9
molto tempo, ossia la seconda metà del Novecento, affinché il secolare braccio di ferro fra
sovrani ereditari e democrazia liberale approdasse al suo esito naturale.
Negli ordinamenti giuridici nei quali il Capo dello Stato non è più di estrazione ereditaria si
apre la problematica di come egli possa trovare piena legittimazione popolare, se attraverso
forme dirette o indirette di elezione, in modo particolare nei sistemi istituzionali organizzati
secondo una delle diverse varianti del governo parlamentare; quest’ultimo, infatti, dopo aver
posto la Magistratura come un ordine autonomo ed indipendente, si caratterizza, secondo una
efficace formula tradizionale, per il fatto di poggiare su due poteri, esecutivo e legislativo, e
tre organi, Capo dello Stato, Governo e Parlamento, e, tenendo presente che anche all’epoca
del primo costituzionalismo, cioè a cavallo fra Settecento e Ottocento, fu proprio il potere
esecutivo ad essere più a lungo riconosciuto come perdurante prerogativa regia, ecco che nelle
forme repubblicane il Capo dello Stato rappresentativo o esercita direttamente il potere
esecutivo, come nel caso delle forme di governo presidenziali e direttoriali, su tutti valga
l’esempio degli Stati Uniti d’America, oppure all’esercizio del potere esecutivo in qualche
modo concorre.
In Italia, la figura del Capo dello Stato, dai tempi dello Statuto albertino fino alla Costituzione
del 1948, non si è sottratta al destino comune di tutte le Costituzioni parlamentari europee, e
con riferimento in modo particolare all’avvento del sistema repubblicano, non si è saputo
risolvere definitivamente la questione della strutturale ambiguità e dell’implicito dualismo
della compresenza, nello stesso ordinamento, di un Presidente della Repubblica e di un
Governo, col suo Presidente del Consiglio, quali organi costituzionali distinti l’uno rispetto
all’altro. Anche la dottrina ha trovato non poche difficoltà a sviscerare fino in fondo la natura
e la funzione del ruolo di Capo dello Stato, giudicata la più enigmatica e sfuggente fra le
cariche pubbliche previste dalla Costituzione: un po’ notaio, un po’ arbitro, un po’ capitano,
acquistando una centralità, specie negli ultimi 25 anni, alla quale i padri costituenti non
avevano davvero pensato. Infatti, le difficoltà incontrate dagli studiosi nella ricostruzione
della posizione costituzionale del Presidente della Repubblica risalgono proprio alla già
sintetica formulazione con cui la Costituzione stessa riassume le sue funzioni, qualificandolo,
appunto, Capo dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale; Stato e Nazione appaiono,
quindi, come due polarità opposte, verso le quali il Presidente sembra inesorabilmente attratto
ma tra le quali non può fare a meno di oscillare continuamente, nell’impossibilità di essere
integralmente assorbito nell’una e nell’altra. Chiamato, contemporaneamente, ad immettersi
nella sfera della statualità e in quella della socialità, il Presidente della Repubblica italiana è
apparso l’indecifrabile protagonista di una vicenda inafferrabile; non è casuale, dunque, che
10
la dottrina, abbandonata l’idea che le norme costituzionali sul Presidente disegnino un
“armonico circolo”
2
, oscillino tra posizioni meno accentuative della funzione di
rappresentanza dell’unità nazionale e posizione meno accentuative della qualificazione di
Capo dello Stato, nell’apparente impossibilità di giungere a conquistare un’invisibile
concordia oppositorum”. Tuttavia, più ancora che nelle parole della Costituzione, le difficoltà
si annidano soprattutto nella lettura che la dottrina ne ha proposto, specialmente in
riferimento alla formula della rappresentanza dell’unità nazionale; infatti è attorno a questo
concetto che si esplicano anche le diverse attribuzioni relative alla tipologia degli atti
presidenziali, entro un quadro sistematico che da decenni segna la teoria e la pratica
istituzionale.
Quindi, l’oggetto e lo scopo di questa tesi di laurea non è certo la pretesa di fare ciò che a
illustri studiosi è risultato arduo, ovvero sciogliere l’enigma del ruolo presidenziale nella
Repubblica italiana, bensì tentare di fornire gli elementi fondamentali e caratterizzanti la
figura del Capo dello Stato, con particolare attenzione alla tipologia degli atti presidenziali,
previsti direttamente dalla Costituzione o da leggi ordinarie, nel tentativo, spero il più
esauriente possibile, di comprendere meglio l’incidenza e il forte ruolo di garanzia giuridica e
democratica del Presidente della Repubblica, unico organo costituzionale monocratico, cioè
non collegiale, costituito da un’unica persona, dotato di poteri di controllo che non sono mai
ultimativi e questo evidenzia come i Costituenti, ammaestrati dalle esperienze istituzionali
precedenti, sapessero bene che il rischio della tirannide si annida, seguendo le ammonizioni
degli antichi greci, in una non-qualità personale, e cioè nella “ibris”, la tracotanza.
