6
stili di vita differenti e in continua evoluzione. L’adesione ad
uno stile di vita, rispetto all’appartenenza ad una classe
sociale, presuppone un più alto livello d’azione da parte
dell’individuo. Ecco che anche il consumo dei prodotti
riveste un ruolo sempre più importante nella costruzione
della propria identità, mentre il soddisfacimento dei bisogni
materiali e l’emulazione delle classi superiori diventano
secondari. La moda oggi contribuisce sempre di più alla
ridefinizione delle identità sociali attribuendo di continuo
nuovi significati ai manufatti, rispecchiando e alimentando
questa iper-segmentazione di modi d’essere. Diana Crane
(2004) parla di passaggio da una moda di classe a una
moda di consumo, che non si orienta più in base ai gusti
delle élite, ma ingloba gusti e interessi di gruppi che
possono appartenere a qualsiasi classe sociale e nella
quale vi è una diversità stilistica maggiore.
Come ci fa notare Polhemus (1994), dal secondo
dopoguerra alla metà degli anni ‘80 (almeno negli Usa e in
Gran Bretagna specialmente tra i giovani) un numero
sempre più crescente di tribù di stile ha sfidato quella
visione modernista del sistema moda e del mondo tutto,
fino ad arrivare all’odierno supermarket degli stili, in cui
tutte le tribù di ieri (Punk, Hippy, Biker ecc..) sono poste
sugli scaffali come scatole di zuppa istantanea. E’ proprio
la moda della strada che a partire dalla fine degli anni
Settanta comincia ad essere utilizzata e copiata dagli
stilisti.
7
Quel che accade sempre più spesso, è che alcune
subculture adolescenziali cominciano a creare look così
efficaci, da far presagire il modo in cui l’adolescente medio
si vestirà nelle stagioni successive, molto più incisivamente
di quanto siano in grado di fare tante aziende del Fashion
System. In altri termini, si inizia a fare i conti con un
fenomeno nuovo che vede l’innovazione stilistica partire
proprio fra quelle categorie di persone percepite come
marginali dalla cultura dominante, in aree urbane che si
rivelano un vivaio anche per altri tipi di innovazione
(musica, arte, ecc). I teen-agers oggi creano propri codici e
se li comunicano reciprocamente; sono diventati i veri
decision maker e questo, le grandi aziende del brand
system, l’hanno capito. Ma non solo, il consumatore in
generale, è oggi un individuo sempre più flessibile, abile a
districarsi tra le numerose proposte del mercato, spesso
incoerente e mosso da motivazioni di consumo istintuali,
più che razionali. Si assiste al passaggio da una logica
lineare ad una circolare che tiene insieme anche ciò che
divide, che interconnette le differenze (Fabris 2003). Ecco
il perché della nascita di personaggi come i cool hunter,
‘sguinzagliati’ in giro per il mondo dalle aziende, per
intercettare e quindi promuovere quelle che saranno le
tendenze future.
Non solo la moda però, ma tutto il sistema industriale ha
bisogno di cogliere in anticipo le tendenze del mercato, e
spesso è proprio questa necessità che sta alla base dei
8
conflitti tipici delle imprese, tra l’area commerciale e
vendite (che tende a privilegiare ciò che si è venduto bene
nell’anno o nella stagione precedente) e l’area stile e di
prodotto che coltiva, o dovrebbe coltivare, una visione
anticipativa dei bisogni del mercato.
Non si tratta tanto di prevedere ciò che il consumatore
vuole, ma piuttosto di proporgli l’evoluzione di un concetto
che ha già apprezzato, ma che deve necessariamente
evolvere, essere sviluppato per poi essere compreso e
quindi vendibile. Le aziende hanno bisogno di guide
‘speciali’ in grado di comprendere il ‘linguaggio’ della
cultura e della società. Gli imprenditori d’oggi devono
essere dotati di grande sensibilità e soprattutto capire che
non basta proporre al mercato quello che il mercato vuole
oggi, perché sarebbe già un prodotto superato, out!
Occorre, invece, accettare che cosa vorrà nel futuro
prossimo, senza però spingersi troppo avanti o su bisogni
lontani dai target aziendali. L’apporto dei cool hunters va
proprio in questa direzione, riconsiderando la creatività e
l’innovazione alla luce di una logica che non è più lineare;
procedendo per connessioni mentali che non hanno più a
che fare col pensiero verticale, che si occupa di mettere in
relazione e sviluppare modelli concettuali, bensì con quello
che viene definito pensiero laterale, cioè quel
procedimento attraverso il quale la mente combina le
informazioni in modi nuovi al fine di produrre nuove idee
(Saviolo-Testa 2005).
