''A pebble in my shoe'': il cinema di Lars von Trier
Il regista Lars von Trier ha da sempre la reputazione di essere un cineasta dalla personalità complessa ed inaccessibile, al contrario, secondo Stig Bjorkman, si è rivelato essere aperto e particolarmente disponibile. Durante l’intervista, egli ha parlato molto di Carl Th. Dreyer e questi due temperamenti d’artista, dal carattere in apparenza differente, presentano numerosi punti in comune. In loro si riscontra un certo rigore, passione ed una forma di resistenza alle correnti estetiche più diffuse. Sono esponenti rilevanti di due epoche lontane, in cerca di nuovi modi per esplorare l’essenza del cinema. La sua evoluzione durante gli anni è una continua assunzione di rischi. Una costante osservazione ed analisi del proprio intimo, elementi fondamenti sono l’autocritica e la novità; il tutto accompagnato da una buona dose di provocazione, violenza delle emozioni e delle immagini, in grado di riflettere un disagio, un’inquietudine, una profonda differenza tra il sentire e l’ apparire. Ogni opera del regista racchiude in sé il vero “dogma” , ovvero la consapevolezza che ogni film richiede un diverso tipo di approccio del regista, della troupe e dello spettatore al mondo interiore dei personaggi, all’ambiente rappresentato ed all’opera stessa. Egli durante gli anni e le “trilogie” si conferma come una delle figure più innovative ed anticonformiste del cinema contemporaneo, redattore di manifesti, di celebri decaloghi, egli è sempre alla spasmodica ricerca di una “purezza“ filmica.
La scelta stilistica di von Trier dei primi lungometraggi (trilogia Europa) si divide tra il naturale e l’artificiale, il cui risultato è un ribaltamento costante di convenzioni volto a far prevalere il mondo del possibile, diversamente da quanto potrebbe fare un cineasta ispirato al dramma classico. Egli non ha interesse nel rispetto delle unità di azione, di tempo, di luogo e di linguaggio. In particolare nei suoi primi film, la mancanza di una delimitazione spaziale crea una sensazione di irrealtà e di dissoluzione; in lui vi è la volontà di compensare un‘eventuale mancanza di suspanse nella narrazione attraverso un’impostazione audio e visivo con le lente cadenze di un flusso percettivo in cui non vi sono limiti spaziali. Il proprio senso espressivo è fondato sul controllo rigoroso dell’immagine, “trilogia” in cui l’espressionismo tedesco è la memoria artistica da cui attingere e i temi fondamentali sono rappresentati dall’Europa, vecchio e stanco continente malato per eccellenza, culla di tutti gli orrori del Novecento.
Abbandonata l’“Europa” stanca e viziata, la memoria e la ricerca dell’identità, il regista si concentra sulle tematiche universali del destino, della natura umana, del sacrificio e del senso della vita. Il rigore formale dei primi lavori viene abbandonato, il suo linguaggio perde l’eleganza per far spazio ad un’altra caratteristica: il gettare sé stessi e lo spettatore direttamente dentro lo svolgersi del dramma, dentro i moti dell’anima dei personaggi, senza farsi guidare dalla ragione, lasciandosi trasportare unicamente dalle spinte emotive delle tre eroine: Bess, Karen e Selma.
Egli si confronta con due generi che, fino a quel momento, sembravano lontanissimi dalla sua poetica: il musical e il melo. Lars von Trier si lancia nel progetto più difficile e ambizioso di tutta la sua carriera, il risultato è Dancer in the dark, un film di enorme impatto emotivo che trasfigura il genere a cui pure dovrebbe appartenere, che riesce a essere commovente pur contaminando il registro narrativo del melodramma.
L’ultima “trilogia” riguarda il nuovo continente, ovvero: “America, terra dell’ opportunità”. La saga si apre con Dogville, film inaccettabile, di grande valore estetico, una critica dura alla modernità ambientato negli anni della Grande Depressione, un esperimento rivoluzionario. Sicuramente Dogville ha diviso il pubblico; è comunque un film che difficilmente si può considerare piacevole, quindi o lo si ama o lo si detesta. Se Dogville riesce a scardinare la meccanica dell’intrattenimento attaccando il principio di identificazione, se riesce a far andar via dalla sala qualche spettatore pur avendo pagato il biglietto se riesce a far questo, Dogville non si rivolge agli spettatori imparziali. Non è facile trovare qualcuno con il quale identificarsi. E se qualcuno ci prova, riceve un “colpo basso” nel finale.
Manderlay è il sequel di Dogville. Il terzo capitolo della “trilogia” Washington, è tuttora in lavorazione. In entrambi i film, le scene sono girate in un interno di teatro: le scenografie sono disegnate sul pavimento mentre gli attori fingono di aprire porte, mangiare, o coltivare i campi che, nel loro niente scuro e innaturale, diventano tangibili attraverso il suono fuori campo.
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Informazioni tesi
Autore: | Alessandra Costa |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2007-08 |
Università: | Università degli Studi di Torino |
Facoltà: | Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo |
Corso: | DAMS - Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo |
Relatore: | Gianpaolo Caprettini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 121 |
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