Il rito abbreviato. Evoluzione dalla legge Carotti ad oggi
Il giudizio abbreviato semplice
A seguito della riforma - come più volte ricordato - l'imputato che intende avvalersi del giudizio abbreviato, può farlo in due distinti modi: attraverso una richiesta semplice con la quale richiede al giudice di essere giudicato allo stato degli atti nella fase dell'udienza preliminare, o con una richiesta complessa con la quale condiziona la scelta del rito speciale all'accoglimento di una nuova domanda avente ad oggetto l'integrazione del materiale probatorio sino a quel momento disponibile. Per quanto riguarda la richiesta semplice, va ricordato che la formula "esser giudicato allo stato degli atti" presente in essa, non va intesa, come in passato, nel senso che il quadro probatorio sia chiuso e debba già risultare completo per la decisione: in essa bisogna solo ravvisare la volontà del soggetto di rinunciare a produrre qualsiasi mezzo di prova, la volontà di non avvalersi della forma probatoria piena cui esso avrebbe diritto ai sensi dell'articolo 190 del codice di rito. Ma detto questo, nulla impedisce che il giudice possa far mutare il quadro probatorio disponendo l'assunzione di nuove prove ed infatti, una delle principali novità introdotte con la legge n. 479 del 1999, è sicuramente il fatto che questa non considera più come requisiti essenziali dell'udienza preliminare e del giudizio abbreviato, la "completezza delle indagini" e la "decidibilità allo stato degli atti". Al contrario, vuole concedere sempre l'opposta possibilità per il giudice di ordinare, in udienza preliminare, una "integrazione delle indagini" (art. 421 bis c.p.p.) o di ammettere, nel giudizio abbreviato, le "integrazioni probatorie che risultino necessarie ai fini della decisione" (art. 438 comma 5 c.p.p.). Il rito in esame quindi, non solo diviene un vero e proprio diritto per l'imputato (in quanto il giudice è tenuto ad ammetterlo per il sol fatto che l'imputato lo abbia richiesto e il pubblico ministero non può in alcun modo ostacolarlo), ma perde anche la sua fisionomia originaria di giudizio a "prova bloccata" perché consente all'imputato di richiedere di colmare lacune conseguenti a carenze investigative attraverso nuove prove e al giudice di fare altrettanto quando, pur a fronte di una richiesta semplice, ritenga utile acquisire nuovo materiale probatorio ai fini della decisione.
Di conseguenza, con la riforma sono stati abrogati gli articoli 439 e 440 c.p.p. (art. 28 della legge n. 479), è stato radicalmente modificato l'articolo 438 c.p.p. (art. 27 l. cit.) ed è stata introdotta nel comma 5 del nuovo articolo 441, la previsione secondo cui il giudice può assumere gli elementi necessari ai fini della decisione, anche d'ufficio, qualora ritenga di non poter decidere allo stato degli atti (art. 32 l. cit.). Ed è quest'ultima previsione che consente di superare quegli ostacoli che si erano palesati sia in dottrina (secondo la quale il giudizio abbreviato non era possibile né quando lo stato degli atti lasciava intravedere la possibilità che nel dibattimento sarebbe stato possibile acquisire ulteriori elementi probatori decisivi, né quando gli elementi acquisiti non coprivano per intero la regiudicanda anche per quegli aspetti, come le circostanze attenuanti, che potevano essere trascurati nelle indagini preliminari) sia in giurisprudenza circa l'indispensabile requisito della definibilità del processo "allo stato degli atti" che va adesso ricollegato solo al semplice potere attribuito alle parti di fermare l'accertamento dell'oggetto del giudizio ad un certo punto dell'iter processuale (cioè alla fase preliminare).
