II
temperamento illuminista si sposa così bene in Beyle con quello romantico. Ciò che
per gli altri appare una contraddizione, per Stendhal è solo una coincidentia
oppositorum. Stendhal cambia le carte del gioco; unisce immaginazione e senso della
realtà, logica e vaghezza, facendoli risultare due facce della stessa medaglia. Ciò sta
alla base della sua estetica, ma le radici di questo atteggiamento si trovano molto
lontano, già nella sua infelice infanzia. Beyle ha dovuto fin da giovane lottare per
contrastare l’aridità paterna, pronta a giudicare ogni suo slancio di immaginazione,
sintomatico di ogni temperamento artistico, come un sintomo di follia. E nella sua
follia romanzesca Stendhal ha cercato di preservarsi: “Vivevo solitario e pazzo come
uno spagnolo a mille leghe dalla vita reale”
1
, si ripete l’autore nei ricordi
autobiografici. Da questa prospettiva ha iniziato ad osservare il mondo e se stesso, ed
è sempre da qui che ha gettato le basi, se pur non del tutto ancora consapevolmente,
della sua futura vita artistica.
Stendhal ha scritto il suo primo romanzo a quarantatre anni. Se ciò può
sembrare strano, è anche vero che quella di diventare romanziere non fu affatto
un’illuminazione improvvisa. Stendhal, come suggerisce in maniera molto
convincente Michel Crouzet
2
, già per il solo fatto di essere un assiduo lettore, si
trovava all’interno dei problemi del romanzo prima ancora di scoprire la sua vera
vocazione. E le origini del suo pensiero estetico le troviamo già nell’infanzia, in quel
godere nascondendosi, in quel darsi dissimulandosi, che oltre a darci un’idea della
sua personalità, ci schiude le porte per un interpretazione coerente della sua opera.
1
Stendhal, Vita di Henry Broulard. Ricordi d’Egotismo, Adelphi, Milano 1964, p.11
2
M. Crouzet, Come e perché Stendhal è diventato romanziere, in Stendhal, Romanzi e
racconti, Mondadori, Milano 1996
III
Non è un caso che Adorno nella Teoria Estetica
3
citi più di una volta una
delle famose frasi stendhaliane, ovvero che la bellezza è promessa di felicità. Se
Stendhal nascondeva la felicità che una lettura divertente gli procurava, è perché in
tale felicità si nascondeva a sua volta qualcosa di più pericoloso: la perdita del senso
della realtà propria della dimensione ‘romanzesca’. Ma ancora di più, l’appassionato
lettore era già abbastanza scaltro da comprendere che tale felicità era apparente.
Chiuso il libro, si riaffacciava minacciosa la sua quotidianità. Perciò, per meglio
goderla, bisognava dissimulare questa felicità e tuttavia tale dissimulazione
conteneva un po’ di verità nella consapevolezza dell’apparenza, cioè della falsità di
ciò che faceva intravedere come vero. Il paradosso dell’arte è per Adorno proprio un
‘dire disdicendo’. Alla base di questo paradosso sta il concetto, anch’esso di
conseguenza paradossale, dell’autonomia dell’arte. Il concetto dell’ art pour l’art
contiene già in sé quello opposto della mimesis del mondo. L’arte può essere una
rappresentazione del mondo solo se è supposta la sua autonomia dal mondo; in altre
parole, l’arte solo dal proprio interno può riflettere il mondo. Un’arte che non fosse
consapevole di ciò, risulterebbe solo astratta e verrebbe meno al fine che si è
prefissata, ovvero quello di proporre una valida alternativa al ‘tutto vigente’.
L’autonomia dell’arte comporta allora che essa sia ad un tempo apparenza ed
essenza; vale a dire che solo manifestando la propria apparenza, il suo essere forma e
quindi finzione, può arrivare alla sua essenza.
Il concetto di autonomia dell’arte trova, a mio avviso, una sua conferma
proprio nel romanzo stendhaliano. Per Stendhal il romanzo è uno specchio che ci
portiamo dietro lungo la strada e che riflette indifferentemente il brutto e il bello
della realtà. Secondo questo punto di vista, allora il romanzo rispecchia la realtà
3
T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975
IV
senza operare scelte aprioristiche. Lo specchio è metafora della finzione letteraria
dalla quale, come un riflesso, si intravede la realtà. Ma lo specchio non è ovviamente
la realtà: è apparenza, cioè forma artistica e perciò stesso autonoma dalla realtà.
