2 Age, Scarpelli e Monicelli, con coraggio ed ironia, decidono, in
questi due film che raccontano le vicissitudini di un buffo e sgangherato
antieroe medioevale, di fare il verso a questa modalità e ci rappresentano
un Medioevo zeppo di tutti gli stereotipi antichi e moderni sul periodo,
allegramente usati e dissacrati, apertamente travisati e mistificati, ed
attraverso tutto ciò riescono a tratteggiare, nonostante la indiscutibile
comicità dei due film, una dolce e dolente metafora dell’esistenza umana.
Strumento di questa operazione è il palese ricorso al procedimento della
parodia, che attraverso diverse tecniche (dall’antifrasi, all’enfasi,
dall’uso dell’ enunciazione mistilingue a quello dell’allusione) percorre
tutti i livelli del testo, da quello storico-tematico a quello retorico-
stilistico e, soprattutto, a quello linguistico che con il suo pirotecnico
pastiche pervade e informa le due sceneggiature.
Il primo capitolo ripercorre la strada che ha portato gli autori alla stesura
delle due sceneggiature e cerca di individuare le motivazioni che erano
sottese al loro lavoro.
Il secondo, il più ampio, è costituito da una breve introduzione in cui si
esplica che cosa si intende per parodia e perché queste due sceneggiature
possono essere intese, a mio avviso, dei testi parodici; segue un’analisi
dettagliata dei vari procedimenti che concorrono alla concretazione della
parodia stessa: l’antifrasi esistente tra il significante e il significato di
alcuni antroponimi e toponimi citati nei due testi, ed anche quella che si
crea tra la lingua e lo stile di alcuni dei personaggi e la loro realtà sociale;
l’enunciazione mistilingue, processo grazie al quale vengono create
lingue ad personam per ognuno dei personaggi dei due film e che
consiste nell’accostamento, all’interno della stessa frase, di vocaboli di
provenienza sociale, storica e geografica differente (notevole spazio è
stato dedicato all’analisi dell’uso, in questo processo di creazione
linguistica, dei dialetti italiani e del latino, nonché del “latinorum” e di
tutti gli altri espedienti adoperati dagli sceneggiatori per rendere l’idea di
3
un linguaggio antico- arcaico); l’enfasi, procedimento che viene usato per
ironizzare sulla pomposa e compassata ars retorica di stampo
mussoliniano.
Il terzo capitolo, infine, prende in considerazione il fenomeno della
parodia da un altro punto di vista, quello letterario. Numerosi sono infatti
i riferimenti alla cultura letteraria presenti all’interno delle due
sceneggiature e altrettanto numerose sono le messe in ridicolo di quegli
stessi archetipi. Anche in questo caso ho analizzato in dettaglio le
tecniche che innescano il meccanismo parodico: la degradazione
parodica di un modello alto, per quanto riguarda il riferimento al teatrino
dei pupi, quello all’Iliade e quello al Carpe Diem; l’allusione, per quanto
concerne il rapporto con il Don Chisciotte di Cervantes; l’antifrasi, in
merito al rapporto tra i due film su Brancaleone , le Chansons des gestes
tradizionali e il romanzo medievale, dal Roman de la rose al Perceval.
Ultimo viene una piccolo allegato, sintesi dei numerosi argomenti che il
Signor Furio Scarpelli ed io abbiamo affrontato nei due pomeriggi che ho
avuto l’occasione (e la fortuna!) di passare nella sua casa di Roma. Si
tratta soprattutto di piccoli aneddoti sulle due sceneggiature da me
analizzate, ma non mancano alcune sue personali opinioni sul cinema di
ieri e di oggi e alcune sue considerazioni sul lavoro dello sceneggiatore e
del regista, mestieri che egli, ovviamente, conosce benissimo.
