Prefazione
7
emotiva”
1
, ovvero il cambiamento di atteggiamento da parte dei professionisti
dell’informazione che, se a seguito dell’omicidio Coco presero del tutto coscienza della
reale matrice politica del fenomeno terroristico, dopo la strage di via Fani iniziarono ad
interrogare se stessi sulle responsabilità professionali nel trattamento dell’informazione
relativa al terrorismo. Nell’arco di meno di due anni si consuma, dunque, un radicale
mutamento di condotta che, però, avviene in parte sulla pelle stessa dei giornalisti, bersaglio
conclamato dei brigatisti a partire dal giugno del 1977;
ξ l’ultimo capitolo, infine, prende le mosse da una rapida analisi del sequestro Moro, per
introdurre un analitico approfondimento del rapimento del magistrato Giovanni D’Urso,
sequestrato dalle Br il 12 dicembre 1980 e rilasciato il 15 gennaio dell’anno successivo. In
quest’ultima parte della trattazione, che ne rappresenta altresì la sezione più documentata e
rilevante, e quella che conferisce il titolo all’intero lavoro, ci concentreremo sul dibattito
sorto nel sistema mediatico nazionale in merito all’opportunità di bloccare le informazioni
sul terrorismo. Una discussione tratteggiata nelle linee essenziali già con il caso Moro, ma
che raggiungerà toni aspri e drammatici, oltre che un barlume di attuazione pratica, proprio
con l’affare D’Urso.
Per meglio inquadrare nel contesto storico i fatti che andremo ad analizzare, ogni capitolo propone,
in avvio, una breve sezione dedicata a tre aspetti essenziali ai fini del lavoro stesso: una veloce
disamina del milieu politico ed economico italiano negli anni in questione, quindi un excursus sulla
situazione storica ed economica vissuta negli stessi periodi dal settore editoriale e da quello
radiotelevisivo.
In definitiva, lo scopo di questo lavoro resta quello di rileggere, il più possibile dettagliatamente, il
fenomeno delle Brigate Rosse nella, a nostro avviso, ancora poco studiata prospettiva mediatica.
Un’angolatura particolare e, se vogliamo, originale rispetto alla gran mole di interventi già prodotti
sul fenomeno in questione, la quale permette poi di trarre utili indicazioni da tener presenti qualora
fenomeni di tale tipo dovessero ripresentarsi. A questo scopo, proponiamo, in avvio di trattazione,
una lettura del carattere massmediatico del fenomeno terroristico di sinistra, attingendo ai giudizi
che sociologi e studiosi di comunicazione ne hanno dato negli anni.
L’appendice raccoglie, invece, articoli ed interviste essenziali ai fini della trattazione. Tra di esse
riportiamo per intero anche un’intervista concessaci dal giornalista de “L’Espresso” Mario Scialoja.
1
M. Boneschi, Il processo di assuefazione emotiva della stampa quotidiana ai sequestri di persona per estorsione, in
“Problemi dell’Informazione”, aprile-giugno 1979, n. 2, pp. 252-254.
INTRODUZIONE,
IL RAPPORTO TRA MEDIA E TERRORISMO DURANTE GLI “ANNI DI
PIOMBO”
Nel corso degli anni ’70, alcuni termini del lessico italiano hanno subito delle oscillazioni
linguistiche rilevanti, sintomo di notevoli mutamenti intervenuti nel contesto politico e sociale del
paese. Parole come “lotta”, “eversione”, “terrorismo”
2
sono divenute tristemente familiari e, a
tutt’oggi, riportano la mente a quei difficili anni. Tuttavia, quando si parla della stagione più buia
della storia repubblicana d’Italia, definita ormai comunemente come gli “anni di piombo”, è spesso
prassi assodata quella di ricomprendervi anche l’anno 1968, non si sa bene se come mero termine di
inizio di una serie di sconvolgimenti che, da quella data in poi, avrebbero investito la realtà politica,
sociale e culturale italiana, o come parte integrante di quella che Sergio Zavoli avrebbe in seguito
definito “la notte della Repubblica”. Marco Revelli adotta un’analisi che ci sembra indovinata,
quando ritiene che il movimento sessantottino del “maggio strisciante” italiano, non dissimile dal
“mai” parigino, fosse in realtà la manifestazione spontanea e pura di “una formidabile eccitazione
collettiva che comportava in se stessa il rifiuto della lotta a morte”
3
. Gli scenari da guerriglia
urbana, le sassaiole degli operai durante l’autunno caldo, i banchi lanciati dalle finestre universitarie
durante la contestazione studentesca, dunque, andrebbero viste come espressioni di una “teatralità”
insita nel movimento, ma incapace di scaturire in vera e propria volontà omicida. A conferma di
questa tesi ci sono i dati che denotano come, a fronte di un decennio costellato di innumerevoli atti
sanguinosi spesso conclusisi con la morte, nel 1968 fu numericamente contenuto il totale delle
vittime: tre, cadute ad Avola sotto il fuoco della polizia dopo uno sciopero bracciantile. Nota a
questo proposito Revelli:
“In quella nuova geografia mentale che aveva assunto il mondo come spazio di riferimento,
mimare la violenza era un modo per tener dentro l’eterogeneità più assoluta, il Vietnam e la
società dei consumi, l’America Latina e il quartiere latino, la tragedia di Praga e la
quotidianità di Palazzo Campana, integrandoli nella medesima rappresentazione che,
tuttavia, per rimanere tale, per permettere la re-identificazione, doveva mantenersi al di qua
del fatto, del suo precipitare materiale. Al di qua della realtà del sangue e della morte”
4
.
E’ forse proprio questa la matrice comune e, insieme, l’elemento che più distingue le lotte operaie e
studentesche dei tardi anni ’60, dall’eversione armata cha ha contraddistinto l’intero decennio
successivo. Diversità perché nel ’68 la violenza era ancora unicamente concepita ad un livello
“teatrale”, incapace di scaturire in azione cruenta contro la vita umana. Tuttavia, sta proprio
nell’esplicita volontà di esibire l’aggressività, in maniera solo istrionica o fino all’omicidio,
l’elemento che accomuna i due distinti fenomeni, rendendoli entrambi proficuo oggetto di studio
per i massmediologi.
