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dell'handicap per definirlo e per descrivere la condizione dei
soggetti affetti da disabilità. Esso nasce dalla pratica sociale,
dalla vita concreta delle associazioni e dei singoli, per
contaminazione con le altre sfere della marginalità e delle
minoranze, che, soprattutto negli Stati Uniti, hanno posto
all'attenzione di tutti la questione dell'uso di un linguaggio
politically correct. Queste ultime hanno, infatti, da tempo
suggerito ed inseguito un cambiamento ed una normatività
del linguaggio utilizzato per parlare di alcuni specifici
soggetti e delle loro condizioni di vita, nella convinzione che
alcuni termini ed espressioni siano preferibili ad altri, definiti
scorretti.
Agendo sul lessico, intendono contribuire a creare una
nuova, positiva immagine intorno ad un individuo o
categoria, scardinando, per conseguenza, pregiudizi
trasportati o anche incistati nei vari linguaggi pubblici:
giornalistico, televisivo, quotidiano.
Usando il termine “abilità” non viene indicato un individuo
in grado di compiere azioni da solo e per la sua stessa
persona, ma un soggetto che abbia assunto il controllo della
propria esistenza e che possa scegliere il modo in cui
regolarla. Da qui deriva la distinzione tra abile e non abile,
sia per anzianità (assenza di abilità per senescenza) o
disabilità (assenza di abilità congenita o dovuta a ragioni
traumatiche o patologiche).
Secondo l'OMS, la disabilità è "qualsiasi limitazione o
perdita (conseguente a menomazione) della capacità di
6
compiere un'attività nel modo o nell'ampiezza considerati
normali per un essere umano.
La disabilità è caratterizzata da scostamenti, per eccesso o
per difetto, nella realizzazione dei compiti e nell’espressione
dei comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente
atteso. Le disabilità possono avere carattere transitorio o
permanente, essere reversibili o irreversibili, progressive o
regressive. Possono insorgere come conseguenza diretta di
una menomazione o come reazione del soggetto,
specialmente da un punto di vista psicologico, ad una
menomazione fisica, sensoriale o di altra natura".
L'handicap, invece, è "la conseguenza del deficit, non il
deficit stesso”
3
. E' la condizione di svantaggio che deriva da
una menomazione o una disabilità che "in un soggetto limita
o impedisce l'adempimento del ruolo normale per tale
soggetto in relazione all'età, al sesso e ai fattori
socioculturali". E' proprio in questo senso che secondo
l'OMS l'handicap è "la socializzazione di una menomazione o
di una disabilità, e come tale riflette le conseguenze
culturali, sociali, economiche e ambientali che per
l'individuo derivano da menomazione o disabilità."
Uno svantaggio insorge qualora la disabilità interferisca nelle
aspettative della persona, condizionandola in qualche
aspetto della vita quotidiana. Nella prevenzione degli
svantaggi concorrono due fattori:
3
OMS, 1980
7
ξ Miglioramento della fruibilità dell’ambiente
ξ Adozione di ausili per consentire di eseguire azioni
con minor dispendio energetico, in maniera più
sicura e psicologicamente più accettabile.
Entrambi i fattori offrono un contributo determinante al
recupero dell’autonomia, intesa come capacità di svolgere
attività corrispondenti alle proprie esigenze. Gli ausili di
comunicazione, che permettono di esprimere ad altre
persone il proprio pensiero in modo che venga percepito
esattamente e con naturalezza, e il controllo ambientale
possono offrire un contributo fondamentale verso una
migliore interazione interpersonale e per il monitoraggio del
proprio ambiente di vita quotidiana.
L’universo della disabilità è sfaccettato e composito,
ricomprende al suo interno una grande varietà di persone, di
condizioni sociali, di patologie e di problemi, a cominciare
innanzitutto dalle tipologie di menomazione, che siano
prettamente fisiche o anche mentali. Anche per questo
motivo è molto difficile individuare il numero dei disabili in
Italia: a seconda di quale sia l’interpretazione della
definizione fornita dalla legge quadro i numeri sembrano
variare consistentemente: affidandosi ai dati Istat del 2001 il
numero ammonterebbe a 2 milioni 615 mila, pari circa al 5%
della popolazione superiore ai 6 anni, mentre il totale delle
persone non autosufficienti sfiorerebbe i 4 milioni.
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II. Attraverso la storia, il disabile nel tessuto sociale
La questione della presenza dell'handicap in una società va
guardata prima di tutto come un incontro fra differenze.
A tale proposito vale la pena ricordare l'interessante ipotesi
di Leo Festinger sulla "dissonanza cognitiva"
4
. Egli sostiene
che un incontro con la diversità genera appunto ciò che lui
definisce dissonanza rispetto al proprio mondo cognitivo: il
disagio così emerso può trovare soluzioni in varie direzioni.