Georges Blin
4
a proposito dell’estetica dello specchio specifica che Stendhal
pone lo specchio sempre in una posizione privilegiata, come a riflettere le cose da
una prospettiva aerea. Questa altezza è propria, continua l’autore, dello spagnolismo,
termine utilizzato per definire il romanzesco stendhaliano (spagnolismo appunto
perché deriva dal Don Chisciotte di Cervantes). Il romanzesco si nutre di letture che
falsano la realtà, come le letture cavalleresche di Don Chisciotte, di modo che l’eroe
del romanzo crede che sia la realtà a non essere vera, ovvero la scambia per un
illusione. Di qui il necessario fallimento dell’eroe, che vede vanificato ogni sforzo di
conciliare il suo ideale con la realtà. L’originalità di Stendhal sta proprio infatti
nell’aver unito romanzesco e realtà, nell’aver capito che l’essenza dell’opera d’arte si
dà solo attraverso l’apparenza dello specchio. Ciò, secondo Crouzet, il romanziere lo
ottiene proprio radicalizzando il romanzesco nel reale, smascherando cioè
l’apparenza dell’opera d’arte e quindi della felicità che da questa deriva. Tale felicità
è, per dirla con Adorno, quel di più che trascende l’opera d’arte. In questo caso il
romanzo si dà come finzione letteraria e tuttavia, proprio nel manifestare la propria
apparenza, rivela un contenuto di verità. Stendhal scopre in questo movimento che
unisce romanzo e romanzesco, realtà e apparenza, ciò che rende la verità dell’arte, e
con essa della vita, proprio perché l’apparenza romanzesca si autodenuncia come
falsa. L’ironia, come insegna anche Lukács
5
, è il mezzo tramite il quale l’arte
smaschera se stessa. L’ironia smaschera il romanzo proprio manifestando la sua
4
G. Blin, Stendhal e les problèmes du roman, Ed. Josè Corti, Parigi 1954
5
G. Lukács, Teoria del Romanzo, Nuove Pratiche Ed., Parma 1994
V
apparenza. Secondo Peter Brooks
6
il romanzo denuncia l’artificilità della trama in
particolare nei finali; esemplari sono quelli di Stendhal in cui l’autore sembra aver
fretta di concludere.
In questa tensione tra dire e non dire, o meglio tra dire e disdire, l’arte
manifesta la propria verità. Una verità che ancora una volta non può che essere
paradossalmente una non verità, per il solo fatto che a dirla è l’apparenza, la finzione
della forma; allora possiamo affermare con Adorno che “le arti il loro contenuto di
verità lo hanno e non lo hanno”
7
. Ma cos’è questa verità? Per il filosofo tedesco la
verità è la soluzione dell’enigma dell’opera d’arte; è la risposta alla domanda: l’arte è
promessa o inganno? e la risposta è ancora una volta un paradosso: l’arte è la
promessa di un inganno; è “promessa di felicità, ma una promessa che non viene
mantenuta”
8
. L’arte promette ciò che non può promettere, altrimenti sarebbe
redentrice e mentirebbe spudoratamente; invece, proprio per il fatto che l’opera
d’arte sa di non poter mantenere la promessa, si salva. Bisogna quindi continuare a
sperare anche se non c’è più speranza. Bisogna continuare a fare arte perché solo
l’arte, dall’alto della sua finzione romanzesca, può dare la verità della vita.
Partendo proprio dalla formazione di Stendhal, attraversando la critica
artistica, fino ad arrivare ai problemi propri del romanzo, questo lavoro scaverà alla
ricerca della genesi, fin all’analisi del concetto di bellezza in Stendhal. Tale
concezione della bellezza come promessa di felicità farà da filo rosso all’intera opera
stendhaliana.
