnia delle Indie Orientali. Tra gli effetti nel tempo di tale charter, oltre
allo sviluppo di un immenso nuovo commercio per l’Impero, ci fu anche l’arrivo dei
primi servitori indiani e delle ayah, badanti che curavano i figli delle famiglie
aristocratiche britanniche durante il viaggio di ritorno dall’India alla Gran Bretagna,
e molti marinai, apprezzati per la loro competenza. Nella seconda metà del
diciannovesimo secolo iniziò l’afflusso d’intellettuali provenienti dall’India: alcune
famiglie di indiani, soprattutto commercianti o, in ogni caso, sufficientemente
agiate, pagarono il viaggio per permettere al figlio di ricevere un’educazione di
stampo occidentale, soprattutto nelle scienze mediche e giuridiche; molti altri si
recavano in Gran Bretagna per potere sostenere l’esame di ammissione all’Indian
Civil Service. Tra questi studenti, alcuni segnarono il destino dell’India moderna:
ricordiamone alcuni, tra cui il Mohandas Karamchand Mahatma Gandhi, Ram Mohan
Roy, V.D.Savarkar, e politici, sia moderati che radicali, alcuni dei quali fondarono
anche una o più associazioni politiche al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica
sui principali problemi relativi alla dominazione inglese in India e per perpetrare la
causa della sua autonomia. Tale azione politica portò a degli effetti, tra cui l’elezione
di diversi indiani a Westminster, appartenenti a differenti movimenti e partiti.
I contatti tra Inghilterra e India già nel corso del diciannovesimo secolo rivestono un
notevole ruolo anche dal punto di vista economico: infatti, numerose ditte indiane
aprirono una o più filiali in Inghilterra, e molti imprenditori avviarono la propria
attività in Gran Bretagna.
La natura della migrazione indiana verso la Gran Bretagna cambiò notevolemente a
partire dal secondo dopo guerra: da una parte le ragioni britanniche di apertura del
mercato del lavoro agli stranieri, necessario per far ripartire e riconvertire
l’economia dopo la guerra; dall’altra la necessità per gli indiani di cercare lavoro in
Gran Bretagna, spinti dalla promozione lanciata dal governo britannico che
assicurava un lavoro a tutti, soprattutto nel settore dei trasporti. La migrazione
modificò quindi le sue radici, non più “intellettuale” ma “di massa” a fini
economici.
La provenienza della quasi totalità degli immigrati si può ricondurre a tre regioni: il
Punjab, sia indiano che pakistano, la zona che va dalle coste del Gujarat fino alla
zona a nord di Bombay, e la zona del distretto di Sylhet, nell’est del Bangladesh. E’
stato possibile risalire anche alle città da cui provengono: emerge che gli emigrati
dal Punjab provengono da Jalandhar Doab, che significa territorio tra i fiumi – Rais e
Beas ‐ o dal vicino Pakistan. La gran maggioranza dei Gujarati proviene dall’East
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Africa, accolti in gran Bretagna tramite la legge Duncan‐Sundays, in seguito
all’espulsione imposta dall’Uganda nel 1971; una quantità consistente proviene
inoltre da quella zona costiera della regione che va da Jamnagar a Navsari, nel Gujarat
continentale. Per quanto riguarda, invece, i bangladeshi provengono da quel
triangolo di terra intorno alla città di Sylhet. Si delinea quindi un percorso tipico per
gli immigrati: partono da zone limitrofe per poi ritrovarsi, in Gran Bretagna, nelle
stesse città, in particolare Leicester, Bradford, Coventry e la Greater London. In queste
città, gli immigrati vanno a risiedere in zone dove altri emigrati sono già presenti, e
dove sanno di ritrovare amici, parenti, cultura e religione: tale processo è detto chain
migration. Le più importanti concentrazioni di immigrati nell greater London sono
per i Panjabi a Neasden, Southall, nel borough di Ealing. Sono presenti moltissimi
ristoranti e negozi di proprietà d’immigrati indiani. Nella stessa zona si celebrano i
festival del Diwali ‐ Indù‐ e il Vaisakhi – Sikh‐. Per quanto riguarda i Gujarati, invece,
si sono stabiliti soprattutto nel distretto di Harrow, nel nordovest di Londra.
L’ambiente incontrato dagli immigrati era profondamente secolarizzato, con la
Chiesa d’Inghilterra che esemplifica bene la situazione, essendo rappresentazione di
Chiesa nello Stato. Il mondo indù, comunque, ha nel corso dei secoli sviluppato un
senso di inferiorità, a partire dalla dominazione Islamica, poi verso il Cristianesimo,
infine, con i britannici verso “Westminster”, padre di tutti i parlamenti, nel quale i
Lord, profondamente secolarizzati come la chiesa a cui appartenevano,
condannavano il mondo Indù definito pagano e politeista. Ciò porterà alla nascita di
numerosi movimenti universalistici, formatisi con l’intento di dare
un’interpretazione monistica dell’Induismo, per renderlo appetibile proprio agli
occhi dei britannici, da loro così apprezzati.
Inizialmente si sviluppò un processo detto di unità nell’uguaglianza, che differiva
totalmente dall’universo organico indiano basato sull’unità nella diversità. Si
tendeva, e in buona parte lo si fa tuttora, ad eliminare le differenze castali, a perdere
l’universo rituale Indù, a dissociarsi insomma da tutte le caratteristiche fondanti il
sistema India. Oltre a questo approccio, comunque, negli ultimi decenni si è
sviluppato anche l’unità nella diversità, con il fine di preservare la propria identità e
diversità.
