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rende obsoleta e poco fruttuosa la ormai tradizionale distinzione tra
ciò che è vecchio e ciò che è nuovo. Uno dei più evidenti aspetti del
“moderno” è la riappropriazione, da parte del soggetto, del potere di
disposizione della realtà e di attribuzione di significato al mondo: tale
potere, in passato delegato a momenti collettivi e trascendenti rispetto
al soggetto – come la politica, le appartenenze sociali, culturali e
religiose, le tradizioni, etc. – trova un suo campo di esercizio e di
sperimentazione proprio nella comunicazione audiovisiva. In questo
scenario – segnato non a caso anche dalla straordinaria abbondanza
dell’offerta – si scorge infatti un’attitudine esplorativa e transattiva
del soggetto in quanto capace di scelte di relazione e portatore
intenzionale di significati. Oggi, con l’avvento del digitale, si
ridimensiona l’antica immagine della subordinazione al consumo nel
momento dell’offerta riconoscendo così alla TV il ruolo di vestale e di
istitutrice ai cambiamenti ed agli scenari del nuovo.
La storia del digitale potrebbe avere mille date di nascita, ma
potremmo farla risalire all’invenzione del microchip: siamo agli inizi
degli anni settanta, si riesce a ridurre un calcolatore che occupa una
stanza, in un cubetto di silicio, migliorando addirittura l’efficienza di
calcolo. La nostra storia parte da qui e giunge sino alle
miniaturizzazioni e ai bassi costi dei computer di oggi. La scienza dei
computer viene finanziata agli inizi negli Stati Uniti, nell’ambito della
ricerca per la costruzione della bomba atomica. Terminata la guerra
sembra fermarsi tutto, ma l’informatica diviene di nuovo
fondamentale durante la “guerra fredda”. I finanziamenti prendono
due strade: quella militare e quella della ricerca per migliorare le
prestazioni dei calcolatori e farli entrare nella vita della gente. Infatti,
alla fine degli anni sessanta, i computer sono considerati ancora
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“macchine da film”. Paradossalmente è proprio il cinema lo sponsor
migliore per il computer: la gente comincia a sognarlo nella proprie
case.
Il microchip viene finanziato dalla stessa IBM. Siamo alla fine del
1971: il nostro “cubetto di silicio” fa vedere di cosa è capace
all’interno di un videogame. Nel frattempo, infatti, Nolan Bushnel
comincia a programmare videogames. Iniziano a dispiegarsi le enormi
potenzialità dell’interattività: non conta più stare solo davanti allo
schermo, ma entrarvici. Per la prima volta si ha interazione nel senso
stretto, lo schermo non agisce se non siamo noi a farlo agire. I
videogiochi pongono la prime regole fisse per l’interattività:
comprensibilità immediata, gratificazione, finalità, divertimento e
simulazione. Dal 1972 al 1978 si parla solo di videogames. All’inizio
degli anni ’80 abbiamo già portato l’informatica negli uffici e nelle
case (almeno in ambito statunitense). C’è bisogno di una nuova
frontiera: far comunicare attraverso i computer. Nasce il modem, che
sfrutta la linea telefonica. I primi modem procedono ad una velocità
bassissima e si attaccano addirittura alla cornetta del telefono. Pian
piano, si migliora anche in questo campo, si abbassano i prezzi e si
entra in un circolo vizioso. Il provider maggiore è Prodigy, in Italia
Videotel ed Italpac; cominciano a diffondersi le prime BBS, tra cui
Fidonet ed Arpanet, antenati storici della rete WWW. A questo punto
entra in gioco Bill Gates che, semplificando il sistema Unix, crea il
MS-DOS. Cede la licenza del nuovo sistema operativo alla IBM che
già si stava imponendo nel campo dell’informatica, ma ne mantiene,
per la Microsoft, la proprietà.
