I.1
IL SEGRETO DI PULCINELLA
(A mo’ d’introduzione)
Sarebbe difficile pensare sia stata una scelta casuale, o
comunque poco significativa, quella che ha indotto Vladimir
Jankélévitch a trattare - nel suo personale contributo alla raccolta di
scritti (per la maggior parte di suoi affezionati ex allievi) di cui è
composto il numero speciale della rivista L’Arc
1
a lui dedicato - il tema
della disconoscenza [méconnaissance] della morte.
Un tema, quello della morte, che attraversa o comunque sfiora tutta
l’opera di Vladimir Jankélévitch - tanto quest’ultima è lontana dal
cercare un fondamento che possa fungere da supporto al reale, il quale
al contrario viene riconosciuto come tale nella sua evanescente
effettività -, benché riceva una qualche organizzazione, se non
sistematizzazione, solo nel testo che costituisce l’oggetto della nostra
tesi di laurea, ovvero La Mort, pubblicato a Parigi nel 1966 e lì riedito
nel 1977, in una nuova edizione
2
.
Certo, non si può dire che Vladimir Jankélévitch sia stato il primo,
né tantomeno il solo, nella filosofia del Novecento, a voler concentrare
la propria attenzione sul tema, non proprio popolarissimo, della morte,
giacché è noto quanto la riflessione sull’uomo condotta dalla filosofia
1
AA.VV. - Vladimir Jankélévitch, numéro spécial de “L’Arc”, n.75 (1979), pp.88
2
Vladimir Jankélévitch - La Mort, Paris, Flammarion 1966 [2a ed. 1977] pp.474
esistenzialista, considerando il singolo come un’irriducibile individualità
contingente, manifestantesi come tale proprio di fronte alla morte -
situazione di fondamentale insostituibilità -, abbia fatto appunto della
morte il tema centrale della propria speculazione. Una speculazione
rispetto alla quale Vladimir Jankélévitch non solo appare molto vicino
ma, ad una lettura superficiale delle pagine che aprono il testo
sopracitato, non sembra brillare per originalità.
Ciò che infatti Jankélévitch inizialmente ci invita a considerare, è
l’insolubile contraddizione tra la mortalità che, in quanto legge naturale -
e perciò applicabile a tutti gli uomini, senza alcuna eccezione -
costituisce una necessità tanto astratta quanto impersonale, e la morte
come inaccettabile, ingiustificabile, segreta minaccia incombente sul
singolo, in tutta la sua concretezza; si tratta dunque di considerare il
paradosso di una morte che, sospesa tra “tragedia empirica”
coinvolgente il singolo nella sua concretezza ed insostituibilità, e
“necessità naturale” riguardante l’anonimo “Si”, “che è tutti e nessuno”
(LM, p.23), si rivela essere l’ordine straordinario.
Un paradosso, questo, che Jankélévitch comincia a proporci
partendo dall’espressione che Tolstoj ne ha dato nel suo famosissimo
racconto La morte di Ivan Illich
3
dove il protagonista, patendo il
sopraggiungere di un’implicazione da parte di una legge naturale
accettabilissima se tenuta a debita distanza, ne vive a fondo la
contraddizione, sperimentando “intensamente questa ripugnanza
sovrannaturale e quasi disperata che ogni uomo prova a sussumere il
suo incomparabile ‘caso’ personale sotto una legge generale, a sentirsi
personalmente implicato dalla maggior anonima di un sillogismo” (LA,
3
Lev Nikolaevic Tolstoj - La morte di Ivan Il’ic, Milano, Garzanti, 1975, pp.87
[titolo originale: “Smert’ Ivana Il’ica”. Traduzione di Giovanni Buttafava]
p.12).
Se è infatti vero che razionalmente la mortalità, intesa come
legge generale, è applicabile a tutti gli uomini, senza alcuna eccezione,
ed autorizza perciò un continuo passaggio dall’induzione alla deduzione
e viceversa, è anche vero (è soprattutto vero, giacché la singolarità
dell’uomo sta a significare la sua insostituibilità) che, quando si
pretenda applicare tale legge ad un io concreto, e tanto più “a me a
fortiori” (LM, p.25), la stessa deduzione si fa impervia. A questo punto,
infatti, l’universale applicabilità di tale legge non è più così chiara e,
soprattutto, accettabile come pareva ad una considerazione oggettiva -
o magari traducendo una versione latina, quando c’è da supporre sia
più comune soffrire imbattendosi nella consecutio temporum che
nell’ammonimento dell’universale mortalità degli uomini.