E’, inoltre, utile sottolineare anche l’indispensabile funzione di rappresentazione dell’unità
nazionale, negli ultimi tempi, grazie soprattutto al forte impegno del Presidente Ciampi,
tornata in primissimo piano; l’unità nazionale, in quanto unità costituzionale, si è
concretizzata nella Costituzione del 1948, che preesiste all’azione del Presidente, il quale è
proteso in una azione istituzionale di approfondimento e di diffusione, nel corpo sociale, delle
ragioni e delle radici dell’unità. In altre parole, si vuole sottolineare che il Presidente non è
chiamato ad istaurare un collegamento con l’opinione pubblica che gli permetta di sondare gli
“umori profondi” del Paese ma egli deve trasmettere il senso dell’unità nazionale e
dell’appartenenza ad unica comunità.
Il Presidente della Repubblica, come è noto, non è assimilabile alla figura del Capo dello
Stato della tradizione monarchica, incarnazione e personificazione dello Stato medesimo; egli,
2
GUARINO, Il Presidente della Repubblica italiana, note preliminari, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”,
1951, ora in “Dalla Costituzione all’Unione Europea”, Napoli, 1994.
11
infatti, è Capo dello Stato solo in quanto i fili delle diverse attività istituzionali debbono
essere intrecciati in una trama coerente, in quanto, dunque, debbono avere un capo. Da questo
punto di vista, al Presidente spetta il compito delicato di rimediare alle possibili inerzie del
circuito Governo-Parlamento, di assicurare che i rotismi istituzionali funzionino e siano bene
oliati, di sorvegliare che ogni organo politico esplichi appieno le proprie potenzialità senza
pregiudicarne altre, di garantire che la democrazia pluralistica funzioni secondo la logica che
le appartiene in modo inconfondibile. Sulla base di ciò, quindi, il Presidente non deve restare
confinato nei “palazzi della politica”; se, infatti, in quei palazzi egli deve aggirarsi
nell’esercizio delle sue funzioni, il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale lo spinge ad
uscirne: non al fine di ottenere dai cittadini un consenso personale che non aggiungerebbe
nulla alla piena legittimazione che già da sé gli attribuisce la Costituzione, né per condurre per
mano la “gente” verso nuovi approdi costituzionali, ma per rinsaldare, nella mutevolezza e
temporaneità delle vicende politiche, il disegno costituzionale delle istituzioni.
Nel percorso di questo lavoro sarà indispensabile un approccio integrato ed interdisciplinare,
oltremodo necessario quando, come nel caso in esame, si studia l’organizzazione giuridica del
potere e l’oggetto è appunto l’istituzione che, per certi versi, eccede il mondo giuridico e si
colloca su una dimensione alta e nobile di rappresentazione dello Stato-Nazione, con le nuove
implicazione dovute all’appartenenza anche ad una comunità più grande, transnazionale, ossia
l’Unione Europea.
Il piano di questa tesi è dunque questo: nel primo capitolo, si vedrà come è stata posta, in
chiave di evoluzione storico-istituzionale, la questione del ruolo del Capo dello Stato a partire
dalla Rivoluzione francese in poi, per comprendere quale modello concettuale si andava
affermando in Europa, grazie all’ausilio e all’esposizione del pensiero di autorevoli giuristi e
politologi, fino all’affermarsi della tradizione costituzionale comune europea; in questo
quadro, si rileggerà la vicenda costituzionale italiana attraverso le caratterizzazioni dello
Statuto albertino, presentato in chiave sia giuridica sia storica, per giungere alla nascita della
Costituzione repubblicana, illustrando l’ampio dibattito svoltosi in Assemblea Costituente
intorno al ruolo da assegnare al Capo dello Stato; quindi seguirà una presentazione generale
del Presidente della Repubblica nel disegno costituzionale del 1948, seguendo anche le
indicazioni fornite dalla legislazione ordinaria e dalla giurisprudenza successiva.
Al termine di questa panoramica generale, l’attenzione si concentrerà sulla tipologia degli atti
presidenziali, dividendoli a seconda che questi riguardino la funzione legislativa, nel capitolo
secondo, la funzione esecutiva, nel capitolo terzo, e la funzione giurisdizionale ed
amministrativa, nel capitolo quarto. Durante questa dettagliata trattazione, accanto all’aspetto
12
giuridico e agli indispensabili riferimenti normativi, sarà dato ampio spazio alle vicende
storiche, alla prassi, ossia, al come, in concreto, nell’alternarsi degli episodi più significativi
di storia repubblicana, si siano attuate empiricamente le singole attribuzioni presidenziali
secondo l’interpretazione e l’agire che ogni singolo presidente ha fornito dell’alta carica
ricoperta.
