5
assistere a un avvenimento decisivo dell’evoluzione scientifica. Il fatto è che, per la
prima volta nella storia del pensiero etnologico, era stato compiuto uno sforzo per
trascendere l’osservazione empirica e cogliere realtà più profonde. Per la prima volta, il
fattore sociale cessa di dipendere dal dominio della qualità pura: aneddoto, curiosità,
materia di descrizione moraleggiante o di comparazione erudita, e diventa un sistema,
tra le cui parti è possibile scoprire connessioni, equivalenze e solidarietà”
3
.
Il dono, dunque, proprio perché offre, secondo Mauss, uno sguardo generale e organico
attraverso cui considerare le società arcaiche, è certamente un fenomeno complesso.
Leggendo questo saggio, del resto, si ha quasi l’impressione che parli di altro: di
economia, di religione o di diritto, ma non di dono. Nell’immaginario comune, infatti,
qualora non sia rinnegato come semplice ipocrisia, il dono evoca piuttosto la sfera
privata, dell’intimità, ben lontana dalle questioni economiche o giuridiche: una sorta di
nicchia protetta dal contagio dell’interesse in cui dovrebbero dominare solamente i
sentimenti più sinceri e la generosità più autentica.
Il primo passo che sarà necessario compiere per poter accedere al valore
“rivoluzionario” di questo saggio, consisterà, dunque, nello scrollarci di dosso ogni
forma di pregiudizio che circonda il dono. Innanzitutto, dunque, si dovranno porre in
discussone le due principali e più “comuni” interpretazioni del dono: quella economica,
che riduce lo scambio-dono al volto ipocrita dell’interesse e quella “etico-teologica”,
che, al contrario, ma in modo complementare, esige che il dono sia totalmente puro e
gratuito, non contaminato da comportamenti interessati.
Molto probabilmente, tuttavia, il senso delle prestazioni arcaiche non potrà emergere
con chiarezza, in semplice contrapposizione alla concezione più diffusa del dono, e
questo proprio a causa della sua complessità, che rende difficile anche solo il parlarne in
termini di paradigma: il potlatch e il kula hanno molti volti proprio perché sono “fatti
sociali totali” ed ogni spiegazione, in quanto analitica, rischia di essere riduttiva ed
incompleta.
Il Saggio sul dono è, infatti, stato oggetto di studio, ammirazione ed ispirazione per
molti ricercatori provenienti dalle più diverse discipline: il problema del dono ha
interrogato e continua a interrogare con uguale forza sia filosofi, sia sociologi,
antropologi ed etnologi, sia economisti.
Inevitabilmente, di conseguenza, le interpretazioni e i punti di vista mutano, di volta in
volta, a seconda dell’aspetto del dono che si predilige: per questo motivo sarà necessario
3
C.LEVI-STRAUSS, Introduzione all’opera de Marcel Mauss in M. MAUSS, Teoria generale della
magia, tr.it. di F.Zannino, Torino 1965, p. XXXVII.
6
prendere in considerazione opere spesso molto diverse fra loro, se non addirittura in
contraddizione, per poter ricostruire, per quanto possibile, le differenti sfumature che
caratterizzano il dono arcaico.
Più che dei critici Mauss ha avuto, dunque, degli eredi, del resto molto spesso più famosi
di lui, che ne hanno, a volte, sconvolto il pensiero: Lévi-Strauss, che fu il primo
“discepolo” di Mauss e che come si è visto ne colse il carattere innovativo, fu anche il
suo primo critico, rischiando, inoltre, con la sua teoria dello scambio, di aprire la strada
all’interpretazione economica del dono; Bataille, a sua volta, trovò conferma nel Saggio
sul dono ad una parte essenziale del suo pensiero, tanto che si impegnò nell’impresa
titanica di interpretare, secondo la logica del dispendio e dell’eccesso propria del
potlatch, tutta la storia dell’umanità fino ad arrivare a criticare l’economia capitalistica:
il rischio insito in questa interpretazione è quello di dimenticare l’aspetto obbligatorio e
interessato del dono, tanto che la sua posizione arriva ad esiti analoghi a quelli a cui
giunge Derrida, sebbene Bataille ammiri Mauss e Derrida, al contrario, lo critichi
aspramente.
Per Sahlins, inoltre, il dono è, in qualche modo, la ragione del contratto che si oppone
alla follia della guerra; tuttavia, questa interpretazione sembra tralasciare il fatto che il
dono può essere avvelenato e, dunque, racchiudere dentro di sé il caos e la violenza.
La lista degli autori, che hanno fatto riferimento a Mauss e che sarà necessario
interrogare, potrebbe continuare ulteriormente, includendo, altresì, Huizinga, Polanyi,
Baudrillard, Godelier, Dumont, e molti altri, ma coloro a cui si farà maggiore
riferimento nel corso di questo lavoro saranno quegli studiosi che fanno capo alla
“Revue du M.A.U.S.S.”. Questo movimento, sorto negli anni ottanta, si nutre delle
ricerche di specialisti provenienti dalle più diverse discipline, e offre, in tal modo, un
interessante terreno di discussione su cui si confrontano direttamente linee di indagine,
che, pur traendo uguale ispirazione dal Saggio sul dono, hanno poi seguito percorsi e
mete diversi.