9
L’intento di questa ricerca è quello di analizzare la
professione del cool hunter, alla luce appunto di ciò che è il
sistema post-industriale: la prima parte, quindi, è dedicata
ad un escursus storico-culturale delle principali tribù di
stile dagli anni Sessanta ad oggi, con una considerazione
sull’influenza che gli stili di strada esercitano oggi nel
panorama della realtà globale; nella seconda parte si entra
nel merito della metodologia di lavoro del cool hunter,
cercando anzitutto di capire come agisce il fenomeno delle
tendenze, e analizzando poi le fonti da cui trarre le
informazioni che permettono di elaborare quei concetti
creativi utili alle aziende; nel terzo capitolo si è cercato di
inquadrare il profilo professionale del ricercatore di
tendenze, attraverso i suoi percorsi formativi, le
competenze e il suo ruolo nel processo che va
dall’ideazione alla commercializzazione di un prodotto;
infine l’ultimo capitolo è rivolto agli ambiti lavorativi che lo
vedono coinvolto, sia per quanto riguarda i settori
merceologici, che le strutture per le quali opera.
11
CAPITOLO UNO
IL COOL-HUNTER E I MUTAMENTI DEL SISTEMA MODA
13
1.1. Stili di strada/Sistema moda: punti di contatto
“Gli uomini fanno la loro storia, ma non la
fanno in modo arbitrario, in circostanze
scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze
che essi trovano immediatamente davanti a
sé, determinate dai fatti e dalla tradizione”
[K. Marx]
Trickle down effect : la moda si diffonde nella società
secondo un meccanismo di ‘gocciolamento’ dall’alto verso
il basso; dalle classi agiate poste al vertice, alla massa.
Questa teoria risale ai primi del Novecento
2
ed è stata
considerata valida per tutta l’epoca della modernità. Una
visione classista. Un fenomeno verticale che poteva essere
ben calzante per le società moderne divise in classi
(almeno fino agli anni Sessanta), ma che per le società
attuali postmoderne, più frammentate, risulta oramai
obsoleta.
Quel che prese il via dal secondo dopoguerra, fu un
progressivo cambiamento sociale, culturale ed economico.
La segmentazione dei mercati, la democratizzazione dei
consumi, l’intensificarsi delle differenze di status, la
maggiore libertà dagli schemi prefissati, cominciarono
pian piano a ridisegnare il panorama socio-culturale
calando l’umanità in una nuova era: la postmodernità.
2
Simmel, 1904
14
Negli anni Cinquanta la moda era ampiamente
dominata dall’egemonia di Parigi e dall’alta sartoria; il lusso
e la classe erano i concetti portanti e rimasero tali anche
nel decennio successivo. La moda aveva un proprio
establishment che dettava legge; decideva la forma degli
abiti che una donna avrebbe indossato, indipendentemente
dalla forma del suo corpo: Vogue annunciava il colore della
stagione, e dappertutto i negozi presentavano vestiti
banana beige, rosso corallo o quello che era
3
.
Quel progressivo cambiamento che era in atto,
cominciò a rendersi visibile con il passaggio dall’Haute
Couture al prêt-à-porter, negli anni Sessanta. I centri
creativi si moltiplicarono e le istanze elitarie e dittatoriali
dell’alta sartoria iniziarono a fare i conti con quelle
democratizzanti della confezione industriale, in grado di
offrire comunque prodotti innovativi e ben curati
tecnicamente.
Inizia l’epoca degli stilisti creativi e delle griffe (che
toccherà il suo apice negli anni Ottanta). La salda
struttura centralistica della moda, con le sue norme e il
suo orientamento verticale, la sua temporalità uniforme e
progressiva, vede affiancarsi un concetto più democratico
e personalistico del vestire: lo stile.
L’abbigliamento comincia via via a rappresentare
uno strumento di costruzione e affermazione della propria
3
YORKS P., Modern Times, David & Charles, London, 1985
15
identità, svincolandosi dai meccanismi verticali che lo
attanagliavano a ‘identità preconfezionate’. Lo stile,
rispetto alla moda, sfida il cambiamento ricercando
qualcosa che sia senza tempo e mettendo l’accento su
una diversità pluralistica; indica una condizione, un sistema
di pensiero, o uno stato d’animo; è la rappresentazione di
un modus vivendi.