I movimenti universalisti, come quelli neo‐hindu, sono influenzati dall’evangelismo
britannico, individualista ed antitetico alla comunità, basato sulla personalizzazione
della religione. Tali movimenti desacralizzano la società dharmica, rifiutando la
ritualità religiosa, ritenuta un’invenzione successiva, esattamente come i protestanti
accostano lo sviluppo dei riti al clero. Riconducibile, inoltre, ai britannici è
l’ideologia classificatoria, che si è sviluppata a partire dal 1871 con il primo
censimento, che ha portato alla divisione del mondo indiano, utilizzando per la
prima volta la parola religione. La parola Hinduism è stata inventata dai missionari
britannici per avere qualcosa di chiaro con cui confrontarsi, ovviamente
condannandolo perché “heathen and pagan”. Con il censimento si sono poi codificati
gruppi e sette, dando quindi pesi diversi alle comunità a seconda della loro
consistenza numerica, e permettendo a gruppi sufficientemente religiosi di definirsi
religioni. Visto che l’83% degli indiani è indù, i nazionalisti spingono perché l’India
– Bharat, non riferendosi più al fiume Indo, ma alla nazione – utilizzi il cuius regio
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eius religio, così come è avvenuto con la costituzione, nel 1947, del Pakistan, inteso
come Stato basato su un gruppo etnico, non Stato Islamico basato sulla Shariat.
Inoltre, con la divisione dei seggi nel 1919, sempre ad opera britannica, è scomparsa
la divisione dei compiti all’interno della società, con l’aspetto sociale gestito dagli
indù e quello politico dai musulmani, che devono competere per lo stesso compito,
creando dispute e scontri che i britannici mediavano, assumendo in questo modo il
ruolo da loro desiderato.
L’associazionismo religioso indù nel suo sviluppo e nella sua evoluzione segue vie
diverse: esistono movimenti riformatori, come il Brahmo Samaj e il Ramakrishna
Movement, che si basano sulla ricerca della Universal Church, e sono, quindi,
universalisti. Nell’evoluzione storica sono seguiti altri movimenti che passano da un
approccio universalista ad uno orientalista, rivendicando l’autenticità delle scritture
Vediche, soprattutto nella loro accezione filosofica presente nelle Upanishad –
Vedanta ‐ e che ad esse si rifanno con forza, come l’Arya Samaj, e che a ciò
aggiungono una accezione linguistico‐nazionalistica piuttosto che liturgica. Essi si
adoperano per l’utilizzo del Sanscrito, essendo questo la prima lingua sviluppatasi
nel Subcontinente, dalla quale tutte le altre derivano; esso rappresenta la lingua
ideale per la nazione, intendendo tale nozione da un punto di vista nazionalistico.
Per questo motivo organizzano corsi di Hindi, insegnato però in maniera
sanscritizzata, così da rendere la lingua elemento fondante il nazionalismo, da
contrapporre all’Urdu, che da parte musulmana invece viene sempre più
“persianizzato”.
Le varie associazioni analizzate hanno un’impostazione simile riguardo
all’organizzazione della società: il Brahmo Samaj, considerava il sistema sociale indù
come paralizzante, essendo il movimento costituito dagli istruiti secondo il sistema
educativo britannico, perché riponeva troppa enfasi sulle tradizioni complementari
ed organiche. Il sistema educativo britannico è decisivo per comprendere la
caratterizzazione, deformata rispetto al sistema organico, dell’intero pensiero del
Brahmo Samaj.
Le differenze sostanziali nell’approccio e nelle finalità stesse della vita proposta nel
sistema britannico ed in quello organico rendeva difficile un’integrazione degli
stessi, pretendendo, inoltre, quello occidentale, di essere guida dell’India nel suo
“sviluppo economico e culturale”. Le nuove generazioni di indù, confrontandosi
con queste nuove dinamiche, reagirono in maniera diversa, chi rifiutando le idee
occidentali, chi cercando di utilizzare alcuni principi del sistema occidentale per
rendere l’induismo accettabile dai britannici. L’educazione di stampo britannico
ebbe la conseguenza di sviluppare nei giovani, educati nelle scuole dell’Impero, il
rifiuto e la denuncia delle disuguaglianze che il sistema Indù, agli occhi dei
britannici, dall’invasione musulmana in avanti, aveva sviluppato. Questa
generazione, in particolare, denunciava il ruolo dei bramini che, secondo loro,
gestivano la vita religiosa per finalità personalistiche; tale approccio è tipico
dell’unità nell’uguaglianza, in antitesi con l’organica unità nella diversità. Invece di
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incoraggiare i fedeli a concentrarsi sulla filosofia insegnata nelle Upanishad e nella
Bhagavad Gita, essi partecipavano a numerosissimi riti, senza, in questo modo,
concentrarsi sulla ricerca dell’identità con Brahman.
Il Bramo Samaj ed il suo fondatore Ram Mohan Roy, un riformatore sociale,
considerato da molti come il “padre” della moderna India, è, comunque,
rappresentativo dell’incapacità di immergersi nella comunità Indù, dove
l’individualismo “nel mondo” non esiste, mentre è previsto per i rinuncianti che
abbandonano la vita per la rinuncia, agli antipodi quindi della filosofia tedesco‐
britannica basata sull’homo economicus. Il fondatore denunciò la distinzione castale, il
cosiddetto “infanticidio” femminile che in realtà era la minor cura verso la figlia
femmina, essendo in proiezione l’uomo a dare il sostentamento alla famiglia; fu il
primo ad occuparsi con vivo interesse della situazione delle donne in India,
denunciando la Sati, il suicidio della donna di fronte alla pira del marito. Anche
questa denuncia, va contestualizzata al sistema organico in cui la donna, quando
diventa moglie deve essere accettata dalla famiglia dello sposo, in particolare dalla
madre; una volta scomparso il marito era comune che la donna potesse decidere di
donarsi completamente a lui spogliandosi delle sue vesti mortali. L’incapacità di
cogliere l’organicità del sistema porta il movimento Brahmo a rifiutare il culto degli
idoli, e di più di una divinità, caratteristica tipica della tradizione religiosa indù.