Dunque, dopo che per anni l’Essai sur le don è stato sezionato, fino a perdere il senso
originario del “fatto sociale totale” indagato da Mauss, sembra quanto meno degno di
attenzione il fatto che sia nato un dibattito interdisciplinare che tenta di rimetter insieme
i cocci di queste visioni parziali: come ricorda Dumont, infatti, Mauss soleva dire che
“dopo aver più o meno arbitrariamente fatto a pezzi, si deve ricucire”
4
.
4
L.DUMONT, Marcel Mauss: una scienza in divenire in L.DUMONT, Saggi sull’individualismo, tr.it. di
C.Sborgi, Milano 1993, p. 211.
7
Questo movimento sarà, inoltre, una preziosa guida quando, alla luce dello scambio
arcaico, si tenterà di esplorare l’immenso territorio del dono moderno nella speranza non
tanto di scoprire orizzonti nuovi dai quali guardare noi stessi, quanto di comprendere se,
ancora oggi, “il dono, nell’accezione più ampia del termine, formi un elemento
permanente e preponderante dell’esistenza umana”
5
.
5
C.CHAMPETIER, Homo consumans cit., p. 13.
8
I. LA NASCITA DELL’ HOMO OECONOMICUS
I.1 La gerarchia dei fini
Marcel Mauss in conclusione del suo saggio più famoso
6
, dedicato allo studio delle forme
di scambio nelle società arcaiche, evidenzia come solamente nelle nostre società
occidentali l’uomo sia stato trasformato in un animale economico. Egli precisa, tuttavia, il
fatto che questa metamorfosi non è, fortunatamente, ancora del tutto avvenuta e questo
perché “l’ homo oeconomicus non si trova dietro di noi, ma davanti a noi; come l’uomo
della morale e del dovere, come l’uomo della scienza e della ragione”
7
: l’uomo sarebbe
stato, dunque, per lunghissimo tempo diverso e solo da poco sarebbe diventato “una
macchina, anzi una macchina calcolatrice”
8
.
Questo breve, ma denso e problematico saggio può, quindi, essere letto come una critica al
mondo moderno votato al dio dell’interesse, ma anche come espressione della possibilità
di recuperare quella complessità dell’esistenza e dell’azione umana che l’utilitarismo
tende a negare.
Mauss, tuttavia, è stato in qualche modo dimenticato, finendo col diventare un “illustre
misconosciuto”
9
, oppure tradito, come fece il suo stesso discepolo Lévi-Strauss, ma i temi
da lui trattati sono più che mai attuali e degni di riflessione.
Ovunque, infatti, l’economicismo, sinonimo di utilitarismo, sembra sempre più regnare
sovrano, tanto che in un dibattito sul tema del dono organizzato dal Centre Thomas-More,
all’Arbresle, nell’aprile 1980, prevalse l’ostinazione con cui tutti i partecipanti, fra cui
economisti, filosofi e psicoanalisti, cercavano di negare qualsiasi realtà all’oggetto
dell’incontro affermando l’impossibilità del dono e della gratuità: tutto ciò nella più totale
ignoranza proprio del Saggio sul dono.
10
6
Cfr. M.MAUSS, Essai sur le don in M.MAUSS, Sociologie et anthropologie, Paris 1950; tr.it. Saggio sul
dono in M.MAUSS, Teoria generale della Magia, tr. it. a cura di F.ZANNINO, Torino 1965.
7
Ivi, p. 284.
8
Ibidem.
9
C.CHAMPETIER, Homo consumans, morte e rinascita del dono, tr. it. di P.Montanari e L.Pesenti,
Bologna 1999, p.19.
10
Cfr. A.CAILLE’, Critica della Ragione utilitaria, tr.it. a cura di A.SALSANO, Torino 1991, pp.3-4.
Quest’opera rappresenta il manifesto del Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales
(M.A.U.S.S.) fondato nel 1980 e che riunisce i contributi di molti studiosi provenienti dalle più diverse
discipline nella “Revue du M.A.U.S.S.”.
Il gioco di parole è un evidente richiamo a M.Mauss, l’opera del quale è stata per l’appunto presa ad
esempio di una antropologia che non tralascia le implicazioni etiche delle sue posizioni. La critica
9
La critica, dunque, all’homo oeconomicus è al centro del dibattito antiutilitarista che, più o
meno fedelmente, si rifà all’opera di Mauss.
Sebbene parlare di homo oeconomicus per cercare di comprendere l’uomo moderno possa
non sembrare altro che uno dei tanti sterili e riduttivi tentativi di classificare il genere
homo e, dunque, null’altro che l’ennesima forma di astrazione, tuttavia in tale definizione
sono contenuti potenzialmente tutti quegli effetti devastanti e concreti che possiamo
osservare dovunque: dai disastri ambientali, alla soppressione e corruzione delle culture
tradizionali dei paesi del cosiddetto terzo mondo in un processo di mimetismo che si
riduce alla perdita della diversità, e tutto ciò in nome dello sviluppo economico e del
progresso illimitato che nel loro paradosso finiscono col promettere la felicità di Sisifo.
“Ogni definizione dell’uomo”, infatti, “induce sempre il fine: de-finire, cioè dare una
direzione, produrre un senso”
11
, un τέλος all’azione umana.