“Il problema fondamentale è dare un’immagine di sé, perché la realtà ha raramente la meglio
su un’immagine ben costruita”
5
.
In questa massima del sociologo Sabino Acquaviva, tratta dal suo libro Guerriglia e guerra
rivoluzionaria in Italia, ci pare sia contenuto, in maniera esaustiva, il carattere fondamentale che il
terrorismo di matrice politica, specie quello di sinistra, ebbe negli anni ’70, non solo in Italia. Nota,
ad esempio, Walter Laquer nel suo Storia del terrorismo:
“Se singoli giornalisti possono aver sofferto per mano di terroristi, l’atteggiamento dei
terroristi verso i mezzi di comunicazione in sé è stato positivo, e con dei buoni motivi: il
2
M. G. Lo Duca, Parole politiche nel linguaggio della sinistra storica: ordine/disordine e terrorismo (II), in “Problemi
dell’Informazione”, aprile-giugno 1980, n. 2, pp. 247-259.
3
E. Morin e M. Halter, Mais, Neo, Parigi, 1988, p. 22.
4
M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell'Italia repubblicana, Einaudi,
Torino, 1995, 2, p. 472.
5
S. S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia. Ideologia, fatti, prospettive, Rizzoli, Milano, 1979, p.
133.
Introduzione Il rapporto tra media e terrorismo
9
successo di un’operazione terroristica dipende quasi interamente dalla quantità di pubblicità
che riceve. Questa è una delle ragioni principali per il passaggio dalla guerriglia rurale al
terrorismo urbano avvenuto negli anni Sessanta; perché nelle città i terroristi potevano sempre
contare sulla presenza di giornalisti e telecamere, e cioè su un largo pubblico. […] Così in
ultima analisi non è la dimensione delle operazioni terroristiche che conta, ma la pubblicità
che ne viene fatta; e ciò vale non solo per singole operazioni ma anche per intere campagne. I
mezzi di comunicazione con la loro innata tendenza al sensazionalismo hanno spesso
ingrandito gli exploit dei terroristi molto al di là della loro intrinseca importanza. Gruppi
terroristi che contavano forse una dozzina di membri sono stati descritti come “eserciti”, i loro
“comunicati ufficiali” sono stati argomento di innumerevoli trasmissioni televisive,
programmi radio, articoli ed editoriali. In rari casi è stata data una grande pubblicità perfino a
gruppi del tutto inesistenti. I gruppi terroristi moderni hanno tutti bisogno di pubblicità: più
piccoli sono, più ne dipendono e ciò ha condizionato in larga misura la scelta dei loro
obiettivi. Perfino un attentato apparentemente illogico e senza senso diventa più efficace con
una larga copertura da parte dei mass-media che non un’operazione contro un obiettivo che
sembri ovvio”
6
.
Lo conferma Alberto Franceschini, uno dei protagonisti della lotta armata. Ad intervistarlo, nel
1989, fu Sergio Zavoli, nell’ambito dell’inchiesta giornalistica televisiva sull’intero periodo degli
“anni di piombo”, denominata, come dicevamo, La notte della Repubblica. Ne riportiamo qui di
seguito alcuni stralci:
“Franceschini, è vero che alcune piccole azioni furono fatte all’inizio per verificare ciò che
provocavano?
In un certo senso sì, c’era un aspetto sperimentale: quello di capire la reazione dei mass
media. Perché per noi i giornali sono stati importanti come punto di riferimento.
Mi sta forse dicendo che, poniamo, lei stesso va a compiere un’azione per leggere
all’indomani i giornali e vedere quali reazioni ha provocato?
Sì, non era un aspetto puramente individuale; riguardava l’utilizzo dei mass media in
generale, e lo avevamo chiaro sin dall’inizio.
Da questo punto di vista, qual è stato il ruolo oggettivo dei mass media in rapporto
all’escalation terroristica?
Credo che di per sé l’azione terroristica sia una notizia già confezionata.
Quando correvate a vedere i tele giornali dopo le vostre azioni, o la mattina vi mettevate ad
ascoltare la radio o a leggere i quotidiani, non contavate anche sul fatto che in un paese
democratico la stampa non è reticente, ma al contrario va a cercare i fatti, li indaga, non li
censura?
Certo, questo era il punto fondamentale per noi; sapevamo che in un paese democratico i mass
media devono dare l’informazione […] però sapevamo anche che l’avrebbero data in un certo
modo: cioè, se non c’era la censura, c’era però quella che noi chiamavamo la manipolazione.
Sapevamo che l’uso che i mass media avrebbero fatto delle nostre cose sarebbe stato
certamente diverso da quello che noi avevamo preventivato…
…l’uso che i mass media avrebbero fatto delle cose o l’uso che altri poteri avrebbero fatto
dei mass media in rapporto a queste cose?
Sì, probabilmente è più corretto dire come lei ha detto: l’uso che altri poteri ne avrebbero
fatto, tramite i mass media”
7
.
Interessante, nel descrivere i caratteri inconfondibilmente “mediatici” che il fenomeno terroristico
volle avere sin dai suoi albori, è poi osservare quali siano stati gli strumenti utilizzati per
accaparrarsi l’attenzione dei media e quali gli obiettivi colpiti. In merito al primo aspetto, ciò che
emerge evidente dall’azione eversiva, specie delle Br, è il ricorso sistematico alla valenza
comunicativa della “violenza”, accostato ad una propaganda ideologica che si estrinseca,
6
W. Laqueur, Storia del terrorismo, Rizzoli, Milano, 1978, pp. 145-146.
7
S. Zavoli, La notte della repubblica, Nuova Eri, Roma, 1995, pp. 405-411.
Introduzione Il rapporto tra media e terrorismo
10
principalmente, nei comunicati di rivendicazione diffusi a seguito delle azioni. Un binomio che il
guerrigliero brasiliano Carlos Marighella, leader del movimento “Ao Libertadora Nacional”, aveva
definito come “propaganda armata” nel suo Piccolo manuale della guerriglia urbana:
“Il coordinamento delle attività di guerriglia urbana, inclusa ogni azione armata, è il principale
mezzo per fare propaganda armata. Queste azioni, eseguite con specifici obiettivi e scopi,
diventano inevitabilmente materiale di propaganda per i sistemi di comunicazione di massa.