6
P. Brooks, Trame, Einaudi, Torino 1995
7
T. W. Adorno, Teoria estetica, op. cit., p.184
8
ivi, p.194
VI
Già abbiamo dato un breve accenno della prima infanzia di Stendhal, nella
quale l’allontanamento dal padre e il repentino avvicinamento alla famiglia materna
porta il giovane Beyle a crearsi quel mito di una nascita adottiva che non tarderà a
manifestarsi anche come desiderio di una nuova patria. La scelta di Stendhal cadrà
sull’Italia, che oltre ad essere il paese originario della madre, rappresenta
l’immaginario collettivo dell’amore, della vita, della felicità e quindi dell’arte.
L’italianità è condizione primaria della possibilità dell’arte. Così facendo Stendhal si
crea già la strada per la sua futura carriera artistica e, se comprende solo tardi la sua
vocazione di romanziere, le motivazioni sono proprio da far risalire a quel suo amore
appassionato per la lettura, che in Italia trova una sua realtà: in Italia non scrivono
romanzi, perché qui i romanzi si vivono
9
.
La felicità che lo colpiva come un’improvvisa evasione alla lettura di un libro
è la stessa che Stendhal ritrova nella pittura, in particolare nei quadri del Correggio.
Osservando i suoi dipinti, lo sguardo dell’osservatore passa dai primi piani, che per
Stendhal rappresentano la “prosaica realtà”, ai secondi piani, fino a perdersi nello
sfondo, dietro la linea tracciata dalle montagne. Stendhal considera la pittura un “arte
delle lontananze”
10
, lontananze dove l’immaginazione si perde in luoghi romanzeschi
che danno il miraggio di una felicità. Per far sì che ciò avvenga, l’osservatore si deve
trovare a un tempo fuori e dentro il quadro; ecco perché diciamo che il quadro ci
guarda. La rappresentazione del visibile, cioè delle linee e dei colori del dipinto, è ad
un tempo, “presentazione di se stessa”
11
, ovvero di ciò che in essa sfugge alla vista. È
quest’invisibile, in ultimo, la condizione di possibilità del visibile; è solo attraverso
9
Cfr. M. Crouzet, Come e perché Stendhal è diventato romanziere, op. cit., pp.CXXIX-
CXXX
10
Cfr. J.-P. Richard, Conoscenza e tenerezza in Stendhal, Rizzoli, Milano 1969
11
Cfr. G. Di Giacomo, Icona e arte astratta, Aesthetica Preprint, Palermo 1999
VII
quel frugare dello sguardo sulla tela che si può provare quella felicità evasiva di cui
parla Stendhal.
Per questo in un quadro è tanto importante l’espressione, perché solo questa
riesce a comunicare con l’osservatore. L’espressione di un quadro deve pertanto
rilevare lo stile di un pittore; stile che lo stesso Stendhal, seguendo i suoi maestri di
arti visive, riporta all’interno dei suoi romanzi. Lo stile implicito dell’autore
rispecchia coerentemente la concezione dell’arte come espressione, manifestando
inoltre quell’intento di nascondere il dicibile dietro un velo di silenzio che, più che
acquietare l’animo del lettore, lo turba.
Stendhal trasporta nei suoi romanzi il senso di quella felicità che ha
assaporato alle sue prime letture e che ha ritrovato nella contemplazione dei quadri
del Correggio. I suoi romanzi colpiscono, catturano e rapiscono tanto più che la
felicità che ne deriva, rimane intrappolata fra le pagine del libro.