Può essere negata ogni importanza alla diversità sia
banalizzandola, sia de-valorizzandola, oppure la diversità può
essere studiata per comprenderla in quanto tale e quindi per
migliorare ed aumentare le proprie conoscenze, o infine può
essere studiata per comunicare.
Le società di cultura nord-occidentale, fin dal momento in
cui definiscono se stesse come società composte da membri
differenti, hanno letto la presenza di alcuni "diversi" come
una perturbazione nociva al buon funzionamento del proprio
sistema ed hanno provato tentativi diversi di soluzione al
"problema": identificato di volta in volta l'accomodamento
più adeguato ad ottenere un equilibrio del sistema-società,
sono stati assunti conseguenti provvedimenti. Si è passati,
così, dal rifiuto palese del "diverso", il quale viene dunque
socialmente eliminato o ghettizzato, alla sua accettazione
protettiva, costituendolo come oggetto passivo di cure ed
4
Festinger (1973), Teoria della dissonanza cognitiva, Franco
Angeli, Milano
9
assistenza specializzate, al riconoscimento della differenza,
considerata per le proprie peculiarità e potenzialità, e perciò
alla ricerca di un'integrazione consapevole delle necessità
speciali di ciascun individuo.
Agli inizi dell'era moderna, i disabili, definiti come "storpi",
"idioti", non erano, per così dire, visibili, in quanto integrati
nella società, immersi nel frastagliato mondo dei marginali,
tra i disoccupati, gli indigenti, i barboni, i mendicanti: non
erano previste nei loro confronti cure speciali, né tantomeno
veniva erogato loro alcun servizio. Verso queste persone, in
epoca medioevale, erano diffusi sentimenti fobici: lo storpio,
specialmente, era demonizzato come maledetto, anche se
talvolta gli venivano attribuiti poteri di veggenza o capacità
di contatto con il mondo ultraterreno.
La visibilità del disabile, la sua esposizione ad una luce
nuova, che ne mette in evidenza le caratteristiche e lo fa
uscire da un magma confuso ed anche dall'anonimato, fa le
sue prime mosse con il pensiero illuminista, che guarda alla
società non più come ad un popolo indistinto, ma come
formata da singoli individui.
L'handicap comincia così a destare interesse, verso la fine
del Settecento, proprio attraverso la sua forma più esotica, lo
studio di singolarissimi soggetti: sono, infatti, i ritrovamenti
dei bambini selvaggi a sollecitare una precisa curiosità.
Ovviamente, le implicazioni operative di questi dibattiti
erano forti: per tutto il periodo illuminista prevale verso
10
l'insolito, ad esclusione forse di una certa impostazione
teorica di Jean-Jacques Rousseau che oggi definiremmo
attenta ed integrante verso il diverso, una curiosità quasi
voyeuristica.
Nell'Ottocento emergono, soprattutto in Francia, alcune
figure molto importanti di studiosi che dedicano la loro
opera all'educazione di singoli bambini speciali e danno
un'impronta scientifica al filone: essi producono studi,
progetti di interventi educativi e sollecitano riflessioni
teoriche sui soggetti stessi, ma anche sul processo
pedagogico. Ancora però per molti anni la riflessione e
l'attenzione sono concentrate sul singolo individuo diverso,
oppure su un'intera categoria, solitamente quella dei ciechi,
dei sordomuti, dell'handicap intellettivo. Anche se la spinta
filantropica di quegli anni permette un primo spostamento di
attenzione dal singolo individuo disabile a gruppi più estesi,
solo con l'avvento del positivismo - e quindi con una nuova
tensione verso il "dato" scientifico - si verificherà un
approfondimento dei temi ed un ampliamento degli studi ad
altre categorie: emergono a questo punto in Italia alcune
importanti figure di medici-educatori, quali Sante de
Sanctis, Maria Montessori, Cesare Lombroso. Questo
periodo nel suo complesso è caratterizzato da un'idea del
diverso che, animata da scopi prevalentemente caritativi ma
anche di sperimentazione pedagogica, porta ad adottare
soluzioni speciali per la sua cura ed assistenza, come la
creazione di scuole speciali e separate.
11
È proprio questo passaggio critico, nella storia delle "culture
dell'handicap", sostiene Victor Finkelstein
5
, che ha costituito
un primo grande rovesciamento negli atteggiamenti socio-
culturali. Ora il disabile diventa, per opera dell'intervento
sociale, un handicappato, un individuo passivo, che ha
bisogno di altri che facciano le cose per lui, mentre,
paradossalmente, nella fase precedente questi soggetti si
potevano considerare socialmente attivi, poiché sostenevano
il loro diritto di vivere, di essere nella comunità, responsabili
delle proprie azioni. D'altro canto, però, quest’idea, che ha
anche prodoto il sorgere di un gran numero di
professionalità specializzate intorno alla cura del disabile, ha
ottenuto il risultato di migliorare le condizioni di vita di
questi soggetti, talora permettendone addirittura la
sopravvivenza.