Non ritengono necessari i pellegrinaggi: ogni luogo è ugualmente sacro per
rivolgere la propria preghiera, essendo Dio ovunque. Non è infine riconosciuta la
figura del guru. Il principio del rifiuto della ritualità indù, comporta oggi dei
problemi per i probashi Brahmo, che, secondo alcuni, porteranno il movimento al
recupero di parte della ritualità tanto contestata. Infatti, la rinuncia alla stessa, a
favore della ricerca della semplicità nella preghiera, ha fatto perdere il piacere e la
gioia che il rito porta con sé, motivo per cui la ritualità Indù riesce sempre a
raccogliere folle di fedeli. Ciò rende difficile la propagazione della fede secondo la
visione Brahmo ed il rafforzamento del movimento come una Universal Religious
Institution in Gran Bretagna, portando questo movimento riformatore a perdere il
suo glorious heritage.
Approccio simile a quello Brahmo è presente nel Ramakrishna Movement: molto più
forte nel movimento formato da Ramakrishna e dal suo erede Vivekananda è, però,
l’obiettivo di esportare il Vedantismo all’estero. L’obiettivo di entrambi è, infatti,
universalista, così da far accettare i Vedanta ai britannici. Ramakrishna percepiva uno
stimolo forte verso la realizzazione di Dio; una volta raggiuntala si avvicinò al
Cristianesimo e all’Islam, ritenendo che anche queste rappresentassero vie per la
realizzazione della coscienza di Dio, ottenendo gli stessi risultati che aveva
raggiunto nell’Induismo. I profeti della Ramakrishna Mission fanno riferimento ai
Vedanta come opera da cui trarre la filosofia per la ricerca di Dio. Attraverso questo
movimento le scritture Vedantiche ebbero finalmente l’impatto internazionale
necessario, secondo gli universalisti, a far acquisire credibilità all’induismo,
altrimenti superficialmente bollato dai britannici come una forma di paganesimo da
rifiutare. Vivekananda divenne famoso durante le sedute del Parlamento delle
Religioni, tenuto a Chicago nel 1893, dove era stato chiamato a rappresentare
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l’Induismo. Grazie alla conferenza di Chicago si è assistito alla prima forma di
“globalizzazione” del cosiddetto Induismo. Anche oggi, nella sua sede londinese, il
movimento persegue la ricerca di una sintesi tra Induismo e religioni Occidentali,
oltre ad organizzare, come la maggior parte delle associazioni, eventi religiosi e
culturali, come la celebrazione di matrimoni, festival e corsi di lingua.
Si distingue dai movimenti universalistici l’Arya Samaj, che ha, invece, un approccio
di tipo orientalista. L’associazione fondata da Maharishi Dayananda nell’ottocento,
pone le sue radici sulle scritture vediche, per un ritorno all’Induismo come previsto
da tali scritture. La differenza sta nell’approccio con cui l’associazione tenta di
spiegare chi sono gli indiani. Se l’approccio Arya, infatti, è quello di un orientale che
si pone il problema di studiare gli indiani, comunque sempre in chiave britannica,
attraverso l’aspetto popolare, il Brahmo Samaj, invece, utilizza l’approccio tipico
dell’universalismo secolarizzato britannico. Dayananda comprese che la sua
missione era quella di risvegliare la società indù, e, a questo fine, introdusse
nell’organizzazione delle riforme quali l’abolizione della Sati, del matrimonio tra
giovanissimi, della dote, dell’intoccabilità, ed introdusse il sistema educativo aperto
alle donne. La metodologia delle rivendicazioni di Dayananda porta con sé la parte
popolare del sistema, che si esemplifica nel sacrificio del fuoco, Yajna, eseguito in
India come a Londra. Per sviluppare tali istanze enfatizzò il concetto di nationhood,
introducendo per primo la parola Swarajia (autogoverno), e la necessità di una
lingua comune. Ma l’elemento identificante il nazionalismo di Dayananda è il
concetto di tempo storico lineare, base del pensiero nazionale, che deriva
dall’interpretazione anglo‐tedesca del tempo, sviluppatasi durante il romanticismo
tedesco, che ha originato quel concetto di popolo che sarà poi la base del
nazionalismo tedesco stesso che ha, quindi, le stesse origini di quello Arya. Tutte le
sue idee sono raccolte nella sua famosa opera Satyartha Prakash (La luce della verità)
in Hindi, indicativo del ruolo nazionalistico dato al linguaggio. La figura di
Dayananda ha avuto un apice di popolarità dovuta al suo essere considerato un
riformatore sociale; la sua figura è stata nel tempo sostituita dallo sviluppo di altri
movimenti e dall’emergere di altri riformatori: la figura di Gandhi, lo sviluppo di
associazioni castali e del nazionalismo hindu, che si fonda sulle idee dell’Arya Samaj,
ma in chiave decisamente più nazionalista, dove non si fa più riferimento ai Vedanta,
e dove si passa da una concezione dell’individuo – inserito nel sistema organico – ad
una del collettivo; nazionalismo che si sviluppa molto più attraverso movimenti
rispetto a partiti.
All’approccio orientale si è poi sostituito un forte ritorno alla Bhakti, per via delle
masse, essendo essa rivolta a tutti e a tutti gli ideali, laddove vi siano indù e già vi
sia presenza brahmanica. Anche la Bhakti, però, finisce per diventare monoteistica,
divinizzando il testo di riferimento, la Bhagavad Gita, così come i Sikh fanno per Guru
Granth e i Musulmani per il Kuran. Il testo sacro diventa una forma di nazionalismo;
in aggiunta, i dialoghi del karmayogi trasmettono lo sforzo per ottenere un risultato;
chi sceglie la Bhakti non può esimersi da questa ricerca, indipendentemente dai frutti
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che darà. A differenza del protestantesimo, quindi, non è il successo che conta, ma
l’azione.