La modernità, di conseguenza, pensando se stessa attraverso la categoria interpretativa
dell’ homo oeconomicus non può che vedere riflessa in tale specchio l’immagine dell’
individuo come di un “essere-di-bisogno”, il quale calcola per soddisfare il proprio
interesse. L’umanità, seguendo questa logica, non avrebbe altro scopo che la
massimizzazione dell’utilità ed il mondo, non più concepito come cosmo, non sarebbe
altro che un mezzo a sua disposizione, una riserva di cose utili. Tuttavia, “quel che si tratta
di spiegare non è la comparsa del discorso utilitarista che si trova dappertutto, ma la
trasformazione dell’utilitarismo in sistema di spiegazione e di legittimazione del mondo
massicciamente dominante”
12
.
Se, dunque, l’interesse e la ricerca dell’utile sono da sempre stati posti come uno dei
moventi dell’azione umana, solo nell’età moderna si assiste alla riduzione dell’agire a
quest’unico movente; solamente l’età moderna ha elevato a norma etica cui consacrare la
vita proprio ciò che il pensiero tradizionale ha sempre disprezzato.
La filosofia pratica aristotelica, ovvero la scienza che ha per fine l’azione e, quindi, il
comportamento dell’uomo nella realtà, è un vero e proprio modello di pensiero
all’utilitarismo, infatti, perno di questo movimento, è espressione di una problematica non solo
esclusivamente scientifica ed epistemologica, ma anche morale, politica ed esistenziale e questo perché
l’utilitarismo non rappresenta una componente fra le altre dell’immaginario dominante nelle società
moderne, ma è diventato quello stesso immaginario. Ovunque si può osservare il rifiuto di tutto ciò che non
può essere tradotto in termini di utilità ed efficacia strumentale: tutto ciò che non si può pensare attraverso
queste categorie viene ridotto all’ambito del lusso, del superfluo o dell’inaccessibile, perché non di questo
mondo. Fra gli altri, membri attivi di questo movimento sono G.Berthoud, J.Godbout, G.Nicolas,
S.Latouche e, in Italia, A.Salsano.
11
C.CHAMPETIER, Homo consumans, morte e rinascita del dono cit., p.11. Cfr. ibidem dove l’autore
sostiene che “l’uomo vive prima di tutto nella concezione che si fa di se stesso e che riflette nelle sue grandi
narrazioni. Da questa si deducono i suoi rapporti con i propri simili e con il mondo che lo circonda”
12
A.CAILLE’, Critica della Ragione utilitaria cit., p. 55-56
10
teleologico: se l’uomo, infatti, non diversamente da un arciere, è maggiormente in grado
di raggiungere qualcosa avendo un bersaglio, la conoscenza del bene, in quanto “ciò verso
cui ogni cosa tende”
13
, è di estrema importanza per la vita stessa. Tuttavia il fine,
identificato per l’appunto col bene, non deve essere considerato in modo univoco e questo
perché “tra i fini c’è un’evidente differenza: alcuni, infatti, sono attività, altri sono opere
che da esse derivano”. E “poiché molte sono le azioni, le arti e le scienze, molti sono
anche i fini”
14
.
Questa molteplicità
15
di fini non è, del resto, informe, ma inserita in una struttura
gerarchica. Vi sono, infatti, beni che noi perseguiamo in vista di altro e che, quindi, sono
subordinati ad altri fini, in modo particolare a quelli delle attività architettoniche.
Evidentemente non si può procedere all’infinito in tale classificazione, ma è necessario
che questa gerarchia abbia un vertice, a meno che non si voglia ridurre l’agire umano a
una tensione priva di scopo e contenuto e considerare il nostro desiderio vuoto e folle: “se
vi è un fine delle azioni da noi compiute che vogliamo per se stesso, mentre vogliamo tutti
gli altri in funzione di quello…è evidente che questo fine deve essere il bene, anzi il bene
supremo”
16
.
La scienza che ha per oggetto questo fine ultimo dell’agire è la politica, cioè quella
scienza che è “architettonica in massimo grado”. Infatti, “poiché è essa che si serve di tutte
le altre scienze e che stabilisce, inoltre, per legge che cosa si deve fare, e da quali azioni ci
si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per
l’uomo”
17
.
A questo punto, prima di addentrarci nella definizione di questo bene propriamente
umano, occorre evidenziare una precisazione fatta da Aristotele stesso e che è
13
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, tr.it. di C.Mazzarelli, Milano 1993, I 1094 a 3. Per ulteriori definizioni
del bene come fine si vedano: ivi, 1097 a 18-24, dove, a proposito delle diverse arti, Aristotele si chiede:
“che cos’è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista di cui si fa tutto il resto? E ciò in medicina è
la salute, in strategia la vittoria, in architettura la casa, una cosa in un’arte, un’altra in un’altra arte, ma in
ogni azione e in ogni scelta è il fine: è in vista di questo che tutti fanno il resto. Cosicché, se c’è una cosa che
è il fine di tutte le azioni che si compiono, questa sarà il bene realizzabile praticamente”; si confronti, inoltre,
ARISTOTELE, De Anima, tr.it. di G.Movia, Milano 1996, Y 10, 433 a 27-30, dove, a proposito delle cause
del movimento, Aristotele sostiene che “ è sempre l’oggetto della tendenza che muove, ma questo o è il bene
o è ciò che appare come bene; non però ogni bene, ma il bene che è oggetto dell’azione”; inoltre si veda
ARISTOTELE, Metafisica, A 2, 982 b 6 sg., dove si afferma che “il fine in ogni cosa è il bene e, in generale,
nella natura tutta, il fine è il sommo bene”; infine, cfr. ARISTOTELE, Politica, tr. it. di C.A.Viano, Bari
1993, p.29, dove l’autore sostiene che “tutti compiono ogni loro azione per raggiungere ciò che ad essi
sembra essere un bene” e che “la natura di una cosa è il suo fine”.