Nel corso del capitolo quinto, inoltre, si è tratterà la questione della responsabilità
presidenziale, in base agli istituti previsti dalla Costituzione, prima fra tutte, la controfirma
ministeriale, e in base ad altri strumenti più informali, come le esternazioni, che la prassi
repubblicana ha visto affermarsi con sempre maggiore frequenza, colmando, di fatto, alcune
lacune dello stesso testo costituzionale.
In ultima, come conclusione il più possibile esauriente dell’elaborato, seguiranno tre
appendici: la prima presenterà le biografie personali ed istituzionali dei dieci Presidenti della
Repubblica italiana, da Enrico De Nicola a Carlo Azeglio Ciampi, ripercorrendone la
formazione, lo stile, il pensiero, il periodo storico contingente, tutti elementi indispensabili
per capire il modo con cui ognuno di essi ha voluto significare il proprio mandato
presidenziale; la seconda appendice, invece, avrà ad oggetto un argomento più di colore,
simpatico ma non meno rilevante per analizzare il significato della tradizione e del prestigio
del Capo dello Stato, ossia la storia, in via generale, del Reggimento Corazzieri, i maestosi
custodi della sicurezza del Presidente; infine, nella terza, verrà riproposta una copia, tratta
direttamente dall’originale, di una onorificenza, un esempio, quindi, di un atto ufficiale ed
autentico del Presidente della Repubblica.
Un lavoro, pertanto, che nel suo intento desidera considerare la complessità delle attribuzioni
presidenziali; la scelta di questo argomento mira a sottolineare come il ruolo di garante del
Presidente non sia un mero ornamento celebrativo e formale ma, al contrario, il necessario
punto di riferimento di un sistema parlamentare che, al di là di ogni divisione di parte, sappia
alla fine riunirsi attorno ad una figura che riassuma tutti i valori condivisi della Repubblica,
capace di consigliare, in modo attento e responsabile, le altre istituzioni ed anche di
ammonirle, qualora queste eccedano nella faziosità degli interessi, minacciando i principi
dello Stato di diritto. In ogni modo, l’esercizio di “tutela della Costituzione” non significa
mera e semplice custodia dello status quo; per quanto possa essere connaturato nell’esplicarsi
di tali funzioni un profilo intrinsecamente conservativo, il Capo dello Stato ha l’alto compito
di vigilare non solo sull’osservanza di regole procedurali, e principi di sistema, ma anche sulla
realizzazione e sulla piena attuazione delle singole norme costituzionali, secondo lo spirito e
la finalità della Costituzione stessa.
13
Il Presidente della Repubblica, secondo la prospettiva alta e nobile disegnata dai Padri
Costituenti, richiama attorno a sé l’intera comunità italiana, valorizzandone i valori, i costumi,
le tradizioni, le particolarità, frutto di una storia millenaria che ha visto alterne fortune e
grandi sacrifici, sia in termini umani che ideali, per giungere al compimento di una unità
giuridica e politica, al fine di trasmettere, nella sua integrità e solidità, il senso delle
istituzioni democratiche.
14
CAPITOLO PRIMO
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA NELLA COSTITUZIONE
1.1 EVOLUZIONE STORICA DEL CONCETTO DI “CAPO DELLO STATO”
L’idea che ogni gruppo politicamente organizzato a fini generali debba avere un “capo” è
ovviamente antichissima. Essa presuppone una ripartizione gerarchica di ruoli e funzioni
all’interno del “corpo” sociale, al fine, poi, di trovare legittimazione in concezioni organiche
della collettività sociali. A tal proposito sono da ricordare teorizzazioni assai risalenti nel
tempo, è il caso di Menenio Agrippa, nel suo celeberrimo apologo per ricondurre la plebe in
città, dopo la secessione dell’Aventino, oppure, con maggior forza, si ricordi Tito Livio, il
quale illustra come nei primi anni di Roma una moltitudine di genti, diverse per etnia, cultura,
estrazione sociale, si ritrovò a vivere insieme, e, a causa di ciò, Romolo, per fare di una
moltitudine un popolo, “iura dedit”
1
. In quella occasione, quindi, la legislazione e l’affermarsi
di un “capo” furono i momenti chiave nella costruzione dell’unità politica e giuridica di un
corpo sociale privo di salde e profonde radici: norme comuni, da tutti volontariamente
accettate, furono il robusto legame a posteriori di un’assente identità a priori di sangue, di
ideali, di tradizioni.