L’universo delle associazioni indù a Londra comprende, però, anche associazioni
fortemente depoliticizzate come la Swaminarayan – altro nome di Vishnu ‐ e il
movimento Hare Krishna.
Il movimento Swaminarayan è rappresentativo della popolazione Gujarati,
proveniente anche dall’East Africa. Rispetto ai Panjabi Sikh che si incontrano nei
Gurdwara, luogo dove è conservato il libro sacro Guru Granth, al fine di sviluppare
una credenza monistica e nazionalistica basata sulla religione – spesso un Panjabi si
definisce Sikh e non Indiano identificando come caratteristiche nazionali l’aspetto
linguistico e religioso ‐, evidente è nei Gujarati un ritorno alla Bhakti, all’utilizzo del
tempio come centro comunitario e all’adorazione delle Murti, con una prelidezione
particolare per Narayan, oltre che a Vishnu, divinità creatrice e bonaria, Rama,
Ganapati, Parvati, Surya e Krishna, cioè le divinità più popolari che si associano alla
via dell’auotocoscienza più immediata che è, appunto, la Bhakti.
Elemento comune che emerge tra le varie associazioni è, comunque, il rifiuto del
ruolo di intermediari dei bramini, imitando in ciò i protestanti ed i musulmani. La
predilezione per le Murti è distintiva del movimento Swaminarayan; ciò è spiegabile
considerando che la stragrande maggioranza degli adepti sono mercanti Gujarati, e
sono loro che permettono la continuazione del culto a Londra; pur essendo agiati
economicamente, la loro mentalità è rimasta quella del piccolo negoziante che
ringrazia la divinità dei suoi guadagni, investendo parte degli stessi per il
mantenimento e l’erezione di templi.
Grazie al suo complesso ruolo simbolico, il tempio mantiene un significato sociale e
religioso che supera quello delle altre organizzazioni locali. Lo fa attraverso la sua
funzione di culto e preghiera a cui, comunque, vanno sempre affiancate le pratiche
domestiche e la cucina. Ogni indù, infatti, si cucina il pasto in casa, a meno che non
lo consumi proprio al tempio; è improbabile che un indù vada a mangiare in uno
dei moltissimi ristoranti indiani di Londra, anche perché, in realtà, sono gestiti da
Bangladeshi. Ciò accade perché l’induista deve conoscere chi, cosa e come si cucina,
e ciò non avviene nel ristorante; la remota possibilità di trovare un indù all’interno
di questi luoghi è legata alla presenza di un cuoco bramino. Il tempio indù diventa
fonte di unità nella diversità, differenziandosi dall’unità nell’uguaglianza proposta
dai nazionalisti. Il tempio Swaminarayan di Neasden in particolare sembra assumere,
viste le sue dimensioni, il ruolo sacro del pellegrinaggio.
Nel tempio sono, inoltre, festeggiati i principali festival, tra cui Diwali, festa delle
luci corrispondente al nostro Natale, Janmashtami, Raksha‐Bandha e Holi e numerose
ricorrenze legate al movimento Swaminarayan. Senza queste importantissime
pratiche religiose l’utilità dei festivals sarebbe relativa. I devoti, infatti, non
sentirebbero alcun obbligo di visitare il tempio, e questo farebbe perdere il ruolo
dello stesso nel mantenimento della cultura religiosa.
Questo movimento diede inizio ad una riforma delle distinzioni castali, senza,
comunque, abolirle totalmente; Pramukh Swami, nel 1981, decretò che anche agli
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asceti provenienti da caste shudra fosse permesso divenire sadhu – forma di unità
nell’uguaglianza. Emerge nel movimento Swaminarayan una fortissima tendenza
verso la scelta sadhu rispetto alla sannyasi, quindi ad una ricerca bhakti della
realizzazione di Dio.
Un’altra associazione depoliticizzata, o che, in ogni caso, non subisce l’emergere di
spinte nazionalistiche è l’Hare Krishna, movimento che si basa su una devozione
estatica di Lord Krishna. L’avvicinamento di molti occidentali verso il culto di Krishna
va associato anche alla secolarizzazione della chiesa cristiana, che non riesce più ad
attirare i fedeli, oltre ovviamente al distacco dalla chiesa protestante. Ciò che queste
confessioni non riescono a dare lo si ritrova nel culto di Krishna e Radha. I templi
dedicati a Krishna, Rama e Radha sono più di trenta, i più numerosi in Gran
Bretagna. Non è chiaro, invece, se l’utilizzo del vegetarianesimo è espressione
religiosa o piuttosto, come credo, l’ennesima forma di nazionalismo.