La morte di un uomo, sottolinea infatti Jankélévitch, è qualcosa in
più, nonché qualcosa di diverso, “che la conseguenza singolare di una
proprietà generale e astratta chiamata mortalità”; anzi, “questa proprietà
non ci dice niente della morte personale” (LM, p.26). Quest’ultima,
infatti, non può paragonarsi, come già indicava Heidegger in Sein und
Zeit, al fenomeno biologico del decesso, ovvero alla sopraggiunta
mancanza di vita di un organismo il cui patrimonio vitale sarebbe un
quantum esauribile...
In altri termini, la vita dell’uomo ha una qualità esistenziale - su
cui Jankélévitch non smette mai d’insistere - incommensurabile ai meri
processi biologici che pur ne consentono e condizionano l’eventualità.
Tale eventualità, infatti, una volta realizzatasi, è quella di un’individualità
insostituibile e irrinunciabile su cui l’astratta verità dell’universale
mortalità non ha che una presa derisoria, dalla quale l’io, questo
concreto me stesso, vorrebbe emanciparsi, pretenderebbe
irrazionalmente di sfuggirvi, rifiutandosi, indomabile, di lasciarsene
riguardare. Del resto, non è forse vero che “ciascun destino è unico nel
suo genere e a nessun altro pari” (LM, p.13) ?
Nondimeno, tale unicità conduce inevitabilmente ad un esito
comune, il morire, questo “segreto di Pulcinella” riproposto come tale ad
ogni singolo uomo che, “realizzando” la (propria) morte, non può più
fare d’essa un ragionamento, la conseguenza di un sillogismo, la
coerenza di una legge generale.
In effetti, si tratta di due piani completamente diversi, l’uno
generalmente accettabile e, di conseguenza, oculatamente
problematizzato, l’altro al contrario irrisolvibile, nonché indicibile e,
perciò, doverosamente rimosso. Per quanto banale possa essere infatti
sottolineare una simile ovvietà, viviamo, per latitudini e cronologia, in
un mondo dominato dalla visione scientifica del sapere la quale, se da
un lato garantisce specificità, dominio e intersoggettività, dall’altro lascia
a margine - e non può non farlo - ciò che dei fenomeni, non lasciandosi
ridurre a problema, mantiene la propria enigmaticità. L’ideale resta
infatti quello cartesiano di una conoscenza chiara e distinta, dove la
chiarezza esige luce (naturale o artificiale), escludendo così qualsiasi
attenzione ai coni d’ombra qual è quello che la morte indubbiamente
allunga sull’esistenza, così come la distinzione comporta un taglio netto
nella delimitazione del campo d’indagine, non consentendo alcuna
sbavatura.
Il che significa che la morte è passibile d’un solo sguardo: quello clinico.
Comprensibile, traducibile, comunicabile.
Tutto il resto, è l’osceno.
L’osceno che incombe e contro cui vanno dunque rafforzati i
meccanismi di difesa del comune senso del pudore.
Non stupisce perciò che a Parigi, nel 1966 - lo stesso anno in cui
la comunità medico-scientifica decreta univocamente lo statuto della
“morte clinica” -, quando la cosiddetta “riscoperta” della morte era
comunque ancora da venire, sia nata l’esigenza di istituzionalizzare in
qualche modo il discorso tanatologico mediante la fondazione della
prima Società di Tanatologia, seguita nel corso degli anni (in cui peraltro
il discorso sulla morte è diventato di una frequenza addirittura
imbarazzante, tanto si è fatto d’essa in qualche modo il grande tema
interdisciplinare dei nostri giorni) dalla nascita di numerose consorelle,
sparse un pò in tutto il mondo.
Fatto che sottolineiamo non per spirito di cronaca, ma in quanto ci
sembra emblematico del processo di comune rimozione della morte da
cui muovono queste nostre considerazioni.
Se, infatti, la morte ha bisogno, per essere detta, di luoghi deputati
(definibili luoghi naturali solo a patto di riconoscere che ciò che ormai fa
la cultura non è che naturalizzare i nostri artifici, a questo punto vizi
brillanti, tanto sono funzionali alla nostra - cattiva - coscienza...), è
chiaro che il posto che la morte può avere nel mondo - nel nostro
mondo - non va più da sé com’è stato nell’antichità e come continua ad
essere nelle (poche) culture che ancora conservano una certa alterità
rispetto a quella occidentale
4
.