Tuttavia, la figura giuridica del Capo dello Stato è storicamente recente, è strettamente legata
alle origini di una istituzione statale che sia indipendente e suprema, ossia sovrana: quindi alle
origini dell’età moderna.
Agli inizi del XVI secolo, la questione che si pone consiste nel cercare una soluzione
definitiva al problema della dispersione dei centri decisionali, che aveva caratterizzato in
senso particolaristico l’epoca feudale. Lo Stato moderno viene alla luce con l’accentramento
del potere, con l’esigenza, sempre più pressante, di controllare i grandi apparati burocratici e
militari, il tutto unito alla necessità di garantire il mantenimento di unità nella direzione
politica. La migliore garanzia di questo nuovo modello politico risiede in una figura titolare di
poteri svincolati da qualunque limite, cioè sovrani. A tal fine, il monarca assoluto, in quanto
incarnazione visibile del potere, non può non essere Capo dello Stato; il re si occupava di
tutto: regolava l’amministrazione pubblica, e la vita economica, intellettuale, religiosa del suo
popolo.
1
TITO LIVIO, Storia di Roma, I-III, a cura di VITALI, Zanichelli, Bologna, 1974.
15
Come lo Stato non ammetteva divisioni, così il re non divideva il potere con nessuno ed
interpretava, lui solo, la ragione di Stato.
Il sovrano, non esercitava, però, un potere personale : Il fatto è che la sua persona era
considerata tutt’uno con lo Stato. Da qui la celebre frase, forse mai detta, che Luigi XIV,
appena sedicenne, avrebbe pronunciato, il 13 aprile 1655, davanti al Parlamento di Parigi, “lo
Stato sono io”. Alcuni re governarono mediante l’ausilio di propri ministri; ma proprio Luigi
XIV, dopo la morte del cardinale Mazarino ( 9 marzo 1661), applicò una forma di esercizio
personale e diretto del potere, la cosiddetta rivoluzione monarchica.
La novità non consisteva tanto nel proclamare il fondamento divino del re, quanto nel
concepire Dio come la garanzia trascendente dell’elezione del re. La persona regia era sacra, a
partire dal momento in cui giurava di servire il bene dello Stato, non il bene comune, come
colui che solo a Dio deve rendere conto, l’irresponsabilità era totale a tal punto da poter
parlare di inviolabilità. Il re faceva la legge, era l’unico a poter creare diritto, era al di sopra
della proprietà e della libertà, applicando la terminologia moderna, il sovrano assoluto,
legibus absolutus, assommava in sé i tre poteri legislativo, esecutivo, giudiziario.
Inevitabilmente, la posizione del Capo dello Stato esce rivisitata dagli eventi epocali
intervenuti nella seconda metà del XVIII secolo, le rivoluzioni americana del 1776 e francese
del 1789. Riguardo a quest’ultima, sarà sottratto al re la sua legittimazione divina,
trasformandolo da re di Francia in re dei francesi. Pur mantenendo la sovranità e il ruolo dello
Stato, La Rivoluzione rese il re non più veramente sovrano poichè ora la sua legittimazione
derivava dalla volontà della nazione. Con l’affermarsi dello Stato di diritto, il fondamento del
comando risiede in un ordine normativo non trascendente, ogni organo politico deriva la sua
legittimità dal principio di sovranità popolare, sicchè qualunque potere, secondo un sistema di
pesi e contrappesi, risponde del suo operato ad altri poteri. L’Inghilterra aveva conosciuto
questo passaggio circa novant’anni prima, quando Guglielmo III d’Orange, chiamato a
intervenire dal parlamento inglese nella lotta contro la pretesa di Giacomo II di restaurare il
potere assoluto, dopo essere stato incoronato il 13 febbraio 1689, si impegnò con una
dichiarazione dei diritti, “Bill of Rights”, a riconoscere le prerogative del parlamento come la
regolamentazione dei poteri del sovrano, il controllo delle spese, la competenza sulle finanze
statali e l’obbligatoria convocazione periodica dell’assemblea. Nel 1701, poi, l’approvazione
dell’”Act of Settlement” riaffermò la responsabilità di ministri e giudici nei confronti del
parlamento e la competenza di quest’ultimo nello stabilire i criteri di successione al trono.
16
Tornando alla situazione francese post-rivoluzionaria, si nota che ora la nazione sovrana
parla solo attraverso i propri rappresentanti: infatti, l’Assemblea si affermava come l’organo
legittimato ad esprimere la più alta volontà dell’ordinamento. Nondimeno, la monarchia,
seppur profondamente trasformata, non fu messa in discussione nella prima fase
rivoluzionaria. La Prima Repubblica (1792-1804) non sarebbe durata molto; alla ricerca della
stabilità si sarebbe trasformata prima in consolato, poi nell’Impero Napoleonico (1804-1814),
al quale sarebbe seguito la lunga fase della Restaurazione (1815-1830), e un nuovo lungo e
difficile periodo di tensione tra legittimismo e libertà (1830-1848).