14
ARISTOTELE, Etica Nicomachea cit., I 1094 a 4 sg.
15
Cfr. ivi, I 1096 a 20- 1097 a 15, dove Aristotele sostiene che “il bene ha tanti significati quanti ne ha
l’essere” e che, quindi, il termine bene può essere usato nel senso di ciascuna delle categorie. Tuttavia il bene
come sostanza, il Bene in sé platonico, non può essere oggetto di una trattazione etico-politica perché non è
un bene perseguibile mediante l’azione.
16
ARISTOTELE, Etica Nicomachea cit., I 1094 a 18-23.
17
Ivi, I 1094 b 4-7.
11
fondamentale per comprendere la profonda differenza che ci separa dalla filosofia greca
classica e, come si vedrà in seguito, da tutto il pensiero cosiddetto tradizionale: “se anche
il bene è il medesimo per il singolo e per la città, è manifestatamene qualcosa di più
grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si può, sì,
contentare anche del bene di un solo individuo, ma è più bello e più divino il bene di un
popolo, cioè di intere città”
18
.
Ma, più precisamente, in cosa consiste questo bene, questo fine supremo a cui ogni uomo
tende? La risposta che ci da Aristotele è la più ovvia, proprio perché comune tanto alla
moltitudine che alle persone colte: questo bene non è nient’altro che la felicità. Tuttavia,
l’omogeneità è solo apparente e si limita all’uso del termine ευ̉δαιµονία : ben più
profondi si rivelano, invece, i contrasti qualora ci si voglia addentrare nel tentativo di “de-
finire” in che cosa effettivamente consista la felicità stessa. Ad essere in gioco è il
problema dell’essenza umana e così se l’homo oeconomicus può essere inteso, in qualche
modo, come la risposta data dall’uomo moderno al problema del fine supremo dell’agire,
l’analisi condotta da Aristotele intorno alle opinioni più diffuse sul tipo di vita migliore
può aiutarci, nel mostrarne le contraddizioni, a comprendere l’errore di prospettiva in cui è
caduta la modernità e che è la causa del suo “disagio”.
Innanzitutto bisogna cominciare da ciò che è noto e, quindi, dall’opinione del volgo il
quale identifica la felicità con il piacere e ama “la vita di godimento”; in secondo luogo, si
deve considerare il pensiero delle “persone distinte e predisposte all’azione” le quali
pongono il bene nell’onore; infine, vi è il tipo di vita contemplativo.
La critica rivolta alla concezione della felicità propria degli uomini della massa è radicale:
infatti, costoro “si rivelano veri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie”
19
.
Bisogna precisare il fatto che Aristotele critica la ricerca del piacere come fine e non il
piacere stesso, in quanto esso “perfeziona l’attività…come un completamento che vi si
aggiunge”
20
.
18
Ivi, I 1094 b 7-10; cfr. ARISTOTELE, Politica cit., p.31, dove Aristotele sostiene che “nell’ordine naturale
la città precede la famiglia e ciascuno di noi. Infatti il tutto precede necessariamente la parte…E’ dunque
chiaro che la città è per natura e che è anteriore all’individuo, perché se l’individuo, preso da sé, non è
autosufficiente, esso sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti”.
19
Ivi, I 1095b 15sg.
20
Ivi, X 1174b 24sg. Aristotele distingue vari tipi di piacere a seconda dell’attività a cui si accompagnano:
coloro i quali non sono in grado di gustare un piacere puro, proprio dell’attività contemplativa, si rifugiano
nei piaceri del corpo non rendendosi conto che in tal modo tradiscono quell’essenza che li caratterizza in
quanto uomini. A questo proposito si confronti ivi, X 1176 b 28-30, dove Aristotele precisa che “la felicità,
dunque, non sta nel divertimento: e, in effetti, sarebbe strano che il fine dell’uomo fosse un divertimento, e
che ci si affaticasse e si soffrisse per tutta la vita al solo scopo di divertirsi…Darsi da fare ed affaticarsi per il
divertimento è manifestamente stupido e troppo infantile”.
12
A proposito della vita dedicata alla ricerca dell’onore, assimilabile alla vita politica,
l’obiezione che Aristotele le rivolge è più sottile: l’incompletezza di questo tipo di
esistenza sta nel fatto che l’onore dipende dagli altri, mentre la felicità deve bastare a se
stessa ed essere in sé compiuta. L’onore, infatti, sta “più in chi onora che in chi è onorato,
mentre il bene è qualcosa di intimamente proprio ed inalienabile”
21
. Molto spesso, poi,
uno dei motivi che spingono gli uomini a perseguire l’onore è quello di essere ammirati da
uomini di senno e virtuosi, così da poter credere di essere loro stessi buoni. In tal senso è,
dunque, la virtù ad essere superiore, ma nemmeno quest’ultima può essere identificata con
la felicità, perché “anch’essa è troppo imperfetta: si ammette, infatti, che sia possibile che
chi possiede la virtù si trovi in stato di sonno o di inattività per tutta la vita, e che per
giunta patisca i più grandi mali e le più grandi disgrazie: ma nessuno chiamerebbe felice
uno che vivesse in questo modo, se non per difendere ad ogni costo la propria teoria”
22
.