Si sono sviluppate nel tempo, oltre alle associazioni universaliste e orientaliste,
anche numerose associazioni che non si caratterizzano per la più o meno radicata
partecipazione ai movimenti nazionalisti, quanto per l’appartenenza castale; in
realtà, pur fondandosi su questa, anche tali associazioni hanno elementi nazionalisti,
basati sull’etnia. Non esistendo in Gran Bretagna l’identità basata sulla funzione‐
relazione, ma sulla competitività, elemento caratterizzante diviene l’appartenenza
etnica, che, inevitabilmente, sviluppa una forma di nazionalismo castale. Le
motivazioni che portano alla nascita di associazioni il cui fine è la difesa e la
valorizzazione della singola casta vanno, inoltre, ricercate nella caduta dei principi
alla base del sistema organico nella loro trasposizione a Londra. Tale sistema è
assente nella Greater London per l’impossibilità ambientale a ricostituirlo. Infatti,
anche dove la collettività indù è numerosa essa non diventa mai una comunità
organica. Si realizza un insieme di individui uniti dall’appartenenza alla stessa
casta, uniti nell’uguaglianza, spesso sono mercanti. Tra le motivazioni bisogna
menzionare anche il ruolo dell’Impero Britannico, vero e proprio ispiratore
dell’identità castale, al fine di dare un organizzazione agli indiani sotto il loro
dominio, accomunando collettivamente tribù, sette e caste attraverso le Martial
Races. Tra di esse le più note sono Gurka, Sikh, Rajput e Pathan, indipendenti tra loro,
che grazie alla loro acquisita identità fornivano uomini motivati all’esercito di Sua
Maestà. D’altra parte bisogna anche sottolineare come facesse loro piacere acquisire
tale identità, riuscendo, in questo modo, a migliorare il loro status. Le Martial Races
sono tipicamente britanniche nell’approccio, così come è un esclusiva linguistica
britannica riferirsi ai rapporti tra diverse stnie come Race Relations, dando
un’impronta razziale ad una tematica etnica. Nel fedele trapiantato a Londra sono
molto importanti alcune caratteristiche identificative la persona che si allontanano
dal sistema utilizzato in India. Nel subcontinente, infatti, ognuno viene riconosciuto
come figlio del padre e a seconda del mestiere della sua famiglia. Oggi sono
particolarmente rilevanti la provenienza geografica dell’individuo, la corrente
induista e la casta d’appartenenza.
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L’associazionismo di casta è la concretizzazione dell’agonia del mondo organico,
che è, invece, costituito da complementarità tra loro gerarchizzate, dove esistono
soprattutto relazioni di vita, dove ogni elemento, essere animale, vegetale, umano e
divino, ha una sua sistemazione ponendosi non come individuo, ma solo com’essere
rapportato agli altri. Nella società indiana l’essere si definisce in funzione
dell’appartenenza al tutto, non esiste giacché individuo, ma poiché si muove in
funzione dell’esistenza e della legittimità del sistema. In esso, ogni casta è, quindi,
complementare all’altra, come ogni parte del corpo umano è interdipendente e
necessaria alle altre; in questo senso anche i bramini, sacerdoti depositari della
parola sacra, trovano ragione d’essere fin tanto che esistono le caste lavoratrici, che
garantiscono la loro sopravvivenza.
In Gran Bretagna, come nell’India urbanizzata, le distinzioni di casta e le lealtà sono
molto poco rispettate; esistono, però, delle materie in cui il sistema organico e la
gerarchia castale è, in qualche modo, ancora rispettata, come per quanto riguarda le
regole concernenti l’endogamia, ossia il costume che vieta ogni matrimonio al di
fuori del proprio gruppo d’appartenenza, esse sono talvolta seguite nel Regno
Unito.
Gli aspetti del tradizionale sistema castale in India, quali il complesso scambio di
servizi e l’obbligo di praticare il consueto mestiere proprio della casta di
appartenenza, non sono sopravvissuti nel contemporaneo contesto urbano
britannico; ciò è il risultato della competitività del sistema britannico, in
contrapposizione con la relazionalità dovuta alla celebrazione delle funzioni
presente in India. A Londra l’ideologia politica diventa il coagulante del gruppo,
sostituendo il legame religioso.
A tal proposito risulta rilevante l’analisi dei Valmiki; lo studio dell’origine di questa
casta è stato particolarmente interessante essendoci una disputa in corso sull’origine
della stessa. Secondo Pandit Bakshi Ram, i Valmiki sono discendenti dei Nag,
popolazione autoctona che abitava il Punjab quasi quattromila anni fa e che fu
ridotta in schiavitù dai conquistatori ariani, provenienti dall’Asia centrale, che
occuparono la valle dell’Indo. La loro origine castale è di intoccabili, precisamente
Bhangi. A Londra, se l’associazione Bhagavan Valmiki Action Committee, guidata da
Lekh Raj Manjdadria, e sostenuta dalla studiosa Julia Leslie, riconduce l’origine castale
alla figura mitica del guru‐dio Valmik, autore del poema epico Ramayana,
incolpando i bramini della loro successiva affiliazione agli intoccabili, c’è chi come
Vikram Gill, conduttore di una trasmissione radio in panjabi, alla Central Air Radio
Limited, a Birmingham, ha definito Valmik come un dakait, daku in panjabi, che
significa ladro, neppure in grado di pronunciare la parola Ram, che solo in seguito,
attraverso la Bhakti, riuscì a diventare un rishi, cioè un saggio. Con la salita al potere
dei britannici in India, sostituirono il nome sotto il quale erano convenzionalmente
conosciuti con il titolo molto più prestigioso di Valmiki che associa il gruppo a
Maharishi Valmik, da loro adorato nell’interpretazione della tradizione popolare
dell’arciere. In Gran Bretagna si è scelto quindi di abbandonare le radici Jati, che li
identificavano come Chuhra e Bhangi, utilizzando, invece, il nome castale‐religioso
Valmiki. Il passaggio da Chuhra a Mazhbi, corrispondente Sikh dei Bhangi e,
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successivamente, il loro inserimento tra i Valmiki spiega la presenza del guru tra i
Valmiki, co‐optato dal Sikhismo. I Valmiki hanno quindi creato un associazionismo
castale allargato a molti gruppi, fornendo un ruolo principale alla sanscritizzazione,
tentativo di uscire dalla marginalizzazione – sanscrito è la lingua sacra e di
immergersi nell’universo da pari, universo che peraltro è molto “indiano” come si
nota dal ruolo fornito alla carta geografica. La decisione di costruire un tempio ad
esclusivo uso dei Valmiki è un esempio lampante del potere che ormai hanno
raggiunto e, allo stesso tempo, della crisi del sistema organico in Gran Bretagna.