4
GENESI DELLE DUE SCENEGGIATURE
Gli autori di L’Armata Brancaleone e di Brancaleone alle Crociate sono
Mario Monicelli, Furio Scarpelli e Age(nore) Incrocci: i massimi
esponenti della commedia all’italiana (corrente cinematografica che si
sviluppò negli anni ‘60-‘70 e il cui obiettivo era quello di scavare a fondo
nella realtà della società con sarcasmo, ironia e cinismo).
Age e Scarpelli furono, fino al 1985, anno della fine del loro sodalizio
artistico, la più celebre coppia di sceneggiatori del cinema italiano. Usciti
dalla fucina del giornale satirico Marc’Aurelio come la maggior parte
degli sceneggiatori di quell’epoca (Metz, Marchesi, Pipolo, Steno e lo
stesso Monicelli), da lì acquisirono quel senso dell’umorismo irriverente
che pervade ogni loro scritto. Cominciarono sceneggiando i film di Totò
(ad esempio Totò le Mokò, Totò cerca casa, La banda degli onesti), con
risultati esilaranti, ma già pronti a deviare nell’osservazione di costume
che diventerà poi preminente negli anni ’60, da I soliti Ignoti in poi. A
partire da allora l’attualità della patria e la Storia verranno analizzati
attraverso dei modi più duri e aspri, ma sempre accompagnati da un
immancabile distacco ironico, da una sempre presente deformazione
umanistico-grottesca, con l’intento di mettere in scena quella che
Vincenzo Bucchieri ha definito una sorta di «bizzarra, lacunosa e
tragicomica contro-storia nazionale»
1
.
Elemento costante nella loro poetica era l’attenzione che essi rivolgevano
ai linguaggi e agli usi popolari (dialetti, modi di dire, intonazioni,
cadenze buffe e particolari, dal padano di Giovanni Busacca-Vittorio
Gassman ne La Grande Guerra al linguaggio naif, elementare del pugile
Gerard Depardieu in Temporale Rosy) che giunse fino all’invenzione di
una vera e propria “lingua alternativa” nei due film su Brancaleone.
1
V. Bucchieri, Il pernacchio e la storia, in Lo sguardo eclettico. Il cinema di Mario Monicelli, Venezia, Marsilio, 2001,
p. 163.
5
L’Armata Brancaleone e Brancaleone alle Crociate nascono con
l’obiettivo di demitizzare l’idea di Medioevo lezioso e ameno che si
imparava a scuola, leggendo Le Roman de la Rose e le avventure dei
cavalieri bretoni. Le due sceneggiature vengono sviluppate a partire da
tre paginette che Scarpelli buttò giù su un dialogo tra due contadini
medioevali che parlavano di donne, e a partire da Donne e soldati un film
del 1955 di Luigi Malerba e Antonio Marchi, di scarsissimo successo, ma
che si può in realtà considerare, grazie allo spirito rabelaisiano della sua
guerra a colpi di salame, come il capostipite e l’anticipatore della
stagione delle commedie medioevali più o meno boccaccesche degli anni
’60-’70 (da L’Armata Brancaleone a I Picari).
Il nuovo Medioevo creato da Monicelli &Co. è sostanzialmente una
rilettura picaresca delle famose chansons de gestes, che raccontavano le
gesta gloriose ed eroiche di re Carlo e dei suoi prodi paladini, ed è infatti
cialtrone, fatto di poveri, di ignoranti, di miseria , di ferocia e di fango.
Una grande ballata popolare, insomma, del tutto il linea con gli altri film
di Monicelli, tutti fatti di comicità amara e di allegra disperazione, tutti
impegnati a raccontare la vita e la morte con semplice profondità e tutti
aventi come protagonisti dei non-eroi da strapazzo.