L’estetica lukácciana riporta alla luce il tema della felicità apparente
attraverso la dialettica del senso e del non senso. Nel mondo abbandonato dagli dei
l’immanenza del senso, che caratterizzava il mondo greco, è andata perduta. La vita
nell’epoca attuale rimane abbandonata al non senso, alle “sue crepe e ai suoi abissi” e
la ricerca del senso, ovvero la ricerca della felicità, si è fatta problematica. La forma-
romanzo nasce proprio come esigenza di ricerca di questo senso perduto e Lukács,
attraverso le forme di questa ricerca, traccia una fenomenologia del romanzo
moderno. Nonostante le numerose affinità fra il romanzo stendhaliano e l’estetica
della Teoria del Romanzo, Stendhal non viene mai menzionato dall’autore. Il motivo
di questa assenza ingiustificata, tanto più che Lukács non poteva non conoscere un
autore della portata di Stendhal, è da riscontrarsi nella particolare fisionomia del
romanzo stendhaliano, che difficilmente si lascia rinchiudere in una sola delle
VIII
tipologie abbozzate da Lukács nella seconda parte del saggio. Se infatti il passaggio
dal romanzesco al romanzo comporta il trapasso dal romanzo del “l’idealismo
astratto” a quello del “romanticismo della disillusione”; l’analisi del tempo e dei
finali nel romanzo stendhaliano, porta quest’ultimo addirittura fuori dalla ‘linea-
Flaubert’
12
, la quale ammette la ricerca del senso solo nel romanzo, e lo rende
suscettibile di un’interpretazione che si avvicina di molto alla ‘linea-Dostoevskij’
13
,
che al contrario ricerca il senso nel non senso della vita.
Tipici sono i momenti di illuminazione che avvengono in una dimensione
atemporale. In questa zona, dove il tempo sembra fermarsi, i personaggi evadono
dalla loro vita; così facendo evadono dalla processualità del romanzo e si catapultano
fuori, in un romanzesco assoluto che, più che fuggire la realtà, sembra accettarla ad
un livello più profondo, in tutto il suo non senso.
Così anche la famosa frase sulla bellezza come promessa di felicità rende
ragione di quest’ultimo accostamento: la felicità, che deriva dal romanzo, è una
felicità apparente proprio perché vive nel romanzo, mentre la vita resta altra dal
romanzo e rimane abbandonata al suo non senso. Tuttavia, proprio perché nella vita
non c’è più speranza, bisogna continuare a sperare; bisogna continuare a credere alla
promessa che l’arte ci fa, perché solo l’arte può farci continuare a sperare; può, per
dirla con Adorno, farci scorgere una possibilità che riesca a contrastare ‘la signoria
del esistente’. La felicità che deriva dall’arte si prospetta allora come una delle
possibilità non dispiegatesi nell’esistente, una possibilità che è anche una speranza
per un mondo migliore.
12
Cfr. G. Di Giacomo, Estetica e letteratura, Laterza, Bari 1999
13
Ibid.
IX
2.2 Il sublime
Nella Storia della Pittura Stendhal descrive Michelangelo (quadro
6) come l’artista che più di tutti esprime “forza e terrore”
14
. Nel Giudizio
Universale ad esempio Michelangelo, continua l’autore, “non si è limitato
al genere non gradevole, ma è passato a quello terribile”
15
. Le opere di
questo grande artista infatti non danno piacere, piuttosto intimidiscono:
“Michelangelo sconvolge la nostra immaginazione sotto il peso della
sventura. Tocca il dolore”
16
.
Questo genere di sentimento si discosta dalla piacevole
contemplazione che fa evadere dolcemente la nostra immaginazione in
mondi lontani e getta invece l’animo in un turbine di sensazioni
spiacevoli, come paura, terrore, dolore, sconvolgendo per intero la nostra
immaginazione. Tale sentimento si avvicina molto a ciò che Edmund
Burke
17
chiama sublime. Stendhal conosceva l’opera di Burke, Ricerca
14
Stendhal, Storia della pittura in Italia, op. cit., p.83
15
ivi, p.379
16
ivi, p.392
17
Edmund Burke (1729-1797) filosofo inglese. Il suo nome è legato all’opera Ricerca
sull’origine delle idee di bello e sublime in cui l’autore presenta un’analisi del sentimento
del bello e del sublime, dando per la prima volta una organizzazione sistematica del dibattito
che aveva attraversato tutta la cultura inglese della prima metà del Settecento. In realtà
l’analisi del sublime, come sentimento che si distingue dal bello, aveva radici più lontane. In
un epoca incerta, fra il primo e terzo secolo dopo Cristo, in piena età ellenistica, comparse un
trattato anonimo, attribuito allo Pseudo Longino, intitolato proprio Sul Sublime e conosciuto
in tutta l’Inghilterra del tempo, dove si analizzava il sublime nell’arte oratoria. In Inghilterra
il dibattito sul sublime si intrecciava con quello della poesia sacra e soprattutto
nell’esaltazione della natura impetuosa. In Burke l’analisi del bello e del sublime si pone
come analisi delle passioni. Egli distingue nettamente il bello dal sublime, definendo
quest’ultimo come qualcosa che suscita terrore e insieme stupore; un piacere quindi che ci
X
sull’origine del Bello e del Sublime, nella traduzione in francese
18
, in cui
l’autore distingueva nettamente il sentimento del bello da quello del
sublime, definendo quest’ultimo come ciò che incute terrore e spavento.