La controversia si conclude tramite la chiamata di un mediatore inglese, Julia Leslie.
Questo è tipico dei britannici, classificatori al fine di dividere, per poi controllare da
mediatori, ritenendosi, infatti, anche più colti rispetto ai mediati, così come
avveniva in India. La Leslie, invece, sbaglia nel suo approccio perché, dichiarando
che Valmiki è d’origine sanscrita, avendo utilizzato solo testi sanscriti nella sua
ricerca, implicitamente dichiara di considerare l’inizio legato all’utilizzo del
sanscrito. E’ evidente nella reazione dei Valmiki il risentimento ancora forte, legato al
loro status di untouchable, che, conseguentemente, si caratterizza nello sviluppo di
un’ideologia nazionalista basata sull’appartenenza etnica alla casta dei Valmiki. Per
questo si identificano con Valmik, che chiamano Bhagwan, Dio; il tempio stesso a
Londra si chiama Bhagwan Vakmik. In aggiunta, emerge la rilevanza che questo
gruppo ha raggiunto in Inghilterra, non avendo altrimenti potuto usufruire di un
così ampio spazio mediatico. Tale polemica si è sviluppata anche perché i Valmiki di
prima generazione hanno trasmesso ai nati in Gran bretagna un sentimento etnico‐
nazionalista basato sulla casta e sul distacco rispetto alla loro intoccabilità; inoltre, la
nuova generazione non sente suo il sistema organico ma percepisce forte
l’appartenenza castale, sentimento agli antipodi sia con quello britannico che con
quello indiano; tali elementi hanno reso i giovani molto sensibili rispetto alle
proprie origini castali. Il vero problema che riguarda l’origine dei Valmiki rimane
dunque irrisolto: è il culto del dio Valmik o la Bhakta a renderli Valmiki? Tale
problema non è stato affrontato dalla Leslie, fondamentalmente per ragioni socio‐
politiche, tra cui la crescente importanza dei Valmiki in Gran Bretagna.
Altra associazione castale interessante è quella dei Prajapati, che significa Dio
Creatore, essendo mercanti si intende colui che crea con l’argilla, ed è una casta
dallo status semi‐alto. La loro posizione è sempre stata rispettabile: la loro
occupazione tradizionale di vasai e di magazzinieri di acqua e grano, non risulta,
infatti, essere in alcun senso impura. In Gran Bretagna trovarono lavoro come
carpentieri, a Londra in molti altri ambiti, soprattutto nel settore dei trasporti.
Questa comunità è nota sin dai tempi più antichi; infatti, la figlia di Daksha Prajapati,
dal quale sostengono di discendere i Prajapati, fu sposa di Lord Shiva. Provengono
fondamentalmente dal sud del Gujarat, in particolare dai distretti di Surat e Valsad,
dove sono emigrati in seguito all’instaurazione del governo britannico nel
Champaner, zona situata vicino alle catene montuose di Pavagadh, nel distretto
Panchmahal, e della conseguente caduta in rovina del Sardar allora governante.
L’associazione con sede a Londra, che fa parte della Charity Commission for England
and Wales dal 1975, evita divisioni castali e settarie al suo interno, al fine di produrre
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una unità castale basata, anche in questo caso sull’identità etnica. Il tempio stesso è
chiamato impropriamente Shree Hindu Temple, tipico esempio di nazionalismo
linguistico, dovendo, invece, il tempio essere dedicato alla divinità centrale che dà
pure il nome allo stesso. Chiamandolo Shree Hindu Temple, i Prajapati intendevano
porre l’attenzione sui devoti che si riuniscono, al fine di agevolare lo sviluppo
dell’identità etnica.
C’è poi l’Hindu Council UK, fondato nel 1994, al fine di fornire un punto di
riferimento per tutti gli Indù presenti in Gran Bretagna, dando spazio a tutte le
organizzazioni indù: trovano rappresentazione la Sanatan Dharma, la Swami Narayan
Hindu Mission UK, l’Arya Samaj, la Jain Samaj, i Sikh ed i Buddisti. Interessante notare
come l’Hindu Council ci fornisce un elenco religioso delle associazioni e dei
movimenti, mentre la High Commission da un elenco secondo la specializzazione dei
gruppi, associando, per esempio, i Kashmiri ai tappeti. Compreso nel Council c’è
anche l’Hindu Council of Hindu Temples, che raccoglie più di duecento rappresentanti
di differenti templi. Analizzando la composizione del Council emergono
numerosissime associazioni castali, molte organizzazioni dedicate a Rama, molte
Swaminarayan – Vishnu, molte a base nazionalista che pongono l’aggettivo Hindu
vicino a Temple, tipico del nazionalismo. Oltre a queste sono presenti alcune
associazioni regionaliste come quelle Tamil che a volte si chiamano Murugan, altro
nome del figlio di Shiva, che è stato introdotto dai britannici per identificare la casta
militarmente. La ratio che guida l’azione dell’Hindu Council UK è duplice: dare agli
indù britannici voce nelle questioni socio‐politiche rapportandosi al governo in
carica, e, nello stesso momento, aumentare la comprensione reciproca tra le
maggiori fedi rappresentate nel Regno Unito.