Gli assalti alle banche, gli agguati, l’esproprio di armi, il soccorso dei prigionieri, le
esecuzioni, i rapimenti, i sabotaggi, gli atti di terrorismo sono tutti casi in questione. Anche il
dirottamento di aerei in volo o il sequestro di navi e treni, possono essere eseguiti solo per
scopi di propaganda. Ma il guerrigliero urbano non deve mai dimenticare di allestire una
tipografia clandestina e deve essere capace di preparare copie ciclostilate usando alcool o
cliché o altri apparati di riproduzione espropriati che non possono essere comprati per
produrre piccoli giornali clandestini, opuscoli, volantini e stampe di agitazione e propaganda
contro la dittatura. Il guerrigliero urbano incaricato della propaganda clandestina facilita
enormemente l’ingresso di un gran numero di persone nella lotta, aprendo un fronte di lavoro
permanente per quei volenterosi che vogliono fare la propaganda, anche quando così facendo
agiscono da soli e a rischio della propria vita. […] Nastri registrati, occupazione di stazioni
radio, uso di altoparlanti, graffiti sui muri o in altri luoghi inaccessibili, sono altre forme. […]
Questa influenza - esercitata nel cuore del popolo da ogni possibile mezzo di propaganda, che
gira attorno alle attività della guerriglia urbana - non indica che le nostre forze hanno
l’appoggio di tutti. E’ sufficiente conquistare l’appoggio di una parte della popolazione e
questo può essere fatto rendendo popolare lo slogan ‘che chi non vuol fare niente per la
guerriglia non faccia nulla contro di essa’”
8
.
Nell’esperienza italiana, tuttavia, tale legame tra azione e parola, teorizzato dagli stessi guerriglieri,
viene meno quasi subito. A nulla vale l’escalation sempre più cruenta degli attentati, cui fa da
contraltare la via via più contorta stesura dei comunicati. Quella che avrebbe dovuto essere una
sintesi perfetta tra “atto” e “detto” diviene in breve la combinazione coatta di momenti non più
riconducibili l’uno all’altro. A questo proposito, osservano Vittorio Dini e Luigi Manconi nel loro Il
discorso delle armi:
“La propaganda armata ha sempre previsto […] in qualunque esperienza e teoria della lotta
rivoluzionaria e della guerriglia, una piena unità e coerenza tra gesto e parola, tra azione
armata e sua motivazione. Fino – si può dire – alla sussunzione della parola nel gesto:
talmente inequivocabile vorrebbe essere il discorso contenuto nel gesto e l’eloquenza del
gesto stesso. Ma nell’universo della comunicazione armata entrata in corto circuito – per
molte ragioni, da molti osservatori individuate – gesti e parole, azioni e comunicati hanno
assunto una totale reciproca autonomia: di conseguenza, è facile che il linguaggio delle parole,
resesi indipendenti dagli oggetti, dalla materialità e corposità degli atti, diventati vaniloquio, e
l’azione armata – sganciata dalla forma logico-razionale che assumono i pensieri organizzati
in parole – diventi efferatezza. La parola appare ‘disarmata’ rispetto a qualunque intento
persuasivo e di attrazione (di proselitismo, dunque) e l’azione armata appare analfabeta
rispetto a una presunzione di incidenza e trasformazione”
9
.
Un concetto, peraltro, sottolineato anche dal sociologo Franco Ferrarotti che, in un intervento
dedicato proprio a L’ipnosi della violenza, ribadisce la superiorità evocativa del gesto sulla parola,
nell’azione armata:
“Mi ha sempre colpito, nella lettura dei documenti delle Br, il contrasto stridente fra la
raffinatezza del loro tempismo psicologico e delle loro risorse dal punto di vista della
manipolazione psicagogica di massa e la rozzezza, il primitivismo approssimativo e
imparaticcio dei loro documenti ideologici e delle loro dichiarazioni politiche. […] Se si
8
C. Marighella, Piccolo manuale della guerriglia urbana, stampato in proprio, 1969, p. 31.
9
V. Dini, L. Manconi, Il discorso delle armi. L'ideologia terroristica nel linguaggio delle Br e di Prima Linea, Savelli,
Milano, 1981, pp. 50-51.
Introduzione Il rapporto tra media e terrorismo
11
considerano i tempi delle operazioni, le modalità e la sequenza dei comunicati, la qualità dei
rapporti con il più vasto, indifferenziato pubblico e l’abilità del giocare a colpo sicuro sulle
sue reazioni istintive e immediate, dalla paura all’orrore alla malcelata ammirazione per
l’efficienza dimostrata, non vi possono essere ragionevoli dubbi sull’esistenza di una regia di
rara perizia, attenta alla scena generale e in grado di non perdere di vista lo scopo finale”
10
.
Per quanto attiene alla comunicazione degli intenti, dunque, risulta certo più proficua l’azione
rispetto alla rivendicazione. La scelta dell’obbiettivo, in questo, diventa fondamentale tanto quanto
il momento nel quale compiere l’azione. I brigatisti colpiscono, nella persona, il sistema più ampio
di assunti che essa rappresenta. Con Sossi rapiscono “la magistratura intransigente”, con Montanelli
feriscono “il giornalismo conservatore”, con Moro uccidono “lo Stato”. Come specifica ancora
Acquaviva, l’azione di “propaganda armata” ha bisogno di un obbiettivo facilmente stigmatizzabile:
“L’azione a fuoco è efficace quando colpisce dei delinquenti notori in maniera ‘pulita’, oppure
quando è un’azione ‘pulita’ di guerra, cioè colpisce dei militari in uno scontro a fuoco, oppure
svolge azione di distruzione di cose, di sabotaggio. […] Per non suscitare la reazione
dell’opinione pubblica l’atto di terrorismo o di guerriglia deve: 1) apparire militare, cioè
colpire una ‘posizione’ militare in senso stretto; 2) oppure essere diretto contro un elemento
che, secondo il pensiero della maggioranza dell’opinione pubblica, è un ‘delinquente’ notorio;
3) colpire le ‘cose’ del sistema di potere, politico, economico, militare. […] Un tribunale del
popolo, insomma, è un tribunale che condanna chi, per il popolo, è chiaramente colpevole di
un crimine direttamente compiuto e macroscopicamente evidente; in caso contrario per i
mezzi di informazione è facile dimostrare che la violenza è gratuita ed inutile”
11
.