Tra il 1792 e il 1814, dunque, in Francia avviene l’approdo alla monarchia costituzionale che
si caratterizza per la sottrazione al re della sua legittimazione divina e per l’affermazione della
volontà del Parlamento. Comincia, allora, il conflitto politico intorno al ruolo e alla figura del
Capo dello Stato e non mancano tentativi di ritorno al passato: lo mostrano le vicende del
secondo periodo della Restaurazione, con la quale si inaugura la fase orleanista, offrendo il
trono al borbone cadetto Luigi Filippo d’Orleans.
A lungo termine, si passa da una separazione tendenzialmente rigida dei poteri, il
parlamento fa le leggi e il re governa con i suoi ministri, ad un netto superamento a causa
dell’ingerenza parlamentare sulla formazione del governo. In questo modo l’esecutivo è
chiamato a rendere conto alla Camera elettiva, dando inizio ad un controllo conteso tra corona
ed assemblea. Così, il parlamentarismo orleanista, nella concezione di fondo, si caratterizzò
per la sua natura dualista, nel senso che il governo rispondeva ora al re ora al Parlamento,
facendo nascere la formula della monarchia repubblicana, espressa anche dalle celebre frase
di Adolphe Thiers: il re regna ma non governa, secondo la quale, almeno teoricamente, il
primo ministro governa sorretto dalla fiducia del Parlamento, riservando al re, casomai, la
funzione di arbitro in casi di crisi.
Il maggior teorico dell’affidamento al re di una simile funzione di garanzia fu allora Benjamin
Costant , convinto che l’assetto costituzionale avesse bisogno di un potere neutro,” che si libra
al di sopra delle agitazioni umane”
2
, capace di arbitrare le fazioni in contrasto e di garantire
la libertà. Il ruolo della monarchia, quindi, sarebbe stato quello di impedire al governo di
occupare troppo potere ed evitare il ricorso alla violenza per impadronirsene. A tal fine alla
monarchia non bastava solo la auctoritas ma occorreva anche la potestas. L’istituzione regia
manteneva un ruolo centrale; Constant era convinto che in repubblica le divisioni avrebbero
prevalso, quindi, meglio il re ed il meccanismo ereditario.
2
CONSTANT, Principi di politica (1815), Editori Riuniti, Roma, 1982.
17
Tuttavia, in Francia, Luigi Filippo non si attenne a questo ruolo, rivendicando un suo
intervento concreto nella azione di governo; in generale, la vicenda è emblematica del
contrasto che sarebbe durato fino al primo dopoguerra del Novecento tra la figura del re,
rimasta preminente per funzioni, e coloro che ad essa negavano una corrispettiva preminenza
di funzioni. Dunque, in Europa, dalla seconda metà dell’Ottocento, le prevalenti concezioni
dottrinali del parlamentarismo lo vollero fondato due pilastri: il Parlamento sede della
rappresentatività nazionale e la Corona sede e garante dei supremi valori della nazione,
perciò, non è un caso che le prerogative che i sovrani più a lungo riescono a mantenere siano
legate a questo tipo di funzione, è il caso della politica estera e militare, della nomina del
governo, del potere di convocare e di sciogliere le assemblee.
1.1.1 CAPO DELLO STATO ED ETA’ CONTEMPORANEA.
C’è ora da chiedersi cosa rimanga del Capo dello Stato nell’età contemporanea, in un’epoca
segnata dall’espansione della democrazia in Occidente. Sicuramente rimane un grande
prestigio personale, una forte valenza simbolica che si concretizza in una preminenza
onorifica e cerimoniale. Tuttavia, tale ruolo non comporta necessariamente poteri di direzione
politica, così, in definitiva, il Capo dello Stato diviene uno degli organi costituzionali e, a
motivo di ciò, nel corso del Novecento, pensatori e studiosi autorevoli hanno visto questa
carica come complementare e non indispensabile ai fini della strutturazione dello Stato. Tra
questi, il grande giurista austriaco Hans Kelsen già teorizzava l’inopportunità che i nuovi
ordinamenti, all’indomani della Prima Guerra mondiale, si dessero un capo. A conforto della
sua posizione, lo studioso praghese richiamava la millenaria lezione di Platone. Il filosofo
dell’Accademia, nel III libro della Repubblica, spiegava il trattamento che lo Stato, deve
riservare al presunto “capo”, testualmente: “ noi lo riveriremmo come un essere sacro,
straordinario e piacevole; ma gli diremmo che un uomo così nella nostra comunità non esiste,
né deve esistere, e, dopo averlo profumato di mirra, lo scorteremo fino alla frontiera”.