Nessuna critica viene, in questa sede, rivolta alla vita contemplativa, detta anche vita
filosofica, ma nel corso della trattazione Aristotele sottolinea il fatto che, sebbene
solamente da essa derivi la felicità perfetta, tuttavia questo tipo di esistenza non sia
perseguibile dall’uomo in quanto tale con continuità: “una vita di questo tipo sarà troppo
elevata per l’uomo: infatti, non vivrà così in quanto è uomo, bensì in quanto c’è in lui
qualcosa di divino”
23
.
Ora, questi tre tipi di vita, più o meno sottoposti a critica, vengono in qualche modo
riconosciuti da Aristotele, ma vi è un ultimo modo di condurre l’esistenza che egli tratta
solo a margine e con il più totale disprezzo: la vita dedicata alla ricerca del guadagno.
Essa, infatti, “è di un genere contro natura, ed è chiaro che non è la ricchezza il bene da
noi cercato” la quale “ha valore solo in quanto utile, cioè in funzione di altro”
24
.
Ridurre l’uomo all’ homo oeconomicus significa destinarlo a una vita innaturale ed, in
fondo, folle; significa non comprendere la distinzione fra semplici mezzi e fini e, dunque,
limitare lo scopo dell’esistenza al semplice vivere invece che tendere a una vita buona.
Per comprendere quanto detto, cioè l’assurdità della vita dedita al guadagno, è necessario
analizzare, nella consapevolezza della corrispondenza fra l’individuo e la πόλις, la
differenza che Aristotele pone fra l’economia e la crematistica
25
, in particolar modo in
riferimento al loro rapporto con la politica.
21
Ivi, I 1095 b 25-28.
22
Ivi, I 1095 b 32 – 1096 a 4.
23
Ivi, X 1177 b 25sg.
24
Ivi, I 1096 a 6-8.
25
Cfr. M.V. FERRIOLO, Aristotele e la crematistica, Firenze 1983.
13
Innanzitutto, il temine stesso οι ̉κονοµία deriva da οι ̉̃κος cioè “casa”, e, quindi,
l’economia è innanzitutto l’amministrazione della comunità domestica: è all’interno di
quest’ultima che viene garantita la semplice sussistenza della famiglia
26
. Questo è, in
qualche modo, l’ambito del necessario, del soddisfacimento dei bisogni, ma l’uomo non
può trovare qui l’attuazione della propria essenza: l’uomo per Aristotele non può essere
solamente un animale economico, ma si realizza in quanto animale politico (ζω̣̃ον
πολιτικόν). Sebbene la πόλις sia sorta a causa del bisogno, il suo τέλος è un altro:
sebbene sia nata in vista del semplice “vivere” ( ζη ̃ν ), ha come scopo il “vivere bene” (ευ̃̉
ζη ̃ν )”
27
, ovvero la felicità.
L’economia, dunque, è necessaria, ma solamente in funzione della politica: “anche le più
apprezzate capacità, come, per esempio, la strategia, l’economia, la retorica, sono
subordinate ad essa”
28
.
L’errore dell’uomo moderno consiste, quindi, nell’aver invertito questo rapporto
subordinando la vita politica e sociale degli individui alle esigenze illimitate
dell’economia, rendendosi in tal modo schiavo delle cose.
I beni materiali, infatti, sono per loro natura strumentali, di conseguenza non devono
essere perseguiti per se stessi in modo illimitato. La differenza fra l’economia naturale e la
crematistica sta proprio nel fatto che la prima è caratterizzata dal limite dell’autarchia,
mentre la seconda “mira all’accrescimento”
29
illimitato dei beni stessi. Vi è, quindi, uno
stretto legame fra il concetto di fine e quello di limite osservabile, del resto, in ogni tipo di
arte: “come la medicina è senza limite nella ricerca della guarigione e ogni arte cerca
all’infinito di produrre il proprio τέλος ( perché proprio quel fine vuole raggiungere ) -
mentre non è senza limite riguardo ai mezzi per raggiungerlo ( perché il fine costituisce
per tutte un limite ) – così è anche di questa forma di crematistica: non c’è limite al suo
fine: suo fine, quella ricchezza e quell’acquisto di beni. C’è un limite dell’economia, non
della crematistica: lo scopo di questa non è lo stesso dell’economia. Perciò appare
26
Cfr. ARISTOTELE, Politica, cit., p.30, dove Aristotele afferma che “la comunità che si costituisce per la
vita di tutti i giorni è per natura la famiglia”.
27
Cfr. ivi, p.30, dove più precisamente Aristotele afferma che “la comunità perfetta di più villaggi costituisce
ormai la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza e che sorge per rendere
possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza”.
28
ARISTOTELE, Etica Nicomachea cit., I 1094b 1-5.
29
ARISTOTELE, Politica cit., p.36, dove Aristotele precisa che “l’economia e la crematistica non siano
identiche è chiaro: infatti alla seconda spetta procurare i beni, alla prima usarli” e che “una sola specie di
acquisto è una parte naturale dell’economia: quella che si deve praticare o che ci si deve mettere in
condizione di poter praticare per raccogliere i mezzi necessari e utili alla vita ed alla comunità politica e
familiare”.
14
necessario che ci sia un limite di ogni ricchezza, mentre vediamo che in realtà avviene il
contrario”
30
.