Certo l’angoscia, la paura di morire, è universale, giacché
innegabile è il fatto che la sbandierata naturalità della morte non risolva
il problema esistenziale, ovvero di senso, che quest’ultima pone.
Tuttavia è nella società occidentale contemporanea, la nostra, che il
fatto di morire è (diventato) uno scandalo assurdo, che solo il silenzio
riesce a far diventare sopportabile, tanto la morte costituisce una de-
viazione dai sensi di cui ci concediamo la praticabilità.
4
A questo proposito, si veda l’interessante saggio di Louis Vincent Thomas
Antropologia della morte [trad.it. Milano, Garzanti, 1976]
In altri termini l’uomo occidentale, questo animale indubbiamente
loquace, può riconoscersi e si riconosce tale a prezzo di un’essenziale
reticenza, quella che coinvolge appunto la sua fine. L’innominabile
morte, non a caso eufemizzata con una fantasia degna di un poeta (se i
poeti fossero dicitori d’eufemie - il che preferiamo pensare non sia).
Se infatti la morte è un fenomeno in cui l’uomo, per il fatto stesso
d’esser tale, si è sempre imbattuto, la modalità di questo incontro
5
è
certo mutata nel corso della storia, tanto che ormai non disponiamo più
delle parole per dire né dirci davvero di fronte a tale evento.
Un evento la cui tematizzazione è diventata un’affabulazione
oscena - ghettizzata infatti nella più profonda e in qualche modo
onanistica individualità -, in quanto evento che sconfessa l’attitudine
dell’uomo moderno a creatore di sé e dio di un mondo che non conosce
alterità né trascendenza: un evento che, come scacco alla pretesa
soggettivistica di dominio, non può che essere l’assurdo.
L’assurdo, ovvero l’in-spiegabile: qualcosa, cioè, non spiegabile
all’interno dello schema rappresentativo che del mondo l’uomo di è
donato.
Ovvero quel sapere le cui funzioni e i cui limiti, per quanto suscettibili di
nuove e continue riformulazioni, sono noti, accettati e, soprattutto,
funzionali all’efficacia garantita dalla stessa rigidità del modello di
razionalità da tutto ciò propostoci.
Limiti che non si possono superare, per il semplice motivo che non ha
alcun senso superarli
6
.
5
Si vedano gli studi di Philippe Ariès, quali soprattutto L’uomo e la morte dal
Medioevo ad oggi [trad.it. Bari, Laterza, 1980] e Storia della morte in Occidente
[trad.it. Milano, Rizzoli, 1978], nonché La morte in Occidente. Dal 1300 ai giorni
nostri di Michel Vovelle [trad.it. Bari, Laterza, 1986]
6
“Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” recita il famoso autotoglimento del
Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein. La sensatezza del mondo (del
Pertanto, istituire società di Tanatologia ci sembra del tutto
coerente a tale disegno, se l’impiego tanto del termine “società” quanto
di quello “tanatologia” è un’indicazione che non solo consente ma in
qualche modo obbliga che, nel parlare appunto della morte, lo si faccia
entro certi termini, dove “non si tratta più della morte, ma del morire e
del morente, non più del morto, ma del cadavere e della
decomposizione”
7
. Ovvero di fenomeni empirici, omologati agli altri e
assunti come proprio specifico dagli operatori dei vari campi del sapere.
Sì, oggi la morte, la morte che pure, come già aveva indicato
Jaspers, costituisce per l’uomo una situazione-limite, ossia una
“situazione decisiva, essenziale, che è collegata con la natura umana in
quanto tale ed è inevitabilmente data con l’essere finito”
8
, la morte,
dicevamo, è diventata (non è diventata che) un affare da specialisti,
suscettibile di divenire oggetto di pratiche, terapie e discorsi da parte di
scienze quali la medicina, la sociologia, la storia, l’antropologia
comparata, la demografia, l’urbanistica, il diritto
9
e, perché no,
l’economia.
Dove la morte è qualcos’altro.