3
Peraltro, proprio Kelsen era sostenitore dei limiti della maggioranza, non gli sfuggiva, infatti,
i rischi che potevano derivare da una concezione illimitata della legittimazione popolare del
potere: essere espressione di una maggioranza non doveva poter fare tutto. Kelsen credeva in
forme giurisdizionali di controllo del potere politico: di qui la necessità della rigidità della
costituzione e la proposta di istituire un tribunale costituzionale, il quale avesse il compito di
farla rispettare.
3
PLATONE, La Repubblica, libro III, fr. 398 a-b, trad. di G.Lonza.
18
In questo modo, il liberalismo democratico proponeva, in Europa, a garanzia della
costituzione, l’istituzione di tali corti rispetto all’affidarsi alla figura del Capo dello Stato,
repubblicano o monarchico che fosse.
Senza dubbio, la figura del Capo dello Stato repubblicano, all’inizio della sua storia, si
presenta come il sostituto funzionale del Capo dello Stato monarchico. In diversi
ordinamenti
4
, il presidente eredita le attribuzioni formali che aveva avuto il re, emblematico è
il caso della Repubblica di Weimar. Dopo la sconfitta, infatti, la monarchia era improponibile,
i costituenti tedeschi cercano un assetto istituzionale stabile, tenendo presente l’esperienza
della Terza repubblica francese. Si cerca, quindi, di fare del Capo dello Stato elettivo una
sorta di sostituto dell’Imperatore attraverso un equilibrio basato sulla pari legittimazione di
presidente e parlamento, in modo che l’uno controllasse l’altro, grazie al fatto che un
presidente fortemente legittimato dall’elezione diretta, con carica di durata settennale, dotato
di importanti attribuzioni
5
, avrebbe potuto ovviare alle debolezze della politica. L’idea,
quindi, di un presidente inteso come guardiano, tutore dell’ordinamento è affermata con forza
dal grande teorico del realismo politico- istituzionale, colui che costituì il contraltare di
Kelsen nel dibattito sulla dottrina dello Stato, ossia Carl Schmitt. Quest’ultimo, nella sua
opera “Il Custode della Costituzione”, affronta la questione riguardo chi possa garantire
l’unità dello Stato. Schmitt inizia la sua trattazione riprendendo la concezione del potere
neutro che risale a Constant
6
e ne sottolinea la rilevanza anche nella funzione di presidente
della repubblica, in quanto titolare di un’istanza mediatrice in grado di imprimere un carattere
unitario alla guida dello Stato, tutelando e proteggendo la costituzione, intesa non nel suo
significato di legge costituzionale, documento formalizzato, ma in quello di fondamento di
unità politica, di somma di determinazioni fondamentali non riformabili e non modificabili
dalle quale discende la legittimità di tutto il sistema. Per Schmitt, un compito del genere può
essere affidato solo ad un organo politico, il presidente, e non a un organo giurisdizionale, il
tribunale costituzionale, sostenuto da Kelsen, poiché difendere gli assetti politico istituzionali
di fondo è proprio di un decisore supremo, di una autorità ultima e superiore. A tal fine, la
costituzione di Weimar, e, in particolare l’articolo 48, che riguarda gli atti presidenziali in casi
d’emergenza sui quali Schmitt si sofferma a lungo, assegna al presidente il potere di creare
4
Nel 1920, in Europa, fra 30 Stati, gia 15 erano repubbliche. Oltre a Svizzera, Francia, Portogallo, si aggiunsero
Stati dove in alcuni casi si affermava per la prima volta l’indipendenza, come Cecoslovacchia, Finlandia, Paesi
baltici, Ungheria, Irlanda, Islanda, in altri, come Germania ed Austria, le monarchie non potevano restare a causa
della disfatta della Grande Guerra.
5
Tra queste: nomina e revoca del cancelliere e dei ministri, potere di scioglimento del Reichstag, poteri di
emergenza in casi particolari.
6
DE LUCA, Il pensiero politico di Constant, Laterza, Roma-Bari 1993.
19
diritto, emanando ordinanze e decreti sostitutivi della legge, per mezzo dei quali egli “cerca di
salvare di fronte ad un pluralismo anticostituzionale lo Stato legislativo, il cui corpo è diviso
pluralisticamente”
7
, ponendosi come vero rappresentante di unità e di omogeneità per tutto il
popolo tedesco. Questi concetti sono ribaditi da Schmitt anche in un suo scritto successivo
8
nel
quale sostiene il diritto del presidente di porsi come fonte del diritto, sospendendo, ove le
circostanze lo richiedessero, diritti fondamentali, come le libertà fondamentali, precisando,
tuttavia, che non ci si troverebbe in presenza di una dittatura. In realtà, i confini tra dittatura
commissaria o sovrana rischiano di diventare meno rigidi, disegnando un ruolo presidenziale
nel quale non c’è nulla della presunta neutralità di cui parlava Constant.