E’ il primo “break” nella storia dei computer. Gates pensa quindi di
coprire tutto il mondo con una rete satellitare di proprietà della
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Microsoft: MSN (Microsoft Network). Porta avanti intenti
monopolistici, ma commette l’errore di voler far pagare l’accesso al
suo network.. Nel 1994 Andreessen elabora il primo browser grafico
per il world wide web, Mosaic, che consente, attraverso il protocollo
WWW e le pagine in HTML, di “vedere la rete”, di esplorarla come
un ipertesto ricco di immagini e link. Da uno strumento ideato per la
comunità scientifica, il Web si trasforma in un motore per la nascita e
diffusione di Internet e per la proliferazione di contenuti adatti a
popolarla. Andreessen riesce così a sorvolare la “cortina di ferro” di
Windows, innalzata da Bill Gates: con Mosaic, infatti, si arriva
direttamente in rete senza il bisogno di ricorrere ai programmi
Microsoft.
E’ il secondo “break” della nostra storia. Andreessen intanto, viene
avvicinato da Jim Clarke della Silicon Graphic (acerrimo rivale di
Gates) e fondano Netscape, un software per navigare in rete alla
portata di tutti poiché a disposizione gratuitamente sul web. Questa
società nasce, infatti, con una strategia molto semplice: facilitare
l’accesso al WWW, con un uso semplice (l’interfaccia di Netscape) ed
un facile reperimento. Netscape, viene concesso, sì, gratuitamente agli
utenti privati ma a pagamento alle istituzioni e ai server. Il successo
riscontrato dal programma porta, nell’estate del 1995, alla quotazione
da record del titolo della Netscape, di fatto la prima società
protagonista di quella che in seguito sarebbe stata chiamata New
Economy. Gates sottovaluta la situazione anche perché, il vero
obiettivo, non dichiarato, di Andreessen e Clarke era di creare
un’alternativa alla piattaforma esistente, con linguaggi che si
appoggiassero direttamene a Internet. Gates reagisce soltanto nel
1996, quando, accorgendosi delle potenzialità distruttive (per la
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Microsoft) di Netscape, immette sul mercato Internet Explorer
promuovendolo attraverso una campagna pubblicitaria senza
precedenti nella storia dell’advertising informatico con l’intento di
recuperare terreno su Netscape.
Si è dovuto quindi attendere l’invenzione del chip, del computer e
della rete internet perché il bit diventasse davvero una rivoluzione.
Rivoluzione spinta e alimentata dagli interessi congiunti dell’industria
militare (anni ’50) e dei mondializzati commerci contemporanei. Il bit
è stato allo stesso tempo causa e conseguenza del fenomeno della
mondializzazione. Da una parte il progresso tecnologico ha dischiuso
potenzialità impensabili sia dal punto di vista dell’accrescersi
dell’intelligenza delle macchine, sia dal punto di vista della
trasformazione, elaborazione e trasmissione delle informazioni.
Dall’altra, le esigenze dei governi e delle grandi aziende hanno
liberato fonti ingenti per la ricerca e la sperimentazione di queste
tecnologie. Oggi la digitalizzazione crea un testo di dimensioni
planetarie, che si sviluppa senza soluzioni di continuità (De Carli
1997), un ipertesto che nasce dai legami che si instaurano tra i vari
testi nella rete. Siamo consapevoli della presenza di un mondo
parallelo al mondo reale, integrato con il nostro, ma che vive di regole
proprie. La cultura della comunicazione, infatti, si ristruttura sulla
base di tre elementi fondamentali che informano l’agire sociale e la
trasmissione della conoscenza: multimedialità, ipertestualità e
interattività. L’avvento del grande metamercato ITC (Information
Communication Technology) fa registrare fenomeni di cambiamento
nei processi comunicativi e nell’industria culturale, impostando come
sistema dominante la digitalizzazione poiché, da un lato, rende più
economica la produzione industriale delle informazioni e, allo stesso
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tempo, espande i mercati e i confini della loro fruizione. L’era
analogica era caratterizzata da spazi confinati all’interno dei limiti
imposti dai singoli mezzi di comunicazione e dai costi di produzione e
di trasmissione.