Questo differente atteggiamento nei confronti dei beni, considerati dall’economia come
semplici mezzi e dalla crematistica come fini, deriva dall’introduzione della moneta: “ la
crematistica, quella commerciale, non è in genere produttrice di beni, ma lo è solo
attraverso il loro scambio e sembra aver per oggetto la moneta: la moneta è qui elemento e
fine della permuta. La ricchezza che deriva da questo tipo di crematistica non ha limite”
31
.
Il vivere bene non può consistere nell’accumulare ricchezze in modo illimitato, perché ciò
non permetterebbe mai all’uomo di superare lo stadio dei bisogni: ogni individuo può
trovare la propria realizzazione solamente all’interno della città.
Rimane da chiedersi in che modo la πόλις possa contribuire a realizzare la felicità
dell’uomo.
“Il bene dell’uomo consiste in un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù
sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta”
32
. Come detto precedentemente,
l’attività contemplativa, che ha come virtù la sapienza, è l’attività più alta, tuttavia essa
non è propriamente umana; l’altra virtù è la saggezza, la quale, invece, è rivolta all’ambito
dell’azione dell’uomo, al bene realizzabile praticamente. La sapienza e la saggezza sono
definite virtù dianoetiche, ovvero inerenti alla parte razionale dell’anima umana, la più
elevata. Tuttavia, da un lato, la sapienza, rivolgendosi a cose immutabili ed eterne, non ha
interesse del concreto agire umano; dall’altro, nemmeno la saggezza, pur considerando le
realtà contingenti, di per sé non è in grado di spingere all’azione, in quanto delibera sui
mezzi dell’agire, ma non sul suo fine: non può, dunque, essere considerata separatamente
dalle virtù etiche, disposizioni proprie della parte appetitiva dell’anima
33
. Quest’ultimo
genere di virtù nasce dall’abitudine, in modo che “compiendo azioni giuste diventiamo
giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi”
34
. E’ a questo punto che
si può vedere l’importanza della vita politica, perché è in essa che i cittadini vengono
30
Ivi, p.39. Cfr. ibidem, dove Aristotele precisa che non ogni forma di scambio è, del resto, innaturale, in
quanto basta pensare al baratto che scambia cose utili in cambio di cose utili (per esempio vino in cambio di
grano), ma questa particolare modalità di commercio “non appartiene neppure alla crematistica, in quanto è
volta a soddisfare le condizioni naturali dell’autosufficienza, ma logicamente da questo tipo di scambio è
derivata la crematistica…perciò pare che la crematistica concerna soprattutto il denaro e che suo compito sia
il poter indagare d’onde sia possibile acquistare abbondanza di ricchezza, quasi che essa stessa sia
produttrice di ricchezza e denaro. E spesso si afferma la coincidenza della ricchezza con l’abbondanza di
denaro, appunto perché al denaro mirano la crematistica e il commercio”.
31
Ivi, p.39.
32
ARISTOTELE, Etica Nicomachea cit., I 1098 a 17sg.
33
Cfr. ivi, VI 1144 b 32-34, dove Aristotele afferma che “non è possibile essere buono in senso proprio
senza saggezza, né essere saggio senza la virtù etica”.
34
Ivi, II 1103 b 1sg.
15
educati alla virtù e, in tal modo, destinati alla felicità: “i legislatori, infatti, rendono buoni i
cittadini creando in loro determinate abitudini, e questo è il disegno di ogni legislatore, e
coloro che non lo effettuano adeguatamente sono dei falliti; in questo differisce una
costituzione buona da una cattiva”
35
.
All’interno di una costituzione buona, una delle virtù esaltate è la liberalità, ovvero “la
medietà che riguarda i beni materiali…la prodigalità e l’avarizia sono eccessi e difetti che
riguardano i beni materiali. E mentre attribuiamo il termine avarizia sempre a coloro che si
preoccupano dei beni materiali più di quanto bisogna, talora applichiamo il termine
prodigalità comprendendo insieme più significati: chiamiamo, infatti, prodighi gli
incontinenti e coloro che scialacquano per soddisfare la loro intemperanza”
36
.
La ricchezza appartiene alle cose di cui si fa uso, il che significa che essa deve essere
spesa o donata e non custodita: uno dei modi più nobili per consumarla è quello di
utilizzarla nelle opere pubbliche per l’interesse comune, in tal caso, però, non si parla più
di liberalità, ma di magnificenza
37
.
Da quanto detto consegue che consacrare la vita umana alla ricerca dell’utile, concedendo
un’eccessiva importanza ai beni materiali, significa condannarla all’impotenza, a uno stato
di perenne scarsità ed insoddisfazione e tutto questo a causa dell’oblio di quel fine ultimo
dell’agire che si concretizza nella vita sociale dell’uomo. Aristotele stesso avvertì il
pericolo insito in una accumulazione indiscriminata di ricchezze, avanzando delle critiche
all’imperialismo ateniese: “da una parte troviamo una πόλις democratica a base
economica che vive bene all’interno di un’armonia creata da una vita naturale di
sostentamento; dall’altra una πόλις più democratica, ma condizionata da un fattore esterno
non naturale, instabile e non più in grado di garantire un giusto equilibrio sociale e
politico. Infatti, in questo caso, la vita politica è subordinata alla ricchezza, ad un certo
tipo di ricchezza la cui garanzia non è costante, ed una πόλις non può basare in assoluto la
sua esistenza su questo fattore innaturale, illimitato ed incerto”
38
.