Dunque, anche se la collocazione temporale si sposta intorno all’anno
mille, le linee tematiche di fondo restano sempre le stesse: l’attenzione è
ancora una volta posta sulla relazione personaggio-società e sulle
difficoltà in cui l’individuo incorre per sopravvivere all’ineluttabilità
della Storia, la cui unica via d’uscita sembra essere la morte (due
tematiche tipiche del cinema monicelliano). Questa idea emerge con
chiarezza per esempio nella litania che accompagna il decesso dell’ebreo
Abacuc ne L’Armata Brancaleone: «Non soffrirai più lo freddo né calura.
Né fame, né sete, né malanni né bastonate. Ma uno cielo sempre a bello,
e l’uccelletti su li rami di arbori in fiore, e l’angioli che ti donano grandi
pagnocche di pane, olio e cacio in abbundanzia, e latte e vino novo, e
dicono: ‘Vuoi tu, vecchio? E piglia. Ancora? E piglia, beve, mangia, fatti
6
sazio, vecchio…’». «Beato a isso»
2
conclude uno dei poveri diavoli,
invidioso della sorte di Abacuc. Beato dunque chi dorme o muore perché
non sente il rumore della Storia, e soprattutto il brontolio del proprio
stomaco.
Numerose le matrici delle due sceneggiature, sia letterarie (dal Salgari de
Gli ultimi filibustieri a Ariosto, Rabelais, Pulci, Tassoni, per non parlare
del Don Chisciotte di Cervantes, decisamente la fonte prima di
ispirazione) , sia cinematografiche (prima tra tutte La Fortezza Nascosta
di A. Kurosawa, film sui samurai che apparentemente nulla ha in comune
con la storia del vecchio Branca, ma che per uno strano caso del destino è
stato doppiato in “romanaccio” ed è dunque molto piaciuto agli autori
delle due sceneggiature) ma anche teatrali (soprattutto in Brancaleone
alle Crociate, che è una evidente parodia dello spettacolo dei pupi
siciliani); per non parlare di tutti i riferimenti alla cultura popolare
dell’epoca facenti parte del background culturale dei tre, dal Corriere dei
Piccoli a Il Prode Anselmo, dal teatro di varietà alle reminescenze
scolastiche. Un grande crogiuolo di entità eterogenee e composite che
sono state abilmente mescidate e che hanno dato origine a due tra le più
ingegnose e creative sceneggiature del XX secolo, opera dei più grandi
sceneggiatori di commedie mai avuti in Italia (e forse nel mondo), in
grado di inserire nella comicità sempre più significato, in grado di far
trasparire attraverso l’ironia il dramma e la tragedia: «Ci si chiedeva di
far ridere. Noi lo facevamo, ma poi cominciavamo a pensare di metterci
anche qualcosa che avevamo dentro, che ci riguardasse più da vicino,
delle nostre riflessioni, una visone sociale delle cose. Era il nostro modo
di rispettare un nostro impegno mai scritto, di natura diciamo politica»
3
disse qualche tempo fa Furio Scarpelli.
2
Age&Scarpelli, Monicelli, Il romanzo di Brancaleone, Milano, Longanesi, 1984, p.123.
3
M. D’Amico, L’officina della sceneggiatura, in Lo sguardo eclettico. Il cinema di Mario Monicelli, Venezia, Marsilio,
2001, pp. 21-21.
7
Lo strumento per fondere profondità, comicità, riflessioni personali e
attenzione alla società nel caso specifico del Brancaleone, è la lingua.
E’ proprio questa infatti a rappresentare l’elemento più interessante ed
innovativo delle due sceneggiature: una lingua di inusitato impasto,
duttile, aperta a soluzioni ardite, irrispettosa dei confini storico spaziali e,
soprattutto, divertentissima.
Una lingua tanto insolita da portare il produttore, Cecchi Gori senior, ad
affermare « E’ impossibile! Se non parlano in italiano, fateli parlare in
romanesco, che cos’è questo linguaggio? Siete dei pazzi !»