Accanto all’azione eversiva, perciò, viene edificato un vero e proprio sistema di procedure
giuridiche che mima quello degli apparati statali e ne rappresenta il rovesciamento speculare. Vi
sono “carceri del popolo” in cui rinchiudere i “servi dello Stato”, per sottoporli a “processi
proletari” la cui sentenza finale può contemplare tanto la morte quanto la grazia. Lo osservano Dini
e Manconi:
“All’interno di questa logica, è del tutto evidente che il ‘diritto penale rivoluzionario’ possa
comportare, oltre che la condanna, il condono di essa. Oltre che la sanzione, il perdono
giudiziario, in base a quella che il comunicato numero 10 delle Br – emesso in conclusione
della ‘vicenda D’Urso’ - chiama ‘magnanimità’. Ma non solo: l’esercizio della ‘clemenza’ può
essere anche – in determinate circostanze: e probabilmente in quelle del sequestro di D’Urso –
la massima affermazione di forza e di potere. Essa dimostra – secondo le Br – che chi esercita
la ‘clemenza’ non teme i propri nemici: al punto tale da poterli ‘perdonare’ e rimetterli in
libertà”
12
.
E’, però, paradossalmente, quando il terrorismo colpisce a morte che il sistema nazionale dei media
entra in crisi. La positiva presa di coscienza della gravità del fenomeno porta, infatti, il settore
giornalistico italiano e, più in generale, l’ambiente intellettuale, a compiere un nuovo errore: quello
di sopravvalutare il fenomeno stesso, segno evidente di una difficoltà intrinseca da parte della
categoria nel trattare la violenza politica. Un assunto che sta alla base della trattazione di Ferrarotti:
“La confusione mortale in cui cadono questi intellettuali, specialmente in una situazione come
quella italiana, in cui il radicalismo più acceso si allea ad una cultura tendenzialmente
irrazionale di matrice religiosa, riguarda l’etica dei principi assoluti e l’etica della
responsabilità operativa. La violenza appare in tale contesto come dotata di poteri magici,
taumaturgici. I gruppi violenti sia dell’intimidazione diffusa sia del terrorismo organizzato
appaiono invulnerabili e fulminei, angeli sterminatori e insieme supremi giustizieri. […] Non
è un caso che, nella rappresentazione di Dario Fo, le Brigate Rosse giochino la parte degli dei.
Questa è, infatti, l’immagine che le rappresenta: l’invulnerabilità. Esse compaiono sotto il
10
F. Ferrarotti, L’ipnosi della violenza dal futurismo al caso Moro: un’analisi critica e spietata del fascino ambiguo
che la violenza esercita sull’intellettuale, Rizzoli, Milano, 1988, pp. 89-90.
11
S. S. Acquaviva, Guerriglia e guerra cit., pp. 133-136.
12
V. Dini, L. Manconi, Il discorso delle armi cit., p. 28.
Introduzione Il rapporto tra media e terrorismo
12
segno della potenza, mentre la ‘carne dello Stato’ appare sotto il segno vittimale. Anche
quest’impotenza dello Stato ha del misterioso. Leo Valiani invoca la lotta della democrazia
come il suo vero spirito, ma anch’egli si ferma quando si tratta di andare al di là della
perorazione. Tutto quello che di sicuro è venuto dallo Stato sono le carceri speciali e la
diminuzione delle evasioni, ma questo rimane al di qua della ‘invulnerabilità’ degli dei”
13
.
Una certa predisposizione alla remissività, come osserva sin qui Ferrarotti, ma, più spesso,
un’incapacità palese di approfondire l’analisi dei fenomeni eversivi sono stati i più grossi peccati di
cui si è resa colpevole la categoria giornalistica italiana, per anni incapace di fornire all’opinione
pubblica validi strumenti di comprensione del fenomeno, ma solo sensazionalismo, allarmismo e
ritriti giudizi morali. Alessandro Silj, nella sua analisi dell’informazione giornalistica durante il caso
Moro, denominata Brigate rosse-Stato, fa proprio quest’appunto al mondo dei media:
“Una stampa che si autodefinisce ‘responsabile’ avrebbe dovuto gestire l’informazione sul
caso Moro secondo criteri diversi dalle statistiche relative a tirature e vendite e indipendenti
dalle curiosità più o meno morbose, più o meno legittime del pubblico. […] Criteri ispirati alle
esigenze dell’informazione. Accade qualcosa, va riferito. Se l’evento di per sé è poco
intelligibile e sembra necessario dare al lettore elementi che gli permettano di capirne la
natura e di porlo nel contesto giusto, questi elementi vanno dati”
14
.
Silj scrive nel 1978, a pochi mesi dal tragico sequestro di Aldo Moro. Una testimonianza del fatto
che il problema di “come” informare sul terrorismo risultasse ben presente anche agli studiosi di
media dell’epoca. Del resto, in un articolo sulla rivista “Problemi dell’informazione” pubblicato nel
1979, anche Nicola Tranfaglia constatava amaramente il ritardo dell’informazione nazionale in
materia di eversione:
“Non abbiamo letto un’inchiesta, neppure una, sull’estendersi del fenomeno. Notizie di
attentati moltissime. Strascichi del rapimento Moro e dei suoi retroscena tanti […]. Ma nessun
tentativo organico e documentato di offrire ai lettori un ritratto veritiero e non fantastico
dell’universo terroristico e degli ambienti che ad esso fanno riferimento, delle sue origini
come delle cause che ne hanno favorito la crescita nel nostro paese”
15
.