Un sentimento, in definitiva, ‘terribile’, lo stesso che Stendhal prova di
fronte le opere di Michelangelo. Kant nella Critica della facoltà di
giudizio definisce il sublime come “un movimento che può essere
paragonato all’inizio ad uno scuotimento, vale a dire a un’attrazione e
repulsione del medesimo oggetto che si avvicendano rapidamente”
19
. Ciò
ha che fare con un piacere negativo, ovvero un piacere respingente, quasi
violento per l’immaginazione. Stendhal, abbracciando il sublime, estende
così il bello a tutto ciò che è tenebroso, fantastico e orrido, anticipando in
questo modo quello che sarà un gusto propriamente romantico. Infatti
Luigi Magnani scrive: “Si attua così il passaggio da una concezione
razionale e intellettuale dell’arte, quale era in voga preso le accademie
parigine dell’epoca, ad una naturalistica ed emotiva che porta Stendhal ad
avvicinare il sublime a Michelangelo”
20
.
respinge e ci attrae allo stesso tempo. Così si delinea un nuovo gusto, che anticipa quello
romantico del brutto, in ciò che l’autore definisce come piacere negativo, contrapposto al
piacere positivo del bello. Ma la vera sistematizzazione teorica di tali concetti la diede Kant
nella Critica della facoltà di giudizio (1790). (crf. AA.VV. Manuale di storia della filosofia
2, Laterza Bari 1999, pp. 285-288)
18
E. Burke, Ricerche philosophiche sur l’origine de nos idées du Sublime et du Beau, trad.
Par E. Lagente, Pichon et Dapierreaux, Paris 1803 (cfr. Luigi Magnani, Stendhal e il sublime,
in L’idea della Certosa, op. cit., p.52).
19
I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, p.94
20
L. Magnani, L’idea della Certosa, op. cit., p.55
XI
3.1 La polemica tra Balzac e Stendhal
Sulla Reveù Parisienne appare un lungo saggio di Balzac a proposito
della Certosa di Parma di Stendhal, autore in dell’epoca ancora poco
conosciuto. Lo stesso Balzac si difende, quasi prendendosi beffe di eventuali
critiche, dichiarando: “Mi si dirà che mi diverto a creare paradossi, a dare
valore a dei nonnulla, che anche io, come Sainte-Beuve, ho i miei cari
sconosciuti!”
21
. In realtà Balzac, con sorprendente spirito anticipatore,
intuisce a pieno la grandezza di quello che non tarderà, per i posteri, a
divenire il suo più grande rivale. Ciò che affascina nello scritto di Balzac è il
suo appassionato sforzo, unito ad una ammirevole onestà letteraria
22
, di far
comprendere ai lettori la genialità di Stendhal. Difficilmente non si resterà
catturati, leggendo il resoconto minuzioso che l’autore fa delle intricate
trame della Certosa, dal fascino che la sincera ammirazione di Balzac nutre
per l’autore che ha fatto “un libro in cui il sublime erompe capitolo per
capitolo”
23
. Lo stesso Stendhal, a quanto scrive Lukács, ne resta lusingato,
ma le divergenze tra i due autori non sono affatto soffocate dalla loro
reciproca ammirazione. Ciò che Balzac ammira in primo luogo in Stendhal, è
proprio il suo ostinato impegno nel tendere all’essenzialità del discorso come
dell’evento raccontato, tanto che, dice l’autore, il poeta non si china neanche
per un istante a raccogliere un fiore lungo il sentiero, ma punta dritto
21
H. de Balzac, Studi su M. Beyle, in Poetica del Romanzo, Sansoni, Firenze 2000, p.343
22
Balzac scrive: “Se, malgrado la sua importanza, ho atteso così a lungo prima di parlare di
questo libro, credetemi: mi risultava difficile acquistare una certa imparzialità. Non sono
ancora certo di poterla mantenere, a tal punto trovo quest’opera straordinaria ad una terza
lettura, lenta e meditata” (ivi, p.337)
23
Ibid.