Dove la morte, semplicemente, è qualcosa. Qualcosa che ha posto, in
un programma di “isolamento e di individualizzazione di problemi
unicamente organici, come se l’organismo dell’uomo non fosse tale in
rapporto alla complessità dei bisogni rispetto alla complessità della
linguaggio che lo dice) lascia infatti dietro di sè ogni questione che voglia sondare
l’incondizionato, l’Assoluto.
7
Jean Didier Urbain, voce “Morte” in Enciclopedia, vol. IX, p.524 (Torino, Einaudi,
1978)
8
Karl Jaspers - Psychologie der Weltanschauungen, 1925, III, 2, pp.266
9
Pubblico e privato, giacché interessa tanto le querelles sull’aborto, l’eutanasia, etc., quanto
le pratiche testamentarie, etc.
vita”
10
.
Il che significa che alla realtà incommensurabile della morte si
sostituiscono approssimazioni razionali d’essa, in forza appunto della
loro commensurabilità.
Ma la scienza, questa sorta di savoir-faire dell’uomo moderno,
accettando della morte solo ciò che, in essa, fa problema, e di questo
lasciando che le varie branche e sottobranche in cui essa si articola se
ne contendano la dicibilità, non è capace (né, peraltro - questo va detto
- pretende di fare altrimenti) di fornire all’uomo che un discorso e delle
risposte tattiche, laddove sopravvive una domanda che resiste ad ogni
tentativo di depennamento e, per quanto riconosciuta ingenua, non
smette mai di riproporsi, ad ogni coscienza, tanto in essa si radica, e a
volte affonda, una richiesta che non può che essere di senso. Un senso
che la speculazione jankélévitchiana più che cercare di rinvenire, tende
a salvaguardare nella sua pienezza, pagando il prezzo della sua
ineffabilità pur di non banalizzarne l’autenticità.
Una autenticità che al contrario l’uomo moderno, per il quale la
morte finisce per non essere che lo spaventoso, assurdo esito di una
vita per la quale si avevano ben altri progetti, non è in grado di scorgere
sia racchiusa, come Jankélévitch cerca di mostrargli, nella vita stessa,
in forza semplicemente (ma qui la semplicità, lungi dall’appiattirsi in
mera elementarità, sta a significare la serietà) della sua effettività, del
suo darsi gratuito al tempo, capace di sigillarne per sempre l’ac-cadere.
Un’effettività che è quella del fatto che ci sia qualcosa piuttosto
che niente, e che dunque è il fondamento infondato della sorpresa
metafisica, se la filosofia è, come è per Jankélévitch, la capacità di
10
Franca Ongaro Basaglia e Giorgio Bignami, voce “Medicina/Medicalizzazione in
Enciclopedia, vol. IX, p. 1015 (Torino, Einaudi, 1978)
sorprendersi della gratuità dell’essere, da cui lasciarsi poi provocare a
pensare.
Del tutto diversamente, dunque, da quanto pretenderebbe la
rivendicata “riscoperta” della morte - articolantesi, peraltro, in un ambito
tanto innegabilmente quanto meramente letterario.
Una riscoperta per mezzo della quale ci è data la possibilità di scoprire
(scoprire?) o rassicurarci (rassicurarci?) del fatto che la morte - il
fenomeno della morte - non abbia mai smesso, in fondo, d’avere, oltre
che una realtà, una storia, una letteratura, una filosofia, un’iconografia e
via discorrendo...; senza con ciò convincerci che in tali ambiti lo spazio
concesso alla morte sia comunque relativo ad una problematica
tecnico-scientifica, da cui è escluso tutto ciò che non è riducibile a
quest’ultima.
Un atteggiamento, questo, ascrivibile al sempre attuale tentativo
dell’uomo di trovare certezza nella precarietà e sicurezza nel dubbio -
sacrificando così il proprio sguardo metafisico -, atteggiamento che a
parere di Jankélévitch condividono anche le risposte che l’uomo si è
tradizionalmente dato fronteggiando la minaccia della propria finitezza:
sopravvivenza per coloro che, appellandosi alla propria fede in una
sovrannaturalità, identificano la morte ad uno stato del tutto simile alla
realtà che viviamo, benché inscritto in un altrove metafisico; assoluto
annichilimento per coloro che, rifacendosi a quanto già sosteneva
Epicuro, affermano che la morte non sia dunque “niente” per l’uomo.
Equivoci, questi, su cui l’attenzione di Vladimir Jankélévitch si
sofferma lungo molta parte del testo La Mort, smantellandoli con lucida
determinazione.