Al contrario, la stampa e la radiotelevisione italiane hanno spesso emarginato quegli interventi,
proposti da sociologi e psicologi sociali, che intendevano indagare più da vicino il contesto nel
quale attecchiva l’eversione, come se il tentativo di capire le dinamiche sociali e culturali che
avevano portato all’affermazione del fenomeno equivalesse ad una tacita accettazione del fenomeno
stesso. Lo evidenzia il sociologo Gianni Losito in un suo intervento contenuto nel libro di Gianni
Statera Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70:
“Ipotizzare che le comunicazioni di massa contribuiscano a diffondere istanze ideologico-
culturali e comportamentali relative a nuovi ethos, ma anche ad anti-ethos collettivi, significa
assumere […] che esse possano di fatto finire col favorire o almeno sollecitare l’insorgere di
comportamenti innovativi, ma anche di comportamenti devianti. Questa possibile funzione
latente dei mass media diviene più incisiva quanto più povera sul piano dell’analisi
sociologicamente orientata e, quindi, superficiale, acritica, sensazionalistica, spettacolare, è
l’immagine dei fenomeni di devianza proposta dagli stessi mass media. Ciò significa che i
mass media – e la stampa in particolare, perché ad un tempo più libera, più spregiudicata e più
incline al sensazionalismo – possono trasformarsi da potenziali agenzie di integrazione e di
consenso, in potenziali agenzie di disgregazione sociale, per il fatto stesso di proporre in modo
acritico e spettacolare protagonisti e/o fatti di devianza. Il risultato di una tale strategia
informativa rischia, infatti, di essere un’implicita ed involontaria esaltazione delle componenti
‘eccezionali’, se non addirittura ‘eroiche’, del comportamento deviante e del suo porsi come
13
F. Ferrarotti, L’ipnosi della violenza cit., pp. 79-80.
14
A. Silj, Brigate rosse-Stato. Lo scontro spettacolo nella regia della stampa quotidiana, Vallecchi, Firenze, 1978, p.
208.
15
N. Tranfaglia, Un copione che si ripete. Stampa quotidiana e terrorismo, in “Problemi dell’Informazione”, aprile-
giugno 1979, n. 2, p. 186.
Introduzione Il rapporto tra media e terrorismo
13
estrema istanza antagonistica nei confronti della società. I mass media rischiano, così, di
subire un singolare destino. Spinti da un eccessivo timore di apparire inclini al
‘giustificazionismo’, possono svolgere un’involontaria azione non soltanto di ‘amplificazione’
ma anche di ‘fiancheggiamento’ della devianza”
16
.
In conclusione, quindi, Losito propone alcune considerazioni che possiamo prendere come un buon
punto di partenza per la successiva analisi che questo lavoro si propone di attuare:
“Il problema reale non è soltanto se pubblicare o non pubblicare un comunicato delle Br, ma
anche e soprattutto come elaborare una strategia informativa che di fatto non finisca col
favorire indirettamente il terrorismo sul piano dell’immagine implicita che se ne propone. […]
Rischio tanto più reale quanto più acritica, sensazionalistica, spettacolare, sociologicamente
carente e sprovveduta, è tale immagine. […] Accade poi che nell’universo parziale dei fatti-
notizia compaiano fatti ancor più eccezionali, eventi critici la cui imprevedibilità pone
immediatamente in crisi il sistema stesso dei media, in quanto sprovvisto di strategie adeguate
e già collaudate per la trattazione di essi”
17
.
Un’eventualità cui si può certo ricondurre sia il sequestro dell’onorevole Aldo Moro che, in
seguito, quello del magistrato Giovanni D’Urso. In questi due casi – in particolare nel secondo, che
sarà oggetto privilegiato della nostra analisi – il mondo dei media si trovò di fronte ad un
interrogativo di rara drammaticità: pubblicare o meno i comunicati diffusi dalle Br? Vedremo,
nell’ultimo capitolo del lavoro, a quali risultati condurrà tale dibattito. Per il momento analizzeremo
l’evolversi del rapporto tra media e Br dalla loro nascita sino alle date in questione.
16
G. Losito, La violenza politica nella stampa quotidiana italiana, in G. Statera (a cura), Violenza sociale e violenza
politica nell’Italia degli anni ‘70: analisi ed interpretazioni sociopolitiche, giuridiche, della stampa quotidiana, Franco
Angeli, Milano, 1983, pp. 109-110.
17
Ibidem, pp. 150-152.
CAPITOLO I – LO STRABISMO DEI MEDIA: DA PECORILE AL
SEQUESTRO SOSSI
“Ci abbiamo messo troppo tempo
a convincerci che le Brigate Rosse
erano davvero rosse”
Valentino Parlato,
ex direttore de “il manifesto”.
La sera del 18 Aprile del 1974 in una strada di Genova, via Forte dei Giuliani nella zona di
Albaro, un gruppo di brigatisti rossi sequestra il dottor Mario Sossi, sostituto procuratore della
Repubblica nel capoluogo ligure.
Quello che accade nei successivi 34 giorni di prigionia del magistrato genovese non è che la prova
generale, come molti autori hanno avuto modo di constatare in seguito, di quello che sarebbe
accaduto, con esito in questo caso drammatico, quattro anni dopo, quando a restare rinchiuso nel
“carcere del popolo” sarebbe stato nientemeno che il presidente della Democrazia cristiana,
l’onorevole Aldo Moro.
Ma analizzare il sequestro Sossi è importante anche, e soprattutto, ai fini di questo lavoro, per
identificare quella valenza mediatica che il terrorismo rosso ed in particolare le Brigate Rosse,
hanno sempre mostrato di prediligere sin dai loro primi esordi. D’altro lato, è proprio in quei
difficili giorni tra l’aprile ed il maggio del 1974 che avviene la prima, grande presa di coscienza da
parte dei mass media dei reali contorni assunti dall’organizzazione. I brigatisti rossi, fino ad allora,
erano stati “sedicenti” e “fantomatici” per la totalità della stampa e della televisione nazionali.