L’analisi dell’evoluzione dell’associazionismo etnico indiano ci ha ormai introdotto
al problema della partecipazione politica degli immigrati che risulta essere di
particolare rilevanza per il nostro studio. Con il passare degli anni dal loro arrivo,
gli indù si allontanano sempre più dal sistema organico integrandosi nel mondo e
nelle istituzioni britanniche: i panjabi in particolare capirono l’importanza di avere
un rappresentante a livello locale, così che le loro istanze potessero avere più
facilmente un seguito. Sono molti più i panjabi in politica rispetto ai gujarati e ai
tamil, le tre regioni più rappresentate dagli immigrati a Londra. Tale differenza è
dovuta alla maggiore influenza britannica ricevuta dai panjabi, che li rende
indubbiamente i più filo‐britannici. Questa influenza li ha ideologizzati,
allontanandosi dal sistema organico ed avvicinandoli alla partecipazione politica nei
partiti, soprattutto in quello Laburista. La maggior parte dei Lord, inoltre, sono
panjabi e sono stati nominati dal partito Laburista. Iniziarono quindi a partecipare
attivamente alla vita associativa e politica, dapprima iscrivendosi in massa alla
Indian Workers’ Association ‐ IWA. La competizione politica si svolge soprattutto in
occasione delle elezioni per il controllo del panchayat e di quelle nazionali e
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regionali, quando si formano alleanze temporanee ad hoc note con il termine panjabi,
di derivazione inglese, parti, esempio di indianizzazione linguistica, da party;
alleanze formate generalmente da membri appartenenti alla stessa famiglia, o
comunque da persone che sono legate tra loro da vincoli di amicizia, di scambio di
favori, di dipendenza economica o di appartenenza castale.
Gli immigrati cominciarono a partecipare sempre più attivamente alla vita politica
inglese. Il “black vote” (così viene definito in Inghilterra il voto delle minoranze
etniche, definite come Asians ‐ indù – , Pakistani – musulmani compresi gli indiani
musulmani, e Carribbean) divenne un fattore di particolare rilevanza, specie in quelle
costituency dove le comunità di immigrati erano la maggioranza relativa o
comunque potevano influire in modo decisivo sull’esito delle elezioni: sia gli
immigrati indiani che quelli caraibici tendevano ad identificarsi con le istanze del
partito Laburista e sostenevano il candidato espresso da quel partito. A partire dagli
anni Ottanta, le cose sono leggermente cambiate con un certo allontanamento da
parte degli Indiani (specie quelli appartenenti alla middle‐class) dal Labour Party. Lo
studio sociologico sul comportamento elettorale delle minoranze nelle elezioni ha
dimostrato che risulta più importante l’appartenenza politica del candidato
piuttosto che quella etnica. Si nota, inoltre, come il voto, così come la partecipazione
attiva, non abbiano niente a che fare con la religione e segnino la definitiva perdita
del legame con il sistema organico e dello sviluppo del sentimento di essere cittadini
britannici. La linea secondo la quale si sviluppa la partecipazione politica
rappresenta l’implicita accettazione delle regole del gioco del sistema inglese,
notevolmente diverse da quelle che vengono seguite in India, dove non accade
quasi mai che un’intera comunità si schieri in modo compatto dalla parte di un
particolare esponente politico, ulteriore conferma dell’adattamento delle proprie
tradizioni, in questo caso politiche, al nuovo contesto culturale. La rappresentanza
degli indiani cambia nella Greater London, dove, ad una percentuale maggiore
d’immigrati, corrisponde una crescita dei rappresentanti eletti appartenenti a
minoranze, che passa dal 3% all’11%.
Riguardo la partecipazione politica a livello nazionale, la presenza di Members of the
Parliament – MPs ‐ di origine indù sia nella House of Commons, sia nella House of Lords
è molto datata: già con Ram Mohan Roy che, assieme a Dwarkanath Tagore e a William
Adam, intravide la necessità di fondare un’associazione, una sorta di lobby indiana
che potesse agire da gruppo di pressione nel parlamento inglese. I primi indiani
eletti a Westminster furono tre parsi: Dadabhai Naoroji, Mancherjee Bhownaggree e
Shapurji Saklatvala. A questa generazione di riformatori moderata, seguì una nuova
generazione di studenti indiani che non si accontentavano di invocare le riforme, ma
volevano procedere a liberare l’India dalla dominazione straniera, proclamando la
dottrina dell’ ‘India per gli Indiani”. Il movimento, nato grazie all’opera di Bal
Gangadhar Tilak, è comunque in India che ha avuto maggiore seguito. Centro di
coordinamento europeo del movimento fu la India House di Londra, fondata da
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Shyamaji Krishnavarma, e poi guidata da Savarkar, e la sezione parigina nella quale
operavano S. R. Rana e Madame Cana.
Oltre a chi dimostra la volontà di integrarsi appieno nella nuova realtà sociale
britannica attivando dei canali politici di rappresentanza nei partiti inglesi, c’è, però,
chi non partecipa alla politica inglese ma cerca di rappresentare meglio gli interessi
indù aprendo o collaborando con delle fondazioni o delle filiali di partiti indiani che
negli anni hanno aperto delle sedi a Londra e che dimostrano avere una
caratterizzazione nazionalista. Figura rilevante nello sviluppo dell’idea nazionale,
soprattutto in India, è Vinayak Damodar Savarkar, padre fondatore del nazionalismo
radicale hindu, che si rifà molto al pensiero e alla vita di Mazzini. Avviene nei
politici orientati verso occidente il passaggio da devbhakta, il culto di Dio, a
deshbhakta, il culto della nazione. Contro il pensiero savarkiano il Mahatma Gandhi,
che certamente non è nazionalista, dedicò spazio nel suo Hindu Swaraj del 1909,
rigettando la violenza e i riferimenti al nazionalismo italiano come elemento guida
per quello indiano, perché troppo violento. Ma il ruolo di Savarkar emerge nel 1924
con la pubblicazione, sotto lo pseudonimo di Maratha, di Hindutva, che a tutt’oggi è
il testo a cui fanno più o meno riferimento i movimenti nazionalisti indù. In
quest’opera Savarkar spiega come essere Hindu sia la conseguenza dell’essere nati in
un certo territorio che va dall’Indo all’Oceano Pacifico– Sindhu to Sindhu, con i
confini segnati quindi da tempo immemore. Emerge il ruolo della carta geografica
che fa da collante nello sviluppo del pensiero nazionalista. Il nazionalismo distrugge
l’unità organica indiana: si va, infatti, a sostituire all’infinito Dharma il concetto di
nazione e confini.