Il che tuttavia non significa che l’intento di tale testo sia polemico. Ciò
che infatti interessa a Jankélévitch è lo svelare l’equivoco fondamentale
su cui tali due posizioni prosperano, ovvero la pretesa di sapere
esattamente che cosa sia la morte. Pretesa lontanissima dalla
speculazione jankélévitchiana, nella cui articolazione è frequente
imbattersi nell’ammonimento che non c’è niente da dire sulla morte,
giacché d’essa non è possibile definire, circoscrivere o limitare un
senso.
Tuttavia, nonostante della morte non sia data esperienza, per
Jankélévitch, come già per Heidegger
11
, la morte è il fatto decisivo,
l’evento fondamentale della vita.
Come tale, se si vuole, la sua verità.
Una verità che nondimeno, diversamente da quanto pretendeva la
metafisica classica, non ha bisogno di fondamenta, giacché va da sé.
Va da sé, proprio come il tempo.
Giacché è proprio questa la verità del tempo: l’effettivo articolarsi della
realtà, il fatto che ci sia qualcosa piuttosto che niente.
Un qualcosa che è la vita e che, una volta apparsa nell’orizzonte del
tempo, deve essere, non può che essere - ed è questa la sua
necessità. Giacché per Jankélévitch, come vedremo, se vivere nel
tempo è un percorso irreversibile, morire rende tale percorso
irrevocabile nel suo esserci-stato.
Ed è proprio questa, ci pare, la provocazione di Vladimir
Jankélévitch: portare in primo piano la fattualità. Affermando così che il
senso della vita, cui necessariamente ci conduce il pensiero della
morte, non è rinvenibile nella possibilità di circoscrivere un mondo, ben
ordinato, di significati nell’esperienza cosciente,, bensì è racchiuso nella
11
Con cui peraltro la vicinanza speculativa si limita a tale “decisività” dell’evento morte,
giacché per Jankélévitch non è possibile che la morte sia, possa o debba essere, l’autentico
progetto dell’uomo: l’ambiguità della finitezza umana non consente infatti alcun progetto di
questo tipo. Inoltre per Jankélévitch tutto ciò che appare nell’orizzonte del tempo è autentico,
dal momento che l’autenticità di ogni cosa, situazione od evento è il fatto che ci sia; in altri
termini, è racchiusa nel suo semplice darsi quale effettività.
semplicità dell’enigma che la vita ci sia. Un enigma che la morte sigilla e
che il discorso jankélévitchiano si limita a constatare e - per quanto
spesso sostituisca alle argomentazioni delle suggestioni - offrire alla
nostra attenzione nella sua affascinante [charmant] serietà, quale
mistero non intaccato dalla banalità del suo comune accadere.
I.2
L’INELUDIBILITA’ DEL PARADOSSO
Tracce della speculazione jankélévitchiana
“Rifiutarsi il diritto di speculare sul nulla della morte, sotto il
pretesto che esso sia impensabile, significa contestare la legittimità di
un pensiero filosofico in generale” ci dice Jankélévitch ne “La mort et la
profondeur”
12
, articolo che anticipa il testo, di due anni posteriore, La
Mort, pubblicato (per uno di quei parallelismi a testa in giù che non ci
dispiace pensare Jankélévitch avrebbe volentieri rubricato sotto la voce
“chiasmo ironico”) nello stesso anno e nella stessa città in cui, come
abbiamo già detto, nasceva la prima Società di Tanatologia.
Si tratta di un testo ormai classico di questo strano, sfuggente
filosofo; testo che tuttavia passò ai tempi pressocché inosservato,
seguendo un destino comune ai lavori che lo avevano preceduto. Le
opere di Vladimir Jankélévitch, infatti, al momento del loro primo
apparire, sono sempre stati lavori dalla limitata diffusione nonché capaci
di suscitare l’interesse di uno sparuto gruppo di appassionati allievi, ma
quasi del tutto ignorati, soprattutto dagli ambienti accademici in cui
Vladimir Jankélévitch stesso veniva ad operare.