XII
all’essenza del suo dramma, che pagina dopo pagina accelera gli eventi
proprio come un ditirambo
24
. La tensione che suscita passo dopo passo,
accadimento dopo accadimento, misura esattamente quella di un’opera
teatrale, dove, alla fine, sebbene Stendhal tratti più di cento personaggi
insieme e costruisca trame intrecciate le une alle altre, la visione d’insieme
non si perde minimamente, così come la tensione drammatica che lega scena
dopo scena. I fiori, come scene cucite nella trama del libro, non vi sono
applicati, ma cuciti nella stoffa
25
. La parola di Stendhal è tagliente e ha,
come l’espressione teatrale, qualcosa di oscuramente violento
26
. Ma leggiamo
direttamente Balzac: “Leggendo questo romanzo non incontrerete quelle
digressioni che vengono giustamente definite tirate. No, i personaggi
agiscono riflettono, provano sentimenti e il dramma non si arresta mai”
27
. E
poche pagine più avanti:
Alla prima lettura, quella che mi ha letteralmente sbalordito, ho trovato dei difetti.
Rileggendo, le lungaggini sono sparite, capivo la necessità del dettaglio che,
dapprima, mi era parso troppo lungo e diffuso. Per rendere conto a voi lettori come
si doveva, ho percorso l’opera. Occupato allora dello stile, ho contemplato questo
bel libro più a lungo di quanto volessi, e tutto mi è parso molto armonioso,
collegato con naturalezza e con arte, ma coerente
28
.
24
Cfr. ivi, p.367
25
Cfr. ivi, p.359
26
Cfr. M. Crouzet, Stendhal et la poétique du fragment, Stendhal Club. Losanne XXIV
1981-82, p.167
27
H. de Balzac, Studi su M. Beyle, op. cit., p.367
28
ivi, p.383
XIII
5.2 Il tempo nel romanzo
Non è un caso che Lukács introduca la trattazione del tempo proprio
all’interno del romanzo del “romanticismo della disillusione”; è infatti grazie
al tempo, inteso come durata
29
, che si esplicita il fallimento di questo tipo di
romanzo. Non è tanto l’astrattezza dell’ideale perseguito dall’eroe, ma lo
scorrere del tempo che fa emergere “la discrepanza di idea e realtà”
30
propria
della nostra epoca. Come scrive Lukács: “La soggettività non è in grado di
non perdere terreno nei confronti del fluire costante, monotono del tempo”
31
.
29
G. Lukács intende per tempo effettivo la durée bergsoniana: “Soltanto la forma del
trascendentale esilio dell’idea, il romanzo, introduce nella serie dei suoi principi costitutivi il
tempo effettivo, la durée bergsoniana” (Lukàcs, op. cit., p.150). Henri Bergson in uno dei
suoi primi scritti, Saggio sui dati immediati della coscienza, distingue il tempo spazializzato,
proprio dei procedimenti scientifici, dal tempo vissuto, ossia la durata effettiva e interna della
coscienza. Il tempo vissuto a differenza di quello spazializzato, il quale è frutto di
un’operazione dell’intelligenza che riduce all’omogeneo, ossia a distinzioni e rapporti
soltanto quantitativi e perciò misurabili, è sempre intrinsecamente diverso,
incommensurabile, qualitativamente eterogeneo. Eppure il tempo vissuto dà più l’idea di un
tempo reale perché non semplifica la coscienza come tanti atomi distinti e isolati di cui essa
ne sarebbe il semplice aggregato o la somma, ma, al contrario, la riconosce come un’unità
profonda e complessa. Nel tempo vissuto non ci possono essere rapporti meccanici fra i
singoli momenti, in quanto ogni momento è intrinsecamente qualificato dalla sua unità con
tutti gli altri. Un ruolo importante svolge in questo senso la memoria in quanto, tramite la
memoria, in ogni istante della nostra vita confluisce l’intero nostro passato, e questo spiega
perché la durata, come tempo vissuto, sia irreversibile e perciò stesso reale, al contrario
dell’astratto tempo spazializzato considerato invece reversibile. (Cfr. Adorno, Gregory,
Verra, Manuale di storia della filosofia 3, Edizioni Laterza, Roma-Bari 1996, pp.287-288)
30
G. Lukàcs, La Teoria del Romanzo, op. cit., p.150
31
Ibid.