Come si vede la controversia sul ruolo del Capo dello Stato si fa sempre più viva, nel
complesso le ipotesi di esclusione di tale carica non sembra riscuotere molto successo nella
evoluzione storico-costituzionale degli ordinamenti statali moderni. La questione
dell’indispensabilità della carica non si pone quando essa esercita direttamente il potere
politico assieme alle assemblee elettive; è il caso degli ordinamenti statunitensi e francese. E’
infatti con la Costituzione americana che nasce quel tipico assetto di governo detto
“presidenzialismo”, dove, secondo l’opinione espressa da Hamilton nel Federalist
9
, la
qualifica di Capo dello Stato si afferma con forza anche come rappresentante dell’unità
nazionale. Oltralpe, invece, i poteri presidenziali sono più attenuati dalla presenza di un Primo
ministro che gode della fiducia dell’Assemblea nazionale: si parla, infatti, di
“semipresidenzialismo”.
Con particolare riferimento al sistema democratico-parlamentare, la questione è
ulteriormente complicata dall’espansione della forma istituzionale repubblicana che
contempla un Presidente investito nella carica dal Parlamento e dunque privo di un titolo di
legittimazione proprio.
Gli studiosi hanno ricostruito questo ruolo secondo fattispecie diversa che schematicamente si
possono riassumere così:
- secondo l’impostazione di Hugo Preuss
10
al Capo dello Stato sono sottratte forme di
determinazione politica, relegandolo a un ruolo simbolico e formale, con compiti
essenzialmente dichiarativi;
7
SCHMITT, Il custode della Costituzione, pp.180-191, Giuffrè, Milano, 1981.
8
SCHMITT, Il significato e il valore giuridico dei decreti di emergenza, 1931.
9
HAMILTON, JAY, MADISON , Il Federalista (1788), Giappichelli, Torino, 1997.
10
PREUSS, Stato, Diritto e Libertà, Mohr, Tubingen, 1926.
20
- secondo Walter Bageot
11
si tratta dell’esercizio di un potere intermediario che vigila e
modera i poteri attivi di indirizzo, senza assumere, tuttavia, concrete decisioni
politiche, la cosiddetta magistratura di influenza;
- secondo Barile
12
il Capo dello Stato esercita effettive potestà di controllo della
maggioranza parlamentare, nell’attuazione di fini e scopi costituzionali;
- secondo Esposito
13
il Presidente della Repubblica, nella sua veste di supremo garante
dell’ordine statuale, nelle situazioni di necessità diviene “reggitore” dello Stato al fine
di risolvere le crisi di sistema.
Infine, solo apparentemente radicata al controverso modello neutrale sopra illustrato, in realtà
aliena da esso per il rifiuto della concezione ontologica dello Stato che vi è coessenziale, sta
un’altra opinione che è comunque palesemente agli antipodi dell’ultima versione esposta, cioè
quella di un Presidente della Repubblica “garante” delle norme procedurali che disciplinano le
relazioni fra organi politicamente attivi. Si tratta, quindi, di un Presidente che sia arbitro delle
regole di un gioco condotto dai partiti all’interno delle istituzioni, in un intreccio di
mediazione regolato dal principio di maggioranza. A questo ruolo è ricondotto, analogamente
a quanto avviene in altra democrazie parlamentari, il Presidente della Repubblica italiana.
Si vedrà ora il caratterizzarsi della figura del Capo dello Stato in Italia, partendo dallo Statuto
albertino fino all’approdo della Costituzione repubblicana del 1948.
11
BAGEOT, La Costituzione inglese (1867), Il Mulino, Bologna, 1995.
12
BARILE, CHELI, GRASSI Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1998.
13
ESPOSITO, Capo dello Stato, in Enciclopedia del diritto, VI, Giuffrè, Milano, 1960.
21
1.2 IL CAPO DELLO STATO IN ITALIA: DALLO STATUTO ALBERTINO
ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE.
A differenza di quanto accadde nel 1948 per la Costituzione Repubblicana, frutto del lavoro
di un’assemblea costituente direttamente eletta nel 1946, lo Statuto fondamentale del Regno
di Sardegna venne concesso per iniziativa del re Carlo Alberto di Savoia-Carignano e
promulgato, durante la “primavera dei popoli”, il 4 marzo 1848.