Le ragioni di questo disinteresse sono probabilmente molteplici,
12
“La mort et la profondeur”, in AA.VV., Mélanges Alexandre Koyré publiés a
l’occasion de son soixante-dixième anniversaire, Paris, Hermann, 1964, vol.II:
“L’aventure de l’esprit”, pp.282-294
ed anzi la nostra sensazione è che non sia mancata, tra le altre, una
certa dose di disincantata autoemarginazione, se non perseguita
quantomeno presagita, non tanto nella scelta dei temi quanto nella
modalità indagativa degli stessi; per non parlare poi della (questa volta
vera e propria) scelta degli interlocutori con cui confrontarsi o cui
appellarsi, tra i quali non figurano affatto i maitres à penser
egemonizzanti il dibattito filosofico di quegli anni, quanto piuttosto voci
inattuali come i Padri della Chiesa, Gracian, Fénelon, Francesco di
Sales, Plotino, Pascal, Kierkegaard, Schelling, nonché i grandi
pensatori e scrittori russi, tra i quali soprattutto Sestov, Dostoevskij e
Tolstoj.
Effettivamente, ad una prima lettura delle opere di Jankélévitch,
sono due gli aspetti che più colpiscono: innanzitutto lo stile,
quantomeno atipico, della sua prosa filosofica; quindi l’assenza di un
confronto, o comunque d’un rimando, di una sia pur minima volontà
interlocutoria, con quelli che parevano, nel panorama filosofico di quegli
anni, punti di riferimento obbligati di quasiasi discorso filosofico che
volesse essere attuale, termini di confronto imprescindibili, primo fra tutti
Martin Heidegger, quindi Husserl, nonché Hegel. Tanto che si potrebbe
quasi sospettare che il non ultimo intento di Jankélévitch fosse un velato
scansare le citazioni e gli interlocutori più convenienti, andando invece a
scovare voci e temi dimenticati, o sapientemente elusi, quando non
snobbati, che nel nostro filosofo divengono invece funzionali
all’operazione perseguita, ovvero all’illustrazione nonché all’analisi di ciò
che, nel reale, non ha bisogno di pro-porsi, tanto concorre ad articolarlo.
“Poiché rivendicava l’impegno senza deviazioni, poiché si
rifiutava di ridurre la libertà alle parole d’ordine che l’alienavano,
Vladimir Jankélévitch resterà a lungo e deliberatamente ignorato da
un’epoca che ha voluto considerare la sua fedeltà a Bergson come
redibitoria. Il potere assoluto delle filosofie di Hegel, di Husserl e di
Heidegger ha imposto una cappa di silenzio su qualsiasi pensiero non
ortodosso. [...] Beninteso, non si tratta qui di dubitare dell’importanza
della filosofia tedesca, del suo rigore e della sua portata. Ma come non
sottolineare il terrore intellettuale che essa ha suscitato?”
13
Tale atteggiamento di lateralità da parte di jankélévitch non sta
dunque a significare incomprensione nei confronti dei pensatori a lui
contemporanei, né tantomeno scarsa conoscenza degli stessi, bensì,
come abbiamo già sottolineato, una vera e propria scelta d’autenticità;
non esente, possiamo supporre, da motivi di ordine biografico, ma che
tuttavia non può in alcun modo essere limitata ad essi. Per Jankélévitch
l’unica risposta a questo proposito è il silenzio, tanto gli è impossibile
limitare il suo impegno ad un dibattito (pseudo)filosofico, edulcorato
dalle convenienze dell’intersoggettività. “Vladimir Jankélévitch non fa
parte del gregge. Egli non rompe con la filosofia tedesca, fa di peggio,
la dimentica. E’ questo ciò che non gli si perdonerà mai. E il gregge
non smetterà di isolarlo, di ignorarlo. Se il vero senso della filosofia è
l’amore, l’amore è prima di tutto atto che impegna. E l’impegno non è,
per il filosofo della serietà dell’intenzione, del puro e dell’impuro, una
vana parola. E’ una parola grave, una parola che urge e brucia e
consuma, come l’amore. Non si spreca. Non transige. Egli si oppone,
prende partito, impegna tutto l’essere: corpo, anima, spirito.
Jankélévitch si oppone qui diametralmente a Satre e a Merleau-Ponty, a
proposito dei quali non svelerà mai pubblicamente il suo sentimento su
tale questione. Resta un fatto inaggirabile: né Sartre, né Merleau-Ponty
si impegnarono nella Resistenza.
13
Guy Suarès, Vladimir Jankélévitch. Qui suis-je? [Lyon, La Manufacture, 1986], p.31