Inoltre, questa fase nell'evoluzione dei rapporti sociali verso
l'handicap ha favorito la nascita di quello che Finkelstein
definisce il "paradosso della disabilità": l'indiscussa necessità
di aiuto e l'attrezzata rete sociale fornitrice di aiuti, infatti,
devono ormai protendersi verso il raggiungimento di
autonomia del soggetto in cura, cioè verso la negazione della
dipendenza.
Così, nel tempo, con l'aumentare della consapevolezza
sociale intorno al numero di soggetti disabili, alle loro
speciali necessità, si è anche ottenuto un cambiamento
5
(1979), “Attitudes and disabled people: issues for discussion” in
“International Exchange of experts and information in rehabilitation”,
IEEIR, New York
12
proprio nell'idea di assistenza, uno spostamento verso una
necessità di integrazione sociale, dove la questione
dell'ingresso nel mercato del lavoro diverrà, infine, cruciale.
È, tuttavia, soltanto dopo la prima metà del Novecento che
si inizia a parlare dell'integrazione del disabile e lo si fa di
nuovo partendo dal mondo educativo, dall'inserimento del
disabile nella scuola comune.
Da questo excursus storico si possono delineare, quindi, le
varie cornici culturali createsi intorno alla disabilità:
Il rifiuto della differenza: la comunità individua un elemento
come "diverso" rispetto ad una norma dei suoi membri, lo
definisce come tale e innesca un conseguente processo di
esclusione e normalizzazione che ha appunto la funzione di
isolare la diversità, reificare una condizione di norma sociale
ritenuta necessaria, ottimale. Questa operazione fa sì che il
diverso venga ignorato, dunque anche non conosciuto né
avvicinato, oppure isolato, posto al di fuori della comunità
stessa.
Le concretizzazioni più palesi di questa concezione sono
state, nel tempo, l'eliminazione fisica o l'aperta
ghettizzazione, quelle cioè che dichiarano disprezzo e negano
la possibilità alla persona disabile di esistere all'interno di
una società di "normali".
Accanto ad esse, però, coesistono anche posizioni
sicuramente meno radicali, ma che pure trovano la loro
matrice di pensiero in questa concezione.
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Si tratta di un approccio verso il disabile che, pur
accettandone la relazione, lo pone in uno stato di inferiorità,
riconoscendolo come soggetto tragico, bisognoso di cura ed
assistenza e negandogli, quindi, la possibilità di partecipare
attivamente alla vita della propria società.
Una posizione certo più avanzata è quella in cui la differenza
viene accettata, però in una forma che non include ancora il
riconoscimento ed il rispetto, ma passa invece attraverso la
stessa negazione della differenza.
Il disabile diventa, in questa prospettiva, uguale a tutti, in un
progetto di società che tende all'omologazione, ad azzerare le
differenze, e finisce per non riconoscerlo come persona
distinta dagli altri. Bisogna ammettere che storicamente
questa costruzione di idee ha saputo darsi adeguate forme di
protesta sociale, ed ha senz'altro permesso di perseguire
alcuni importanti traguardi di eguaglianza (e non soltanto a
favore della disabilità), rappresentando quindi un
significativo avanzamento nella riflessione culturale.
Non si può però negare come, alla luce degli sviluppi
successivi- che pure si sono avvalsi dei suoi frutti - essa
appaia oggi semplicistica sul piano della riflessione teorica e
sbrigativa nelle proposte operative. Al di là dell'onda
emotiva che può produrre il riconoscimento collettivo di
un'eguaglianza nella comune matrice umana, infatti, nella
negazione delle differenze non può farsi spazio un realistico
riconoscimento di indiscutibili, specifici, svantaggi di alcuni
individui, dunque di alcune loro particolarissime necessità,
14
infine dell'urgenza di studiare ed approntare soluzioni
corrette per l'integrazione di ciascuno.
Vi è poi un'altra idea di disabilità, che non è ancora
riconoscimento della differenza, la cui genesi curiosamente
potrebbe essere rintracciata forse proprio nell'attenzione
riservata ai sauvages degli illuministi. È l'atteggiamento che
tende a guardare al disabile come ad un diverso rovesciato,
un eroe, una persona con caratteristiche eccezionali: rara
bontà, o speciale abilità, o inusitata capacità affettiva,
talvolta straordinaria perfidia...è l'idea che potrebbe essere
definita della diversità eccezionale. È facile rintracciare
quest'idea negli interventi dei mass-media, e sarebbe
possibile collegarne la diffusione proprio nella presenza
dell'handicap in certa tv, o su alcuni giornali, dove
evidentemente si accede soltanto se si ha da mostrare, e da
raccontare, vicende degne del mezzo.