La digitalizzazione dell’informazione ha permesso, negli ultimi anni,
di canalizzare suoni, immagini e testi, in reti computerizzate e
comunicanti, rendendo così possibile ricevere e trasmettere
informazioni multimediali grazie alla facilità di utilizzo delle diverse
interfacce, all’organizzazione ipertestuale, alla diffusione veramente
planetaria dell’informazione. L’interfaccia gioca un ruolo cruciale
nella società delle informazioni perché oggi le attività di lavoro a di
svago convergono intorno ad essa. Il miglior esempio di questa
convergenza è il browser
2
che viene utilizzato sia in ufficio che a casa,
sia per lavoro che per il tempo libero. Sotto questo aspetto la società
delle informazioni è profondamente diversa dalla società industriale,
dove c’era una netta separazione tra l’area del lavoro e l’area del
tempo libero. Oggi ci rapportiamo a una cultura codificata in forma
digitale con cui interagiamo attraverso la cosiddetta interfaccia
culturale. All’interno di quest’ultima, si scontrano globalizzazione e
segmentazione estrema dell’informazione: le reti satellitari consentono
una fruizione planetaria dello stesso segnale trasmesso, ma se
guardiamo alla TV digitale ci si rende subito conto della
tematizzazione dei contenuti veicolati, come quelli della continuità e
discontinuità, dell’unificazione e targettizzazione, delle comunità
virtuali e pay-per-view isolazionista. L’estensione dell’interattività e
2
Sfogliatore di documenti web, è un programma in grado di interpretare il codice HTML (e più
recentemente XHTML) e visualizzarlo in forma di ipertesto. L’HTML è il codice col quale la
maggioranza delle pagine web nel mondo sono composte: il web browsercosente perciò la
navigazione nel web.
7
l’unificazione dei medium (il pc-tv e la tv-pc), ovvero, ciò che da più
parti viene definita come “convergenza”, completano il quadro:
l’uomo digitale riesce a far convivere codici e linguaggi diversi
all’interno della stessa macchina.
Tutti questi processi “ridefiniscono” e quindi non “sostituiscono” il
tradizionale sistema dei media e le reciproche relazioni che la storia
della comunicazioni ha ciclicamente attraversato. La tecno-cultura
realizza, in parte, la globalizzazione di una nuova generazione a cui è
permesso l’accesso alle merci tecnologiche high-tech, e in parte la
conseguente familiarità con gli strumenti utilizzati correntemente.
Questa commistione tra reale e virtuale non deve però trarre in
inganno: fin quando si è immersi nel virtuale, è percepibile un
abbattimento netto della distinzione centro-periferia, ma non appena
oltrepassata la sua soglia e, reimmessi nel mondo reale, ci si accorge
della distanze abissali (e ancora analogiche) che separano i luoghi
materiali e immateriali. L’equivoco contemporaneo risiede proprio
nella confusione tra due mondi ancora distanti, quello della
conoscenza e quello della programmazione. Il digitale si configura
come una possibilità di rappresentazione del reale, ma pur sempre
come una modalità di semplice trasmissione di contenuti. Fornire i
contenuti è, e resterà sempre, compito dell’homo analogicus. Esiste
infatti, un aspetto importante nel rapporto pubblico e media: il
pubblico vuole contenuti, prodotti, non “mangia” tecnologie. Qui
troviamo forse il primo grande spartiacque lungo il viaggio
dall’analogico al digitale. Nel nuovo mondo dei bit, come ci
insegnano gli opinion leader della rete, da Negroponte a Manuel
Castells, è la “forma del produrre” che determina i codici del prodotto.
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Come poteva sfuggire a questo processo la televisione, regina
incontrastata del mondo dei mass media?
La digitalizzazione del medium televisivo e la scomposizione binaria
del segnale comportano la riconfigurazione dell’intera gamma dei
linguaggi dello specifico televisivo. A partire proprio dal processo
produttivo, dove i termini classici che per più di cinquant’anni hanno
tenuto banco sono esposti a una pervasiva azione di scomposizione.
Dopo anni di quasi immutabilità tecnologica (praticamente
dall’introduzione del colore), per non rischiare di rimanere tagliato
fuori, superato dalle nuove tecnologie a disposizione, il mezzo
televisivo si vede quindi costretto a rinnovarsi, a cercare nuove vie per
far fronte all’imponente avanzata di nuovi mezzi (come ad esempio
Internet) che potrebbero farlo passare in secondo piano. La
televisione, protagonista per quasi cinquant’anni della comunicazione
di massa, è quindi ora nell’occhio del ciclone e il passaggio alla
trasmissione digitale rappresenta una possibilità da non lasciarsi
sfuggire per rimanere al passo con l’evoluzione tecnologica.
