Critone, dobbiamo sacrificare un gallo ad Esculapio
Lo studio affronta il problema della morte assunto quale tema centrale della speculazione di Vladimir Jankèlèvitch, atipico filosofo (nonché raffinato musicologo) franco-russo, ebreo, antiintellettualista e asistematico, acceso contestatore tanto della filosofia tedesca contemporanea quanto dei fondamenti della metafisica classica, sempre tentato dall’ironia, tanto che si potrebbe stigmatizzare la sua sfida teoretica nel pensare l’ineffabile…
Punto di partenza fondamentale, che tradisce l’ascendenza bergsoniana della speculazione di Jankèlèvitch, è la considerazione del tempo come il farsi significante delle cose. Tale intima connessione tra significatività e temporalità è quanto porta il nostro ad affrontare, in ogni suo scritto, l’ambivalenza del divenire e dunque il paradosso dell’esistenza umana, verità eterna-mortale da assumere in tutta la sua contraddittoria reciprocità. In effetti, Jankèlèvitch non si stanca mai di reclamare la specificità dell’individuo di contro alle generalizzazioni e banalizzazioni positivistiche della realtà umana, riconoscendo al contempo l’impossibilità di un’ipostatizzazione logica – dunque astratta – della coscienza: quest’ultima infatti, autocreandosi in ogni istante (di consapevolezza), non può che sfuggire al determinismo, dal momento che si alimenta della stessa efferenza e discontinuità della realtà vissuta - giacché di quest’ultima costituisce e istituisce, appunto, il senso. Un senso che la realtà della morte, sopraggiungendo, nega e determina al contempo. Coscienza e pienezza sono per essenza antinomiche. Il pieno sviluppo della coscienza è di prendere la misura della nostra finitezza, di andare all’estremo di questo sentimento tragico della vita per mezzo del quale Jankèlèvitch raggiunge Pascal, non mantenendo della sua scommessa che la dignità di un rifiuto di fronte ad una sfida assoluta. Il che porta il nostro filosofo ad individuare nella morte, o meglio nel fatto di morire, l’efferenza dello spirito metafisico, il richiamo alla filosofia, giacchè è proprio con essa che la morte condivide lo stupore per l’esserci delle cose… Rilevazione che consente a Jankèlèvitch l’affermazione, più provocatoria che paradossale, che la filosofia rende inutile la morte... D'altro canto, la morte è quella crisi acuta che sostituisce, nell’uomo non metafisico, la questione che sta alla base della (di ogni) speculazione filosofica: perché qualcosa piuttosto che niente?
Tuttavia, pur sottolineando la valenza metafisica della morte, la meditazione di Jankèlèvitch si pone comunque sul piano dell’esistenza. Egli non ha certo la pretesa di dissolvere, quanto piuttosto di avvalorare, corroborare, l’ambiguità della realtà umana, ovvero del divenire, giacché nell’alternativa pensiero-morte la reciprocità è tanto totale quanto improbabile ne è una sua soluzione. Anzi, è proprio in tale alternativa che sta la condizione vitale di quel paradosso incarnato che è l’uomo, un essere che ha avuto luogo e che per ciò stesso non potrà mai essere considerato inaccaduto… Nichilizzare l’esserci stato, l’aver avuto luogo, significherebbe infatti nichilizzare la temporalità stessa del tempo. L’irrevocabile sta nell’effettività della (di ogni) vita umana: è il puro fatto metaempirico che è irrevocabile, il puro e semplice fatto che. E’ questa la grande ironia di Jankèlèvitch, forse l’unica priva finalmente di ogni autocompiacimento: non c’è alcun segreto, né mistero nascosto, non c’è un fondamento scoperto il quale rinvenire il senso della vita…
Speculazione, quella jankèlèvitchiana, che nella presente tesi ci porta ad avanzare alcune perplessità…
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Informazioni tesi
Autore: | Elisabetta Simeoni |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 1990-91 |
Università: | Università degli Studi Ca' Foscari di Venezia |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Filosofia |
Relatore: | Mario Ruggenini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 164 |
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