Concludendo, Aristotele non riconosce alcuna autonomia al rapporto con i beni e con il
denaro, tanto che codifica rigidamente la condotta economica degli individui con regole
prima etiche e poi politiche, e subordina a sua volta la saggezza alla sapienza in relazione
alla felicità perfetta. In tal senso, il pensiero aristotelico riflette quelle gerarchia di fini e di
35
Ivi, II 1103 b 4sg.
36
Ivi, IV 1119 b 29sg.
37
Cfr. ivi, IV 1122 a 18sg.
38
M.V.FERRIOLO, cit., pp.86-87.
16
comportamenti propria delle società indoeuropee la quale si organizza secondo
un’ideologia tripartita che subordina la ricchezza alla forza e la forza alla saggezza
39
.
Questa tripartizione richiama alla mente la struttura essenzialmente gerarchica della
società indiana: essa ha il suo fondamento mitico nello smembramento del Purusa
primordiale, dal quale, immolato come vittima sacrificale, ebbero vita il cosmo e gli
uomini: dalla sua testa ebbero origine i brahmana, ovvero i sacerdoti conoscitori del Veda;
dalle sue braccia gli ksatriya, i detentori del potere, governanti e guerrieri; dalle cosce i
vaisya, gli allevatori, i contadini, gli artigiani; infine, dai piedi i sudra, i servitori, un
quarto gruppo introdotto successivamente rispetto ai testi vedici più antichi e che include
nel sistema le popolazioni indigene sottomesse.
Questa suddivisione si riflette nella classificazione brahmanica dei fini dell’uomo
(purusartha
40
) in cui vengono distinti quattro fini dell’azione umana, i quali, pur essendo
egualmente legittimi, sono gerarchizzati in funzione del loro grado di purezza: il piacere (
kama ), in particolare sessuale; l’interesse ( artha ), suddivisibile al suo interno in
interesse economico, di potere o di prestigio; l’osservanza del dovere ( dharma ), in
relazione al posto occupato da ciascuno nell’ordine cosmico e sociale; infine, la
liberazione ( moska ), in particolare dall’obbligo di avere fini
41
.
Sebbene il termine sanscrito artha possa, in qualche modo, tradurre la nostra idea di
interesse, tuttavia l’attenzione nei libri sacri dell’India non è posta tanto sulla sua natura
economica, quanto su quella politica: si parla, dunque, dell’interesse del re e dei brahmani,
dei ministri, così come di quello del regno e di ciascuna casta.
Rispetto alla tradizione brahmanica l’esito dell’egemonia della ragione utilitaria nell’età
moderna è, quindi, quello di aver sussunto i quattro principi di azione non solo sotto il
registro dell’interesse, ma in definitiva, sotto uno dei suoi sottoinsiemi e cioè l’interesse
acquisitivo o economico.
Inoltre, se Aristotele ha edificato un’etica cittadina e comunitaria, fondata sulla ϕιλία
42
,
tanto che può essere definito il primo teorico del dono
43
, l’etica brahmanica pone come
scopo supremo dell’agire la liberazione (moska), in particolare, come detto, dall’obbligo
di avere fini ed ha come suo centro la nozione di sacrificio, nel senso etimologico ed
39
Cfr. CHAMPETIER, Homo consumans cit., pp.101-107, dove l’autore riprende ARISTOTELE, Etica
nicomachea cit. X 1178 b 20-22: “Ma se si toglie, all’essere che vive, l’agire, e ancor più il produrre, che cosa
gli rimane se non la contemplazione?”.
40
Etimologicamente significa, per l’appunto, “oggetto (artha) delle aspirazioni dell’uomo (purusa)”.
41
Cfr. M.MAUSS, Saggio sul dono cit., p.283 e CAILLE’, Critica della ragione utilitaria cit., pp.89-90.
42
Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea cit., VIII 1155 a 24, dove Aristotele afferma che “sembra, poi, che
sia l’amicizia a tenere insieme le città”
43
Cfr. GODBOUT, Lo spirito del dono, tr.it. di A. Salsano, Torino 1993, p. 131.
17
originario di rendere sacro. La vita politica è in questo caso subordinata alla vita religiosa
o mistica
44
.
La gerarchia dei fini precedentemente esposta ha, dunque, al suo vertice la negazione e il
superamento di se stessa. La liberazione non è data, infatti, dalle azioni e, quindi,
nemmeno dall’osservanza del rituale proprio di ogni casta: “l’uomo è decaduto dal suo
stato di perfezione originaria a causa della conoscenza del bene e del male, ed è proprio da
questa stessa conoscenza, rappresentata dalla legge morale, che dovrà infine liberarsi. Per
lontano che egli sia pervenuto, gli rimarrà sempre un ultimo passo da compiere, quello che
comporta la dissoluzione di tutti i precedenti valori”
45
. Se, dunque, seguendo Caillè, la
suddetta gerarchia, tradotta in concetti moderni, impone che la prima serie di fini sia retta
dal principio del piacere, la seconda dal principio di realtà, la terza dalla distinzione tra
bene e male, ciò che caratterizza il moska è proprio il fatto di mirare al di là di questi tre
principi, in quanto è ricerca di “a-strutturalità” e “a-razionalità”. I primi tre fini dell’azione
umana implicano una concezione del mondo frammentata e offuscata dall’incantesimo
della maya
46
, la quale illude l’uomo di essere separato dal proprio ambiente e di poter
agire indipendentemente da esso:
«Tutte le azioni avvengono per l’intrecciarsi delle forze della natura; (ma) colui che è
traviato dal sentimento del proprio ego pensa: “sono io colui che fa”.