[…]Così, prendendo come esempio i due più importanti stilisti
milanesi, la differenza tra un abito di Armani e uno di Versace era
immediatamente riconoscibile, mentre diventava più difficile
collocare le loro rispettive creazioni in una stagione precisa: il
messaggio <Sono un tipo Armani, oppure un tipo Versace> era più
essenziale del messaggio <Sono all’avanguardia>. (Né l’uno né
l’altro messaggio, naturalmente, rendeva in alcun modo meno
importanti gli stilisti o l’industria dell’abbigliamento. Tutt’altro. Quello
che era cambiato era la funzione del prodotto: che ora definiva
sempre più dove eri – il tuo stile di vita, il gruppo cui appartenevi –
piuttosto che quando eri: se cioè ti trovavi in anticipo o in ritardo sui
tempi.) […]
4
La distinzione semantica tra moda e stile è fortemente
legata alla variabile del tempo, o meglio all’esperienza che
si fa, attraverso l’abbigliamento, del tempo; lo stile è
4
POLHEMUS T. , Fashion victims e strateghi dello stile, in COLAIACOMO P. CARATOZZOLO
V.C., Mercanti di stile , Editori Riuniti, 2002, p.39
16
qualcosa di sostanziale che si genera intimamente negli
appartenenti a un gruppo differenziandolo da ciò che lo
circonda, ed esprime il grado di immersione in una data
realtà sociale, in un dato tempo.
5
La moda, invece, segue
una successione cronologica ciclica, in cui il cambiamento
del gusto segue una traiettoria calcolabile e prevedibile.
Quel che comincia ad emergere in questi anni è
una voce dal basso, dalla strada, dalle subculture giovanili
che rivendicano autenticità, sfidando l’egemonia in una
maniera obliqua e “spettacolare”, sottoforma di stile; “uno
stile gravido di significazione… che contraddice il mito del
consenso[…]una sfida simbolica a un ordine simbolico”.
6
La
solida struttura del sistema moda e le teorie sociologiche
fino ad allora imperanti, dovettero dunque fare i conti con
l’onda crescente delle prime avanguardie giovanili, in un
intreccio prevedibile di citazioni e appropriazioni dei
rispettivi patrimoni simbolici; e quello che fino ad allora
sembrava essere un automatico ‘gocciolamento’ dall’alto
verso il basso (trickle down) comincia a trasformarsi in un
‘ribollìo’ dal basso verso l’alto (bubbling up).
Le prime forme di avanguardie sottoculturali erano
emerse, in realtà, già dalla metà degli anni Cinquanta con
la nascita dei Teddy boys, ed è probabilmente da qui che
prende piede la storia ufficiale degli street-style.
5
GRANDI R., Moda, stili di strada e ipermercato dei segni, Sillabe per Pitti Immagine,
1994
6
HEBDIGE D., Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, (1979), Costa & Nolan, 1983
17
L’appellativo nasceva in Inghilterra, per identificare alcune
bande di adolescenti, la cui caratteristica era vestirsi in
stile pseudo-ottocentesco, il cosiddetto stile ‘edoardiano’
(da cui il diminutivo Ted e di conseguenza Teddy ): giacche
a 3/4, camicie merlettate, pantaloni stretti a sigaretta,
ciuffi di capelli a spiovere sul viso e lunghi basettoni. Erano
ragazzi della working class, che si distaccavano dai valori
della cultura dei genitori e non riuscivano a dialogare con i
coetanei della classe media. Fu la prima forma di
opposizione simbolica alla cultura dominante, che aprì le
porte alla questione dello stile delle subculture come
resistenza vitale e contraddittoria alla cultura trazionale,
da un lato, e al mainstream della cultura commerciale
dall’altro.
18
Dalla metà degli anni Sessanta i giovani diventano i
protagonisti di una vera e propria rivoluzione del costume.
Le nuove generazioni vogliono affermare la loro autonomia
sociale rompendo con il passato e i costumi tradizionali.
Sono gli anni dei Mods, dei Rockers, dei Bikers e della Beat
generation. Nella moda, l’elemento più visibile di questa
mentalità ribelle sono i capelli lunghi dei ragazzi che
rifiutano l’immagine convenzionale e adottano abiti e
accessori inconsueti come stivaletti, pantaloni e jeans
attillati; abbinano stili e colori diversi per ostentare un
atteggiamento anticonformista, libero da costrizioni e
sessualmente provocatorio; le donne poi, esasperano la
loro femminilità con trucchi pesanti, teste cotonate,
pantaloni e magliette
aderentissimi, fino alla
fatidica minigonna lanciata
da Mary Quant nel 1964,
icona proprio della libertà
sessuale appena
conquistata. La diffusione di
questa nuova tendenza,
definita “antimoda”, ebbe
luogo prima di tutto tra i
giovani delle classi sociali
meno elevate, pronti ad
adottare uno stile
trasgressivo giocando con abiti facilmente reperibili nei
19
mercatini dell’usato; ma questo modello da emarginato
che rifiutava la funzione classica del vestirsi per
differenziarsi da altri status sociali, diventa quasi subito un
movimento generazionale che coinvolge i giovani di ogni
livello socio-culturale. Quel che probabilmente prende il via
in questi anni, è una riconsiderazione del significato sociale
dell’abbigliamento alla luce del suo potenziale simbolico.