Soprattutto di quella stampa di sinistra (“l’Unità”, “il manifesto”), che per linea editoriale e politica
aveva l’obbligo di difendersi dall’avanzata alla propria sinistra di gruppi extra-parlamentari
inneggianti alla violenza e che utilizzavano la stella a cinque punte e la bandiera rossa per firmarsi.
Una consapevolezza che sarebbe giunta ad esaurirsi completamente solo due anni dopo, quando,
sempre a Genova, e sempre un magistrato, sarebbero finiti nuovamente nel mirino delle Br. Questa
volta però nessun sequestro, il sostituto procuratore della Repubblica Francesco Coco cede sotto i
colpi d’arma da fuoco dei brigatisti per essersi dimostrato inflessibile di fronte alla richiesta di
“scambio di prigionieri” ipotizzata durante la prigionia di Sossi. Per la prima volta le Brigate Rosse
aprono il fuoco in modo premeditato (i primi due omicidi erano stati già compiuti proprio
nell’estate del ’74 a Padova, ai danni di due esponenti del Movimento sociale italiano, ma
l’organizzazione non volle mai rivendicarne la volontarietà). I primi proiettili, dopo circa sei anni
caratterizzati da lanci di bottiglie molotov, sequestri lampo e atti dimostrativi, quella che in futuro
sarebbe stata definita come la “propaganda armata”.
Presa di coscienza degli obiettivi dell’organizzazione dunque, ma anche della capacità comunicativa
della stessa. Una caratteristica, quest’ultima, che in seguito, ai tempi del sequestro Moro e ancor più
durante la prigionia del magistrato Giovanni D’Urso, avrebbe posto in seria crisi gli stessi luminari
della professione giornalistica, scatenando un acceso quanto drammatico dibattito sulla legittimità,
da parte degli organi di informazione, di divenire “casse di risonanza” per i terroristi.
Vedremo che già durante il sequestro Sossi erano ben presenti sia sulla stampa che alla televisione
le radici di quel dibattito sul “blackout mediatico” che avrebbe conosciuto una formulazione illustre
solo quattro anni dopo, grazie ad una celebre intervista rilasciata dal sociologo canadese Marshall
McLuhan alla testata italiana “Il Tempo”. Di più. Nel 1974 accade qualcosa di addirittura più
interessante: il primo caso di utilizzo pluralistico del mezzo televisivo. Accade in seguito al
“silenzio” imposto alla Rai dal proprio direttore, che spinge la moglie di Sossi a pronunciare il
proprio appello ai rapitori e alle istituzioni dai microfoni della televisione della Svizzera italiana.
Non era mai accaduto prima.
C’è poi un’altra caratteristica che accomuna la vicenda del sequestrato Sossi con quella analoga
toccata a cavallo tra il 1980 ed il 1981 al collega D’Urso. In entrambi i casi, il decorso mediatico
del rapimento viene funestato dalla pubblicazione, ambedue le volte sul settimanale “L’Espresso”
Capitolo I Lo “strabismo” dei media
15
ed ambedue a firma dello stesso giornalista Mario Scialoja, di due interviste esclusive con i
brigatisti rossi, all’interno delle quali essi espongono le proprie posizioni al pubblico.
Per poter capire fino in fondo il contesto in cui lo svolgersi degli eventi ha luogo, è tuttavia
necessario fare un passo indietro ed esaminare, anche se in maniera rapida, da un lato la situazione
storico-politica vissuta dallo Stato italiano nel periodo in questione, dall’altro la realtà socio-
economica caratterizzante sia la stampa che gli altri media nel periodo antecedente il 1974.
Inoltre, ci preoccuperemo di tracciare un’indispensabile analisi della nascita e della crescita delle
Brigate Rosse fino all’anno in questione.
Il contesto politico, economico e sociale
L’Italia del divorzio
Il 1974 rappresenta un anno di svolta per la società italiana. Una generale richiesta di rinnovamento
ed una forte denuncia del degrado della vita pubblica sembrano farsi largo in maniera consistente in
ampi strati della popolazione, ormai “svezzati” dalla stagione del ’68-’69, che aveva mostrato a
chiare lettere come il cambiamento sociale succeduto al miracolo economico fosse giunto ad un
momento quanto mai dinamico.
Da un lato grazie alla contestazione studentesca, che nella sua critica verso la cultura borghese
aveva evidenziato un fervore politico inatteso nei più giovani, peraltro fortemente critico nei
confronti del “partitismo” tradizionale; dall’altro per via dei sommovimenti di fabbrica accaduti
durante “l’autunno caldo” del 1969, a seguito dei quali acquisirono un peso del tutto nuovo i tre
maggiori sindacati italiani (Cgil, Cisl e Uil), ravvicinandosi tra loro e al contempo acquisendo forza
contrattuale e autonomia rispetto al sistema politico. Lo nota Sergio Zavoli:
“In quegli anni i salari degli operai italiani sono tra i più bassi d’Europa. Cresce di pari passo
l’autonomia sindacale dai partiti. Va in crisi il collateralismo della Cisl rispetto alla
Democrazia cristiana, si allenta la cinghia di trasmissione che lega la Cgil al Partito
comunista, le confederazioni avviano un confronto con il governo su un vasto programma di
riforme economico-sociali: qualcuno parla addirittura di supplenza sindacale al sistema dei
partiti”
18
.
Una rinnovata capacità contrattuale e rappresentativa che viene in qualche modo sancita nella
primavera del 1970 dall’approvazione, in Parlamento, dello Statuto dei lavoratori, contenente una
serie di norme a garanzia della libertà sindacale e dei diritti dei lavoratori all’interno delle aziende.
E’ proprio nel 1974, tuttavia, che il mutamento socio-culturale sin qui delineato, specie con
riferimento al rapporto con i partiti, ha per la prima volta anche un chiaro riscontro politico alle
urne. E non a seguito di una consultazione elettorale politica, ma di un “semplice” referendum,
quello per l’abrogazione della legge sul divorzio che era stata introdotta tre anni e mezzo prima a
firma degli onorevoli Fortuna e Baslini e con l’appoggio del Pci e del Psi oltre che dei partiti laici.