La partecipazione nei movimenti neo‐hindu rappresenta comunque una percentuale
marginale degli indù nella Greater London. I gruppi neo‐hindu cercano un sostituto
della comunità, ma in modo occidentale. Gli elementi ritenuti unificanti sono, in
realtà, basati su fattori di negazione più che di complementarietà come il maggior
numero di riti rispetto agli altri, il vegetarianesimo, l’adorazione della vacca, con
obiettivo antimusulmano, e aspetti ariani come il recupero della lingua sanscrita e
dell’origine geografica. Tali fattori divisivi sono applicati in maniera tradizionale,
non in un ottica integrativa. L’origine culturale diventa mezzo di distinzione
politica, e non elemento caratterizzante una civiltà, portando alla formazione di
minoranze inevitabilmente politicizzate, in cui prevale l’aspetto etno‐linguistico su
quello comunitario. Le varie organizzazioni nazionaliste indù, anche nelle loro sedi
di Londra dimostrano l’attaccamento tipico alla mothercountry. Tali movimenti
seguono i dettami delle sedi centrali indiane, lavorando sullo sviluppo dell’orgoglio
e dell’appartenenza indù, intendendo questo termine dal punto di vista culturale e
nazionale, non religioso.
Negli ultimi decenni è stata aperta una fondazione intitolata a Gandhi e che si rifà
all’aspetto sociale del pensiero gandhiano, non riuscendo invece ad utilizzare il
pensiero religioso, poco comprensibile ai britannici, perché troppo profondo, e che
si basa sulla celebrazione del ricordo della visita di Gandhi nel 1931 alla Kingsley
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Hall, sede della fondazione. Sin dall’indipendenza dell’India, si manifestò in
Inghilterra la richiesta di una associazione o di una fondazione che sviluppasse le
idee di Gandhi, nonostante ciò, non si formò prima del 1983. Il fine dell’associazione
è essenzialmente educativo, nel senso di diffondere le idee sociali di Gandhi,
contestualizzandole alla società contemporanea. Non si parla di ashram, ci si rifà
all’ahimsa che viene intesa, però, nel senso pacifista, non non‐violento. La
fondazione assume un ruolo sindacale che, presupponendo un confronto scontro, si
allontana dai principi non‐violenti.
Interessante è anche la Bagri Foundation, fondata da Lord Bagri, un ricco
commerciante di metalli, con scopi culturali e religiosi, che organizza numerose
iniziative. Rilevanti sono una serie di Lectures organizzate in partecipazione con la
India House, con tema nel 2002 “Understanding Islam”, e nel 2003 “Understanding
Hinduism L’approccio tenuto nelle Lectures è tipicamente britannico ed universalista,
considerando nell’analisi i Veda e le Upanishad, ma non la Bhakti, perché
presupporrebbe l’analisi delle statue e dell’iconologia fortemente osteggiata dai
britannici.
Nello studio delle associazioni nazionaliste indiane a Londra, è rilevante la Charity
Commission, istituzione inglese che regola le varie organizzazioni di charity presenti
nel territorio britannico. Tra le varie organizzazioni registrate al suo interno,
troviamo anche numerose associazioni indiane ed indù tra cui l’Hindu Swayamsevak
Sangh UK che è la filiale britannica dell’RSS e che è organizzata secondo lo stesso
modello. Hanno rapporti, di natura diversa, con questa associzione numerose
associazioni come il National Hindu Students Forum, SEWA international UK, il Kalyan
Ashram Trust, l’Oveerseas Friends of BJP ed il VHP. Tali organizzazioni raccolgono
fondi, normalmente per operazioni umanitarie, attraverso l’HSS UK, che poi li invia
in India all’RSS o a sue filiali indiane. Per esempio, dopo il grave terremoto che ha
colpito il Gujarat nel 2001 ed il ciclone che ha colpito Orissa nel 1999, la SEWA
international è riuscita a raccogliere oltre due milioni di sterline, la stragrande
maggioranza dei quali è stata donata da cittadini britannici, per ricostruire i villaggi
devastati ed aiutare sfollati e feriti. Negli ultimi anni le organizzazioni nazionaliste
hanno intrapreso un percorso a volte conflittuale con le altre realtà culturali e
religiose della capitale inglese, che, così come in India, si estrinseca soprattutto nel
difficile rapporto tra nazionalisti neo‐hindu e fondamentalisti musulmani, molto
attivi tra le moschee londinesi; tali approcci, comportano problematiche
nell’evoluzione dei rapporti indù‐musulmani, rischiando di trasformare quello che è
per gli indù un progetto nazionalista, in una reazione violenta su base religiosa nei
musulmani.
Ciò che emerge con forza in questi ultimi anni è, comunque, il processo di
anglicizzazione della massa degli immigrati, processo che interessa molto meno,
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invece, i mercanti. Tale anglicizzazione comporta la perdita dell’identità indiana,
portando gli indù ad avvicinarsi ad altri gruppi. Molti appartenenti alla seconda e
terza generazione di immigrati stanno subendo un processo di rateizzazione, e si
accostano ai West‐Indians, lasciando anche il borough di nascita per trasferirsi nelle
borgate più povere tra cui Notting Hill, zona a più alta concentrazione caraibica,
dove festeggiano il carnevale caraibico, tralasciando, invece, di celebrare i festival
indù come Holi e Diwali. Contro questa deriva l’Indian High Commission, attraverso la
sua ala culturale, il Nehru Centre, organizza delle rappresentazione di danze
classiche, che sono, però, “intellettuali” e quindi non hanno effetti significativi tra la
massa di immigrati indiani.