Se prima tale requisito stava ad affermare "che il giudice può ammettere il giudizio abbreviato, quando, allo stato degli atti, è in grado di escludere che vi siano ancora da acquisire elementi probatori decisivi; ovvero che, all'opposto, il giudice rigetta la richiesta di giudizio abbreviato quando gli stessi dati a sua disposizione appalesano incompletezze conoscitive che potrebbero essere superate con una integrazione probatoria" ora, attribuendo al giudice il potere di acquisire d'ufficio elementi rilevanti per la decisione anche a fronte di una richiesta semplice dell'imputato, il legislatore ha inteso svuotare di importanza quel requisito che adesso quindi assume un nuovo significato: non più presupposto del giudizio abbreviato, ma mero connotato di questo. A mio avviso, la principale ragione di questo radicale cambiamento, è dovuta al fatto che il legislatore si è reso conto che la concezione rigida di un presupposto così pregnante quale la "definibilità allo stato degli atti", costituiva un peso alla praticabilità del giudizio speciale: un limite che, oltre a mettere in crisi la funzione cognitiva del processo, in quanto il giudice avrebbe dovuto pronunciare sentenza anche nel caso fossero emerse lacune rappresentative successivamente all'ammissione del rito, rendeva il processo speciale poco appetibile per l'imputato, che era spogliato di qualsiasi diritto alla prova. La riforma, quindi, ha inteso eliminare qualsiasi rilevanza al requisito in esame e, se da un lato, ha mantenuto il carattere negoziale alla scelta del procedimento alternativo, attribuendo all'imputato un vero e proprio potere dispositivo circa le modalità di svolgimento del giudizio, dall'altro lato, la stessa manifestazione di volontà non determina alcuna cristallizzazione del quadro probatorio potendo sempre il giudice allargare discrezionalmente la sua piattaforma conoscitiva: e questa deve essere una conseguenza logica perché, "a prescindere dalla suddivisione dei ruoli tra giudice e parti, la formazione della decisione, per non essere farsesca, presuppone il potere per chi giudica di non farsi precludere l'osservazione della realtà".
In conclusione "stato degli atti" esprime adesso una situazione di tendenziale sufficienza degli elementi probatori per il giudizio, un criterio totalmente svincolato dalle strategie processuali delle parti ed affidato solo alla libera valutazione del giudice, in relazione al quantum del materiale probatorio disponibile. Lo "stato degli atti" non è più quello del momento della richiesta, ma quello del momento della decisione. Va però ricordato che quest'importante innovazione legislativa non è stata immune da critiche da parte d'alcuni autori. In particolare si è sostenuto che la legge n. 479 del 1999 ha fornito all'interprete un rito abbreviato che ricalca le linee del processo inquisitorio potendo essere valutati come prova ai fini della decisione gli atti delle indagini preliminari e presentando il ruolo del giudice qualche affinità con quello del vecchio giudice istruttore, cui l'art. 299 del codice del 1930, imponeva di portare a termine prontamente "tutti e soltanto quegli atti che in base agli elementi raccolti appaiono necessari per l'accertamento della verità". Aderendo ad altre opinioni dottrinali, ritengo che questa critica non convince. È vero, infatti, che i poteri istruttori affidati al giudice dalla riforma sono molto ampi, ma è altrettanto vero che questi sono esercitati alla presenza della difesa e sulla base di un atto di consenso dell'imputato (infatti è lui che sceglie il rito abbreviato quindi sa e deve accettare tutte le conseguenze che questo comporta) che il legislatore stesso vuole che sia pienamente consapevole e non determinato da fattori estranei alla vicenda processuale. Di conseguenza, l'attribuzione al giudice di poteri probatori ex officio, non è di per sé idonea a scardinare la natura accusatoria del processo, sempreché, naturalmente, quei poteri facciano fronte ad uno stato di necessità del giudice e siano proiettati sulle esigenze della decisione.
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Il rito abbreviato. Evoluzione dalla legge Carotti ad oggi
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Informazioni tesi
Autore: | Filippo Marchetti |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2007-08 |
Università: | Università degli Studi di Pisa |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Enrico Marzaduri |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 176 |
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