La campagna referendaria, la cui fase culminante peraltro coincide con la prigionia del giudice
Sossi, si trasforma sin da subito in uno scontro duro e quanto mai politicizzato tra il partito degli
“abrogazionisti” e quello dei “divorzisti”, come ben presto la stampa li definisce. Il primo è
energicamente guidato dalla Democrazia cristiana, specie dopo che il suo leader Amintore Fanfani
vi ha intravisto la possibilità di un rilancio politico del partito, e di esso fa parte anche il Movimento
sociale italiano. Per contro il gruppo dei sostenitori della legge, gli stessi che l’avevano votata in
Parlamento nel 1970, non vede una posizione forte da parte del Partito comunista, che anzi affronta
la campagna con qualche esitazione. Da un lato sono già presenti gli esordi di quella politica di
ravvicinamento duraturo alle forze cattoliche, definita del “compromesso storico” da Enrico
Berlinguer; dall’altro, la sensazione che intimorisce il leader del Pci è la stessa che anima i comizi
di Amintore Fanfani: l’Italia non sembra affatto pronta ad una simile battaglia civile.
18
S. Zavoli, La notte cit., p. 36.
Capitolo I Lo “strabismo” dei media
16
E’ tale errore di valutazione ad imporsi in tutta la sua evidenza tra il 12 e il 13 maggio, quando le
urne consegnano ai divorzisti una vittoria chiara quanto inattesa, nei numeri, alla vigilia. A votare
no sono quasi il 60 per cento degli elettori a fronte di poco più del 40 per cento dei favorevoli
all’abrogazione.
Tabella 1
19
– Referendum abrogativo della legge sul divorzio (12-13 maggio 1974):
Totale schede valide Percentuale
Votanti 32.295.858 87,7 %
Si 13.157.558 40,7 %
No 19.138.300 59,3 %
Del resto, da un punto di vista politico (sul cui versante, peraltro, era stato indirizzato lo scontro), il
risultato del 12 maggio rappresenta una forte sconfitta per la Democrazia cristiana, specie se
paragonato a quello maturato dalle politiche del 1972, quando il blocco Dc-Msi (i futuri
abrogazionisti) aveva guadagnato nel complesso oltre il 47 per cento dei voti sia alla Camera che al
Senato.
Tabella 2
20
– Elezioni per la Camera dei deputati (7 maggio 1972):
Partito Voti di lista Percentuale (%) Seggi
Dc 12.919.270 38,7 266
Pci 9.072454 27,1 179
Psiup 648.763 1,9 -
Psi 3.210.427 9,6 61
Msi-Dn 2.896.762 8,7 56
Psdi 1.717.539 5,1 29
Pli 1.297.105 3,9 20
Pri 954.597 2,9 15
Ppst-Svp 153.764 0,5 3
Gruppo prog. 32.192 0,1 1
Altre liste 511.906 1,5 -
Tabella 3
21
– Elezioni per il Senato della Repubblica (7 maggio 1972):
Partito Voti di lista Percentuale (%) Seggi
Dc 11.466.701 38,1 135
Pci-Psiup 8.475.141 28,1 94
Psi 3.225.804 10,7 33
Msi 2.737.695 9,1 26
Psdi 1.613.603 5,4 11
Pli 1.316.058 4,4 8
Pri 917.989 3,0 5
Ppst-Svp 102.018 0,3 2
Gruppo prog. 29.667 0,1 1
Altre liste 230.230 0,8 -
19
B. Bongiovanni e N. Tranfaglia (a cura di), Dizionario storico dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 1007-
1009; A. Chimenti, Storia dei referendum, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 208-209.
20
G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia, Laterza, Roma-Bari, 1999, 6, p. 712.
21
Ibidem, p. 712.
Capitolo I Lo “strabismo” dei media
17
Ma è proprio tale nesso a rivelarsi fuori luogo e controproducente, come constata lo storico Piero
Ignazi:
“Il tentativo di politicizzazione estrema del conflitto – ‘chi vota no all’abrogazione vota per il
comunismo’ strilla l’ultimo appello al voto del Msi, mentre a sinistra si rinverdisce la
campagna anti-Fanfani già montata nelle elezioni presidenziali del 1971 – fallisce perché sulle
logiche di schieramento prevale la scelta sul tema. […] Il referendum muta la relazione tra
partiti ed elettori perché, per la prima volta dal 1946, il voto non è connesso alla presenza
diretta dei simboli di partito né stimolato dall’iniziativa dei candidati. […] Il referendum
esalta il voto di opinione, potenzialmente libero da vincoli partitici”
22
.
Del resto il risultato referendario non altera gli equilibri politici, pur presagendo l’avanzata del Pci
che si sarebbe delineata nel biennio ’75-’76. E’ però un importante banco di prova per la società
italiana, un punto di svolta decisivo nei costumi e nelle opinioni che avrebbe decretato la fine del
dopoguerra anche da un punto di vista culturale, come hanno avuto modo di notare gli storici
Giovanni Sabbatucci e Paul Ginsborg:
“Il netto successo dei divorzisti […] mostrò chiaramente che la società italiana era cambiata,
che il ruolo della donna non poteva più essere confinato nella difesa della famiglia, che il peso
della Chiesa come ispiratrice della vita privata dell’individuo era fortemente
ridimensionato”
23
.
“Il processo di modernizzazione della società italiana aveva trasformato anche le opinioni e i
valori correnti. […] La destra cattolica era stata la prima ad invocare l’istituto del referendum,
ma questo gli si rivoltò contro in un modo del tutto inaspettato”
24
.
Qualcosa di negativo per il futuro sviluppo socio-politico italiano, tuttavia, il referendum lo mette in
evidenza. La politica del “muro contro muro” tra divorzisti e abrogazionisti, sebbene abiurata come
perdente dai risultati elettorali, dà però la cifra dell’endemica radicalizzazione che lo scontro
politico ha subito in Italia negli anni ’70.