XIV
È nel romanzo, “forma trascendentale dell’esilio dell’idea”, che il
tempo trova il suo compimento. Sembra infatti che “l’intera azione del
romanzo si tramuti in una lotta continua contro il tempo”
32
.
Ciò distingue profondamente il romanzo dall’epopea. L’epopea non
possiede che solo apparentemente il concetto del tempo. Esso esiste solo
come una constatazione, un dato di fatto, si pensi ai dieci anni dell’Iliade e
dell’Odissea
33
, che in realtà non apportano nessun effettivo cambiamento: gli
eroi dell’epopea non invecchiano mai, la loro età fa tutt’uno con il loro
carattere e così: “Nestore è vecchio, come Elena è bella, e Agamennone
possente”
34
. Il tempo ha perciò solo la funzione di valorizzare le imprese
degli eroi, ma essi non vivono nel tempo, non lo sperimentano come veri
uomini, ma vivono in una dimensione di atemporalità propria degli dei
dell’Olimpo. Il tempo nell’epopea è qualcosa di statico, immobile,
“l’invecchiamento, la morte solo una constatazione”
35
. Esso prende le
dimensioni di uno spazio dove gli eroi sono liberi di muoversi avanti e
indietro, in maniera cioè reversibile (mentre il tempo reale è irreversibile)
senza nessuna direzione che indichi dove vadano.
Solo quando è cessato il legame con la patria trascendentale, ed essa
diventa un ideale non più raggiungibile, il tempo acquista il suo carattere
costitutivo. Il tempo è perciò costitutivo della forma-romanzo nella misura in
cui questo è un continuo cercare e non trovare, una tensione infinita verso
32
ivi, p.152
33
ivi, pp.150-151
34
ivi, p.151
35
Ibid.
XV
l’ideale irraggiungibile. Il legame tra epopea e romanzo sta proprio in
questo: il tempo dà l’obbiettività epica nel momento in cui rappresenta la
perdita dell’immanenza del senso. Il tempo si concretizza nel romanzo
proprio come la forma di questa immanenza, nel suo essere “un continuum
concreto”
36
, opposto all’astratta temporalità dell’epopea, che avendo già di
per sé l’immanenza del senso nella vita, non aveva bisogno del tempo, non
aveva bisogno di cambiare per cercare altro. La staticità del tempo
nell’epopea raffigurava proprio la pienezza della vita e il conseguente
appagamento che caratterizzava quell’epoca ancora non abbandonata dagli
dei. Tornando al tempo nel romanzo si può affermare che esso, se da un lato
determina il processo di dissoluzione del “romanticismo della disillusione”,
dall’altro è il solo che potrebbe salvare il romanzo da tale dissoluzione. Se
l’ideale appare infatti quale costitutivo solo dell’immaturità dell’anima
37
,
allora il romanzo è la forma della virilità matura
38
nella misura in cui il
tempo rappresenta la pienezza della vita nell’unico modo possibile
nell’epoca abbandonata dagli dei: esplicitando l’inutilità della ricerca. Il
tempo supera la frammentarietà della realtà nel suo essere un processo
infinito, un continuum organico
39
. La speranza, proiettata al futuro, e la
memoria, al passato, sono le uniche due forme per mezzo delle quali il tempo
esprime la sua organicità.
36
ivi, p.155
37
ivi, p.152
38
ivi, p.153
39
ivi, p.155
XVI
Speranza e memoria sono le sole cose reali in un mondo dove le
convenzioni hanno reso tutto apparente, esse sono i due poli che uniscono
passato e futuro, gli estremi entro i quali si concretizza il procedere del
tempo.