4
, queste
ingerenze dell’imprenditore toscano costrinsero Monicelli a partecipare
economicamente alla produzione del film, mentre Age e Scarpelli
dovettero attenuare, fra una prima e una seconda redazione della
sceneggiatura, la patina eccessivamente esotica di alcuni elementi della
lingua di Brancaleone, mantenendo comunque sostanzialmente inalterati
la brillantezza e il fascino del loro lavoro di creazione.
E’ proprio su questa lingua inventata ad hoc dagli sceneggiatori che
intendo soffermare la mia analisi.
Le due sceneggiature, se ci si ferma ad un’osservazione superficiale,
sembrano rimandare a diversi ambiti e a svariate tradizioni (letterarie
piuttosto che semplicemente idiomatiche, ma anche storiche), ma, se
l’analisi viene condotta maggiormente in profondità, ci si accorge di
come, in realtà, questi rimandi siano solo parziali e a volte anche erronei,
in quanto basati non sul diretto appoggio ai testi cui bene o male si allude
ma sul ricordo, sulle reminescenze di una cultura scolastico-libresca che i
tre vegliardi del cinema italiano sicuramente possedevano in buone dosi.
Ciò che si ottiene non sarà dunque la creazione a tavolino di un’opera
“citazionista” bensì la creazione di un’opera filtrata sì attraverso la
cultura dei suoi autori ma sostanzialmente affrancata da legami troppo
imponenti con la tradizione; il retroterra che sostiene tutta l’architettura
narrativa è pertanto colto, letterario, ma esso viene abilmente distorto e
4
M. Monicelli, L’arte della commedia, Bari, Dedalo, 1986, p.83.
8
colorito quel tanto che basta per farne occasione di lieto spettacolo
popolare.
L’obiettivo infatti non era realizzare un qualcosa di altamente raffinato
ed elaborato, fruibile solo da un’élite ristretta, in grado di coglierne tutte
le allusioni e le citazioni. Al contrario: le due sceneggiature (e di
conseguenza i due film : L’Armata Brancaleone, del 1966, e
Brancaleone alle crociate, del 1970) sono state ideate pensando ad un
grande pubblico (e questa fatica degli autori sarà premiata: entrambi i
film saranno campioni di incasso e di presenze nei rispettivi anni di
uscita).
Tutte le pseudo citazioni e gli pseudo riferimenti alla cultura “alta” non
sarebbero altro che le infiltrazioni, più o meno volontarie, all’interno
della struttura narrativa del film, del retroterra culturale dei tre autori.
L’intentio operis che prevale sull’ intentio auctoris,come direbbe Eco. E
cioè il testo che autonomamente si relaziona al contesto, all’ ambito
intellettuale in cui è inserito e alla competenza enciclopedica dell’autore
stesso; esiste infatti una «attività cooperativa che porta il destinatario a
trarre dal testo quel che il testo non dice (ma presuppone, promette,
implica ed implicita), a riempire spazi vuoti , a connettere quello che vi è
in quel testo con il tessuto dell’intertestualità da cui quel testo si origina e
in cui andrà a confluire»
5
.
La lingua alla quale i tre sceneggiatori hanno dato forma deriva da
un’operazione culturale ricca e stimolante, confortata da buone letture di
vario genere e orientamento; i procedimenti da essi usati sono piuttosto
raffinati: si va dai procedimenti tropico–figurali ai rimandi allusivi, ai
conii lessicali, ma, ciò nonostante, io credo che il risultato di questo
lavoro di creazione linguistica e storico-letteraria possa essere
considerato alla stregua di un bellissimo e intrigante gioco goliardico, o
come lo ha definito Scarpelli: « Un pastiche, anzi: un pasticcio!»
6
un
5
U. Eco, Lector in fabula, Milano, Tascabili Bompiani, 2002, pp. 5-6.
6
A riguardo si veda l’ Allegato a questo lavoro: Due pomeriggi con Furio Scarpelli, contenente il resoconto di quanto
lo sceneggiatore mi ha raccontato sulla genesi delle due sceneggiature.