Lo Statuto sardo, detto anche albertino, ricalca fedelmente il testo promulgato dal re Luigi
XVIII di Borbone nel 1814, all’atto di salire sul trono francese dopo la sconfitta di
Napoleone, e fu scelta la definizione di “Statuto e legge fondamentale” e non “costituzione”
probabilmente per attenuare e ridimensionare i legami con la tradizione costituzionale
americana e francese già vecchia di un sessantennio
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. Resta, tuttavia, da aggiungere che, al
pari del modello francese del 1814, lo Statuto Albertino è una costituzione “breve”,ossia
caratterizzata da un numero ridotto di articoli, dettanti disposizioni sintetiche e generaliste, e
da una notevole “flessibilità”, essendo di fatto derogabile da qualunque legge ordinaria.
Quindi, più che una vera “legge fondamentale”si trattò di un manifesto programmatico
sovrano, gli articoli dedicati alla Corona sembrano far blocco a se stante, facendo apparire
marginali i titoli residui benché questi, riguardanti le Camere e i diritti dei sudditi, fossero
stati presentati come fondanti il nuovo diritto pubblico sardo-italiano.
1.2.1 LE PREROGATIVE DEL RE
Tra i ventitré articoli relativi al re, alla sua famiglia, alla successione al trono, emerge per
importanza il blocco costituito dagli articoli 2-10 e anche in questo caso si trattava della
traduzione pressoché letterale di disposizioni francesi. Il monarca era, dunque, contitolare del
potere legislativo (art. 3), titolare unico del potere di sanzionare e promulgare le leggi (art. 7),
gli era attribuito il potere di scioglimento della Camera elettiva e di proroga delle sessioni
parlamentari (art. 9), in tal modo la vita del Parlamento era lasciata alla mercè della
prerogativa regia, senza che il Presidente del Consiglio potesse intervenire.
In particolare, l’articolo 5, integrato dagli articoli 6 e 65 che davano base legale a tutte le
nomine regie, attribuiva al Capo dello Stato la totalità del potere esecutivo, nomina e revoca
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Carlo Alberto, durante i lavori del Consiglio di Conferenza, il 3 febbraio 1848, si era affrettato a dichiarare
che”si avesse cura di non imitare le altre nazioni in modo servile”.
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dei ministri (art. 65), nomina di tutti i senatori (art. 33) e dell’ufficio di presidenza del Senato
(art. 35) in un regime di irresponsabilità garantito dalla previsione della inviolabilità della
persona del re (art. 4). Lo Statuto prevedeva la necessità della firma ministeriale alle”leggi e
agli atti del governo”(art. 67), nulla aggiungendo sui rapporti istituzionali tra re e ministri, di
fatto determinati dalla personalità del sovrano e dalla sua capacità di imporsi dei limiti.
L’articolo 5, infatti, non si limitava a definire genericamente il “Capo Supremo dello Stato”,
ma gli attribuiva il comando delle forze armate, la titolarità della dichiarazione di guerra, la
responsabilità della firma dei trattati internazionali, ponendo le basi per una politica regia
indipendente da quella ufficiale del governo. Durante le emergenze belliche, il re godeva di
una ampia delega legislativa che gli attribuiva pieni poteri caratterizzando il sistema
istituzionale sardo-italiano in modo divergente rispetto alla tradizione del governo
parlamentare.
Nell’esercizio di questi rilevanti poteri statutari è possibile, ad esempio, che il re assegni
contemporaneamente la formazione del governo a due uomini politici, Gioberti e Revel nel
1848, Rattazzi e La Marmora nel 1859; tolga la presidenza a Ricasoli nel 1862 e a Minghetti
nel 1864, senza preoccuparsi della loro base parlamentare; imponga Farini, Presidente del
Consiglio nel 1862, malgrado fosse malato di mente; nomini, nel 1859, Capo di Stato
Maggiore il suo Primo aiutante di campo, l’inetto generale Morozzo della Rocca; rifiuti al
governo Facta la gestione dell’emergenza e, quindi, la firma del decreto di stato d’assedio, il
28 ottobre 1922, offrendo a Benito Mussolini la guida della compagine ministeriale.
1.2.2 LA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI E LA PRESENZA DEL RE.
Lo Statuto Albertino non prevedeva la figura del Presidente del Consiglio dei Ministri, il re
presiedette spesso il Consiglio dei Ministri, le cui riunioni erano di due tipi: di discussione
preliminare, allora si faceva sostituire dal Presidente del Consiglio, e di discussione definitiva,
da lui stesso presieduta. Le contingenze storiche impedirono un rafforzamento di fatto del
Presidente del Consiglio: Cavour governò solo 8 anni, che gli permisero di delineare un ruolo
per questa carica, che non ebbe modo, a causa della sua prematura scomparsa, di trasformarsi
in consuetudine costituzionale; De Pretis avrebbe governato con continuità per 6 anni mentre
Crispi e Giolitti per meno di 4. A tal proposito, sintetizza bene Roberto Martucci, storico delle