L’universo della comunicazione, e in particolare la galassia
audiovisiva, sono sensibilmente influenzati dall’avvento delle novità
tecniche che ne stanno modificando le caratteristiche. Quella digitale
sarà dunque una “rivoluzione” anche per la TV, in quanto porterà tali
e tanti cambiamenti da mutare profondamente il modo attuale di fare e
utilizzare la televisione. Parlare di TV digitale equivale quindi a
nominare una delle novità più propagandate del nuovo scenario dei
mass media. La digitalizzazione è ormai un trend mondiale:
attualmente in Europa circa 30 milioni di abitazioni fruiscono della
televisione digitale, ma si stima che entro il 2010 oltre 110 milioni di
famiglie saranno raggiunte da questo servizio.
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Essendo oggi la televisione il principale mezzo di comunicazione di
massa e la digitalizzazione il fenomeno per eccellenza degli ultimi
decenni, mi è sembrato opportuno interrogarmi sulla convergenza di
questi due elementi e di conseguenza dei loro rispettivi settori
d’appartenenza: telecomunicazioni e informatica per il digitale e
audiovisivo per la televisione. Tra tutti gli aspetti legati alla
televisione digitale, ho deciso di concentrarmi su quello che mi
sembra sia il più interessante ed innovativo: l’interattività. La
cosiddetta “TV interattiva”, in grado di offrire una fruizione attiva dei
contenuti televisivi, fornendo all’utente strumenti per interagire con il
televisore e intervenire nella programmazione, è infatti la novità più
auspicata che dovrebbe portare l’avvento della TV digitale. La mia
indagine ha dunque lo scopo di esplorare il campo della trasmissione
digitale dei segnali televisivi e di analizzare la situazione dell’offerta
di servizi interattivi nei principali mercati europei.
In questo modo, tra l’eccessivo entusiasmo di alcuni autori e
l’esagerato scetticismo di altri, cercherò di comprendere, se, e in quale
maniera, l’interattività modificherà la tradizionale forma di consumo
della televisione e quindi quale sarà il futuro della tecnologia
televisiva.
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CAPITOLO I
DAL CONSUMO DI MASSA AL CONSUMO
INDIVIDUALE
L’oggetto è il miglior portatore del soprannaturale (…)
la materia è molto più magica della vita.
Roland Barthes
1. Le radici del consumo di massa
È ormai riconosciuto, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali, che
le modalità di consumo da parte del singolo o gruppi, portino con sé
un sistema di significati che va ben oltre la semplice acquisizione di
beni materiali ed immateriali.
1
Dai primi decenni del secolo scorso
fino ai giorni nostri, le forme di consumo (ed i suoi attori principali)
hanno subito mutamenti ed assunto valori e significati variegati, come
il tessuto sociale all’interno del quale si inscrivevano. Sono cambiate
le merci, le routine produttive, gli apparati logistici, le modalità di
fruizione: è cambiato il sistema di significati che il prodotto/segno
veicola. Parlare di consumo di massa, di consumo individuale
significa, infondo, raccontare mutamenti intercorsi nelle moderne
società occidentali, correre lungo il filo dell’industriale e del post-
industriale, del moderno e del post-moderno. Vuol dire, in definitiva,
ascrivere il consumo a categoria significativa della collettività, e in
quanto tale a sistema di coniazione tra gli attori e i gruppi di questa
1
Esposito U., Pierfelice L., www.kapusons.com/articoli/Articolo.asp.
11
collettività. Il concetto di consumo si è evoluto parallelamente alle
trasformazioni sociali ed economiche avvenute nell’ultimo secolo in
Europa e negli Stati Uniti, con le dovute differenze e gli inevitabili
ritardi generazionali di un occidente non ancora globalizzato. Il
proliferare di approcci e di contributi multidisciplinari intorno al
concetto di consumo testimonia, al tempo stesso, sia la complessità del
fenomeno sia la sua duttilità ad essere indagato da diversi punti di
vista. È tuttavia facilmente riscontrabile in molte teorizzazioni che si
sono succedute, la propensione a ripartire il campo di riflessione in
due differenti prospettive: da una parte, una concezione del consumo
come annunciatore di emancipazione democratica, nell’equazione
automatica “benessere = democrazia”; dall’altra una visione cinica e
disincantata, che concepisce il fenomeno come struttura regolata da
logiche di controllo e di riproduzione del potere. In questa sede si
tenterà di evidenziare le coordinate storiche e sociali che hanno
segnato il percorso e l’evoluzione delle dinamiche di consumo, con
particolare riferimento alla realtà italiana.