Sostiene Vittorio Vidotto:
“Cosa possono avere in comune la rivolta di Reggio Calabria del 1970 e il femminismo, le
Brigate Rosse e le occupazioni studentesche, la mobilitazione sindacale e il terrorismo diffuso,
se non appunto le forme dell’antagonismo radicale e una base di consenso sociale, talora
circoscritta ma mai esigua, che testimonia di un’Italia irreconciliata e conflittuale? La stessa
stagione dei referendum che inizia nel 1974 certifica questa realtà […] per la procedura
antagonistica che ne costituisce il fondamento”
25
.
In fondo, il ’74 non inizia bene per quello che riguarda la buona immagine dei partiti politici. Il 1°
febbraio la magistratura apre un’inchiesta sui fondi utilizzati da alcune società petrolifere per
indirizzare a loro favore la politica del governo in campo energetico. Vengono indagati ex ministri
sia democristiani (Valsecchi) che socialdemocratici (Ferri). A seguito di ciò, il Parlamento si
preoccupa di varare velocemente la legge sul finanziamento pubblico ai partiti in proporzione alla
propria presenza in Parlamento. La legge viene approvata, contrario il solo Pli, il 17 aprile, appena
un giorno prima del rapimento a Genova di Sossi. Tuttavia ciò non basta a placare il disappunto
suscitato nell’opinione pubblica
26
.
Il nero muove
Intanto, per usare un’espressione mutuata da Sergio Zavoli, sulla scacchiera del terrorismo interno
22
P. Ignazi, I partiti e la politica dal 1963 al 1992, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia cit., pp.
154-155.
23
A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, L’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1996, 2, p. 1346.
24
P. Ginsborg, Storia d'Italia cit., p. 473.
25
V. Vidotto, La nuova società, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia cit., p. 68.
26
P. Ginsborg, Storia d'Italia cit., p. 470.
Capitolo I Lo “strabismo” dei media
18
proprio in quest’anno fa la propria mossa anche il “nero”
27
. Dopo meno di una settimana dal rilascio
di Sossi, il 28 maggio a Brescia, in piazza della Loggia esplode una bomba durante una
manifestazione sindacale, uccidendo otto persone. Il giorno dopo in tutta l’Italia, colpita
dall’escalation di violenza e, come vedremo, ancora incapace di distinguere le opposte trame
eversive per via dello stesso strabismo dei media, si svolge uno sciopero generale contro il
terrorismo. Un altro ordigno esplode il 4 agosto sul treno Italicus in viaggio da Roma a Monaco di
Baviera, uccidendo dodici persone e ferendone oltre cinquanta. Parallelamente, a Padova, il giovane
magistrato Giovanni Tamburino conduce un’inchiesta che lo porta a distinguere i legami tra forze
armate e servizi segreti con l’organizzazione neofascista “Rosa dei Venti”, istituita in previsione di
un colpo di Stato. In ottobre Tamburino ordina l’arresto del generale Vito Miceli, ex capo del Sid.
L’inchiesta viene trasferita repentinamente dalla Corte di Cassazione alla magistratura romana e, di
fatto, insabbiata.
Il momento nero della stampa periodica italiana
Tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974 inizia a raggiungere anche l’Italia la crisi economica dovuta
allo “shock petrolifero” internazionale. La decisione dei paesi arabi produttori di quadruplicare in
un sol colpo il prezzo dell’“oro nero”, a seguito della guerra arabo-israeliana, provoca anche in casa
nostra un brusco calo della produzione industriale. Lo spettro della recessione, peraltro, trova
terreno fertile in un paese già minato dall’enorme crescita della spesa pubblica e da un persistente
ristagno produttivo, dovuto in parte anche alla costante conflittualità sindacale. Del resto, sono
questi gli anni in cui l’inflazione galoppa ad una media di oltre il 20 per cento annuo e in cui la
parola d’ordine dei governi di Giulio Andreotti (’72-’73) e Mariano Rumor (’73-’74) è “austerity”.
“L'italiano si chiede quanto durerà quest’inopinato ‘revival’ del tempo di guerra, con usi,
costumi e paesaggio urbano degli anni Quaranta; con l’auto diventata un lusso (persino le
utilitarie sono tassate), le città oscurate, il riscaldamento problematico, la disagevole
riconversione degli svaghi, e la coda ai negozi che vendono il semplice zucchero. In più deve
sorbirsi tanti ‘appelli patriottici’ che invitano allo spirito di sacrificio” (www.cronologia.it).
In tale contesto un settore più degli altri appare in seria difficoltà ed è proprio quello della carta
stampata. Tra il 1965 e il 1975 i mensili diffusi sul suolo nazionale passano da 2579 a 2466, i
settimanali da 606 a 512, i quotidiani da 117 a 105, toccando l’abisso di 76 nel 1972. Per di più
nello stesso anno i fogli a diffusione nazionale vengono a trovarsi “concentrati” per l’ottanta per
cento nelle mani di quattro soli gruppi finanziari: Ifi-Fiat, Monti, Eni e Sir-Rumianca
28
.
Tabella 4
29
– Periodici pubblicati in Italia (1965-1975):
Anni Quotidiani Settimanali Quindicinali Mensili Plurimensili Altro Totale
1965 117 606 586 2579 3116 436 7705
1970 114 587 685 2726 3290 417 8118
1975 105 512 603 2466 2632 891 7514
In generale la prima metà degli anni ’70 appare come il periodo più buio per l’editoria periodica
italiana. I motivi? A livello economico sembra ormai schiava dell’“assistenzialismo” statale e
incapace di far fronte da sola ai costi di produzione. A tale conclusione giunge l’indagine
conoscitiva sui problemi dell’informazione a mezzo stampa, inaugurata dalla Commissione Affari
Interni della Camera dei deputati il 9 ottobre del 1973 e conclusasi il 17 aprile 1974, anche qui un
giorno prima del sequestro Sossi.
Ma c’è di più, come nota già nel 1971 l’allora segretario della Democrazia cristiana Flaminio
27
S. Zavoli, La notte cit., p. 417.
28
U. Bellocchi, Storia del giornalismo italiano, Edison, Bologna, 1980, 7, p. 341.
29
Istituto Centrale di Statistica, Sommario di statistiche storiche 1926-1985, Istat, Roma, 1986, p. 98.