«Ma colui che conosce il rapporto fra le forze della natura e le azioni vede come certe
forze della natura agiscono su altre, e non ne diviene schiavo »
47
.
Spezzare l’incantesimo della maya, “significa comprendere che tutti i fenomeni che
percepiamo con i nostri sensi sono parte della medesima realtà. Significa provare
concretamente e personalmente che tutto, compreso il nostro stesso io, è Brahman. Questa
44
Cfr. A.COOMARASWAMY, Induismo e Buddismo, tr.it. di U.Zalino, Milano 1994, p.27, dove l’autore
afferma che “il Sacerdotium comprende sia l’autorità sacerdotale sia la regalità …mentre il Regnum,…,
comprende la sola autorità regale, è relativamente femminile ed è subordinato al Sacerdotium, la sua guida.
La distinzione delle funzioni in termini di sesso definisce la gerarchia. Soltanto Dio è maschile rispetto al
tutto…Il sacerdote è maschile rispetto al re ed il re è maschile rispetto al suo reame”. In relazione alla
complementarietà delle due funzioni si veda, invece, AA.VV., Manuale di storia delle religioni, Bari 1998,
pp.291-332, dove si afferma che lo ksatriya, il guerriero in posizione di comando politico e militare, e il
brahmana, il sacerdote, custode delle visioni mistiche e dei riti, costituiscono due ruoli opposti e in continua
tensione, ma anche complementari: il primo, infatti, è il “sacrificante” per eccellenza che, con i riti
appropriati compiuti dal sacerdote, spera di assicurarsi il potere temporale; il brahmano, a sua volta, dipende
dal guerriero per il proprio sostentamento e la propria incolumità.
45
A.COOMARASWAMY, Induismo e Buddismo cit., p.57.
46
Cfr. F.CAPRA, Il tao della fisica, tr.it. di G.Salio, Milano 1989, pp.100-110, dove a proposito della maya
l’autore sostiene che essa “non significa che il mondo è un’illusione, come spesso viene erroneamente
affermato. L’illusione, semplicemente, si trova nel nostro punto di vista, se pensiamo che le forme e le
strutture, le cose e gli eventi attorno a noi siano realtà della natura, invece di comprendere che sono concetti
della nostra mente la quale misura e classifica. Maya è l’illusione che deriva dallo scambiare questi concetti
per realtà, dal confondere la mappa con il territorio”.
47
Bhagavadgita, tr. it. di R.Gnoli, Milano 1987, III, 27-28.
18
esperienza è chiamata moska, o “liberazione”, nella filosofia indù ed è la vera essenza
dell’indusmo”
48
.
Colui che ha conseguito la liberazione ed è “concentrato nello yoga” è, quindi, in grado di
superare anche l’opposizione fra egoismo ed altruismo, di balzare al di là dell’idea stessa
di persona e di valicare l’individualità
49
, perché “guarda collo stesso occhio ogni cosa,
vede come il suo proprio sé è in tutti gli esseri e come tutti gli esseri sono nel proprio
sé
50
”.
Vita sociale dell’uomo e vita mistica non si escludono, del resto, a vicenda, ma possono
coesistere come opposti complementari lungo il corso dell’esistenza di ogni persona. Si
ripropone nuovamente il problema dell’ordine gerarchico: così come la società e i fini
delle azioni sono suddivisi in quattro categorie, anche la vita dell’uomo si sviluppa
passando attraverso quattro stadi. Dopo aver appreso da giovane l’obbedienza, essersi
aperto all’esperienza dell’amore e della sessualità da adulto, ed aver assolto ai propri
doveri sociali da capofamiglia, ogni individuo può prepararsi a compiere l’ultimo e più
arduo stadio della sua vita, il samnyasa, il distacco dai beni terreni e dal mondo, che
conduce alla liberazione.
L’esperienza ascetica esige, dunque, prima di tutto, il compimento dei doveri sociali e non
esclude gli altri fini dell’azione umana. Il desiderio, gli interessi materiali, l’ordine morale,
non vengono negati, ma inseriti gerarchicamente nella complessità dell’esistenza umana.
“Il disordine fa la sua comparsa quando l’elemento subordinato viene meno alla sua
normale funzione, soggiacendo alla tirannia delle proprie passioni, anche se scambia ciò
per libertà”
51
.
Concludendo, il rischio connesso alla riduzione dell’uomo all’homo oeconomicus è,
dunque, quello di tradurre la pluralità dei principi dell’azione, di per sé irriducibili l’uno
all’altro, nel solo linguaggio dell’interesse e dell’utile col quale rendere intelligibili in
modo uniforme tutte le sfumature dell’esistenza. Ma i diversi piani dell’agire umano
svolgono gli uni rispetto agli altri il ruolo di “meta-piani”, cosicché “l’arte e la difficoltà di
vivere consistono nel conciliare esigenze di per sé incompatibili. La letteratura non è altro
che una serie infinita di variazioni su questo tema”
52
, basti pensare alle tragedie greche.
48
F.CAPRA, Il tao della fisica cit., p.106.
49
cfr. E.ZOLLA, La filosofia perenne, Milano 1999, p.135.
50
Bhagavadgita VI, 29.
51
A.COOMARASWAMY, Induismo e Buddismo cit., p.28.
52
A.CAILLE’, Critica della Ragione utilitaria cit., p.91.