Il consumo diviene tema centrale nelle teorie sulla società a partire
dalla metà del diciannovesimo secolo. In quel periodo infatti si
compie il passaggio da una economia caratterizzata da derrate agricole
e manufatti artigianali alla produzione in serie. L’industria chiave, e
simbolo della produzione di massa, è stata l’industria degli autoveicoli
e in particolare dell’automobile. Essa provocò la ristrutturazione degli
insediamenti urbani secondo direttrici periferiche e collegò i mercati
rurali e urbani, stimolando la formazione di un settore economico
“indotto” di industrie, organizzazioni commerciali e servizi connessi.
Prendendo l’automobile come indice della “rivoluzione dei consumi”,
salta subito all’occhio la rilevante sfasatura fra Stati Uniti ed Europa:
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la piena espansione dell’industria automobilistica si ha negli Stati
Uniti tra le due guerre, in Europa soltanto a partire dagli anni
Cinquanta. Già sul finire dell’Ottocento in Europa, parallelamente alla
metamorfosi determinata dal processo di rapida industrializzazione, si
assiste all’emergere della nuova classe sociale borghese e all’avvio di
un processo di forte stratificazione della società in ceti, sulla base
della ricchezza posseduta, cui corrisponde una progressiva
differenziazione dei comportamenti sociali, tra cui l’agire di consumo.
La prima teorizzazione sulla capacità di mediazione simbolica dei
beni risale a Marx che definì la differenza tra “valore d’uso” e “valore
di scambio” di un oggetto, dove il primo è legato all’effettivo utilizzo
del bene mentre il secondo gli viene attribuito dal mercato in base ad
una sorta di percezione sociale del suo valore. Al di là degli elementi
che costituiscono le parti strutturali a sovrastutturali del concetto di
consumo, già Marx pone le basi per l’elaborazione weberiana del
concetto di stile di vita, concependo il consumo come un atto sociale.
Weber, infatti, è il primo ad ipotizzare un legame tra la strutturazione
del sistema sociale e lo stile di consumo, mediante l’introduzione del
concetto di “condotta di vita”, inteso come “qualità di onore e
distinzione a cui un individuo può aspirare attraverso un
comportamento di consumo”. La condotta di vita weberiana funziona
da indicatore distintivo dei ceti. La contrapposizione e l’assoluta
inscindibilità tra massa e individuo e quindi tra consumo
omogeneizzante e consumo come fattore distintivo individuale è già
perfettamente presente nello spirito che anima le grandi metropoli
europee di fine Ottocento; ciò che libera l’individuo, il denaro, il suo
spirito che permea tutto il reale, contemporaneamente dissolve lo
stesso individuo, lo omogeneizza. È la tragedia del moderno che altri
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non è che “una tragedia senza eroi” (Simmel 1911). Simmel ritiene
che le classi inferiori tendano ad imitare quelle superiori e quando
questo avviene, esse cambiano codice: egli individua in questo in
questo meccanismo il fattore di un dinamismo incessante. Spesso,
infatti, le classi “alte”, soprattutto con lo sviluppo dei mass media,
cercano nelle classi “basse” degli status symbol magari da
reinterpretare, e i segni distintivi di una certa classe si mescolano con
altri, fino a rendere quasi indistinguibili le une dalle altre. E pensiamo
anche alle sottoculture metropolitane contemporanee che grazie ai talk
show conquistano la ribalta innescando, grazie alla rapidità con cui
vengono messe in moto le leve del marketing strategico, un fenomeno
di consumo di massa nuovo, attenuato dai tratti forti delle origini e più
consono al consumatore medio. Questo sistema di interazione tra gli
strati della società, che vive di continue saturazioni e diffusioni delle
tendenze, presuppone, in sostanza, una sorta di continua lotta sull’asse
verticale della società (trickle effect).