Vestirsi in un ‘certo modo’ era un mezzo per poter fare
affermazioni su se stessi, un segno che l’individuo sapeva
come sovvertire le regole dell’abbigliamento “alla moda”.
7
Ogni scelta di un abito o di un accessorio era vista come
un atto creativo, come parte di un uso sovversivo del
consumo. Pertanto questa domanda di mutamento da
parte dei movimenti giovanili, almeno all’inizio, difficilmente
trovò soddisfazione nelle proposte degli stilisti; e fu il
mercato, invece, a rispondere con l’apertura di una
moltitudine di negozi in cui era possibile trovare abiti nuovi
o usati importati da Parigi e da Londra. Soprattutto
Londra, in questi anni, diventa il nuovo punto di riferimento
nell’immaginario giovanile, da qui arrivano gli stili più
innovativi e versatili, e qui nascono i primi mercatini che
giocarono un ruolo importante nell’interazione tra cultura
di strada e giovani stilisti, e quindi nel lancio di nuove
tendenze. Ed è sempre a Londra che nascono, intorno al
1962, i primi gruppi di teenagers che si autodefinirono
7
FRITH 1987, in CRANE D., Questioni di moda. Genere e identità nell’ abbigliamento,
Franco Angeli, 2004.
20
Mod: ragazzi della piccola borghesia e della classe
lavoratrice, la cui ribellione si fondava su concetti nuovi,
‘moderni’ (dalla contrazione inglese di questa parola deriva
appunto il nome della nuova tribù di stile). Infatti, a
differenza dei vistosi Ted e delle precedenti rozze
generazioni di ribelli, i Mod curavano in modo ossessivo il
loro vestiario, aspirando a dare un’immagine di sé pulita e
impeccabile; fanatici della sartoria italiana, portavano
capigliature corte e ordinate, giacche con aperture laterali,
cravatte, scarpe a punta e l’immancabile giaccone militare
(il cosiddetto ‘parka’). Spingere l’eleganza fino a un punto
così eccessivo, in realtà, non era altro che una
provocazione; ribelli che avevano eletto come cardine della
loro vita la ‘brillantezza’; per questo ingerivano pillole di
anfetamina, frequentavano i parties “all-nighters” e
odiavano tutto ciò che veniva propagandato dalla società
dei consumi. La rissa del 1964 sulle spiagge di Clacton,
tra Mod e Rocker, fece scalpore anche in Italia, cosicché
tanti teenagers nostrani iniziarono a seguire fedelmente i
dettami dei loro coetanei britannici, tanto più che si
sentivano naturalmente vicini allo stile dei Mod, fatto di
abiti e ciclomotori italiani.
Pian piano nella moda istituzionale la dialettica fra
tradizione e innovazione, sino ad allora in costante
equilibrio, fu sbilanciata dalla crescente richiesta di un
abbigliamento particolare che fosse sensibile alle tendenze
d’avanguardia. Il modernismo fu interpretato dagli stilisti
21
nella direzione di un’estetica “lucida” che esaltava le linee
nette e geometriche e i tessuti sintetici o i vestiti metallici.
8
L’espressione del nuovo cominciò a tradursi anche in
diverse modalità produttive: alcune boutique iniziarono a
realizzare capi con il proprio marchio, aprendo
definitivamente la strada al prêt-à-porter. La moda
comincia a diventare un gioco creativo e libero, accessibile
a tutti, ideato per soddisfare un desiderio estetico di
massa. Si realizza quella che Lipovestky definisce
“rivoluzione democratica” che pone fine alla “moda dei
Cent’anni”. Tra il 1960 e il 1970 i giovani emergono non
solo come categoria sociale detentrice di innovazione, ma
anche come categoria di consumo. Il rifiuto delle
convenzioni, l’adottare un comportamento sessuale libero,
l’opporsi delle adolescenti all’immagine della brava
ragazza, sono gli atteggiamenti tipici di questo nuovo
pubblico che vuole rendersi visibile attraverso un look
alternativo. A sconvolgere i canoni del “buon gusto” arriva
anche Mary Quant, una giovane londinese che dal suo
negozio sulla King’s Road rivoluziona il mondo della moda
lanciando la minigonna. Trasformandosi ben presto in un
nuovo ‘modus vivendi’ giovanile, e a dispetto di tante mode
effimere, si dimostrerà un’invenzione le cui formule
rimarranno stabili nel tempo. La stessa Quant sostiene:
“lanciare una moda richiede tanto sicurezza quanto
8
BARILE N. , Manuale di sociologia e cultura della moda, Meltemi, 2005, p. 31