2. Oltre le cose: il consumo come simbolo.
Nel nostro Paese, fino agli albori degli anni Sessanta, la concezione
del consumo è stata strettamente vincolata da una logica
anticonsumistica sviluppata dalle due culture dominanti, il
cattolicesimo e il marxismo, che promuovevano un’etica del
risparmio. Parallelamente, i beni cominciano ad entrare nella sfera del
simbolico e giocano un ruolo di socializzazione, ossia diventano un
metro di valutazione e di riconoscimento dell’appartenenza sociale.
All’interno degli schemi della modernità, vale a dire dell’etica del
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dovere borghese, della sua separatezza e del rigore morale, l’Italia, in
ritardo rispetto alle altre realtà occidentali, amplia i questi anni il suo
modello distorto:
- si sviluppano i consumi non necessari;
- si ha un sovradimensionamento dei consumi privati rispetto a
quelli pubblici;
- si registra uno squilibrio tra il nord e il sud del Paese.
L’imitazione e la rincorsa ai beni di prestigio si determina
primariamente a livello individuale, ossia nel processo di costruzione
della personalità del soggetto, e soprattutto, sull’asse orizzontale,
ovvero nel contatto quotidiano con gli altri soggetti all’interno della
società. Ed inoltre il processo si determina anche in relazione ai
modelli proposti dai mezzi di comunicazione di massa. I valori di
riferimento non sarebbero più la rispettabilità e l’onorabilità, ma il
prestigio e il successo individuali.
A partire dagli anni Sessanta si sviluppa una nuova prospettiva
“culturale” della società dei consumi che inquadra il fenomeno per la
valenza sociale e simbolica in sé dell’agire di consumo, e non solo in
base al sistema delle differenze della collettività (Alberoni, 1968). I
beni assumono un valore simbolico che riflette la struttura delle
relazioni sociali di una determinata cultura, per cui l’atto di acquisto
rappresenta “l’accettazione o il rifiuto dei modelli di riferimento, di
comportamento, di stili di vita che si collegano all’adesione a
particolari valori culturali, oltre che a specifici gruppi sociali”
(Secondulfo, 1994).
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Con il consumo quindi, non si realizza solo uno scambio di beni ma
vere e proprie informazioni più significative ed espressive dei
linguaggi verbali stessi; ciò non potrà mai essere spiegato basandosi
sulle sole proprietà materiali del bene, ma interrogandosi soprattutto
sulle valenze simboliche apportate dal sistema comunicativo su quel
bene specifico. Lo stile del consumo finisce per sovrapporsi al sistema
di vita perchè ne rappresenta l’epifenomeno più vistoso e concreto,
destinato a comunicare un profilo personale, sociale e valoriale, e
funzionale all’identificazione, sia di chi lo manifesta e sia di chi lo
osserva.
La prima ondata consumistica che investe l’Italia negli anni Sessanta è
rivolta soprattutto all’acquisto di beni durevoli che incrementino la
qualità della vita delle famiglie. L’impennata dei consumi è frutto di
una situazione economica contingente, che aveva visto il nostro Paese
raddoppiare la sua produzione industriale tra il 1959 e il 1963 e, di
riflesso, aumentare il reddito discrezionale a disposizione delle
famiglie. Per la prima volta si diffonde la “cultura del consumo”, la
merce comincia a ricoprire un ruolo socializzante. In quegli anni
l’agire di consumo è in gran parte correlato alla stratificazione sociale,
per cui si manifesta attraverso modelli di comportamento e di possesso
dei beni. Nello stesso periodo, la TV amalgama la nostra società ed è
in grado di colmare il vuoto culturale che impedisce l’affermazione
definitiva di maturi comportamenti di consumo. Nel 1957, Carosello a
solo tre anni dall’ingresso della “scatola magica” nel Paese, già
rappresenta un momento di aggregazione e di fruizione di massa del
mezzo: i prodotti, attraverso la pubblicità romanzata, entrano nelle
case. La TV diviene il volano del nuovo consumo.