Appunti utili per l'esame - Modelli teorici dell’antropologia - Si riprendono i concetti di "Antropologia culturale (l'esperienza e l'interpretazione) di Ugo Fabietti dove si spiega la natura e la struttura del sapere antropologico
attraverso un esame delle procedure, pratiche e teoriche, che lo
costituiscono.
Antropologia culturale (l'esperienza e l'interpretazione) di Ugo
Fabietti
di Viola Donarini
Appunti utili per l'esame - Modelli teorici dell’antropologia - Si riprendono i
concetti di "Antropologia culturale (l'esperienza e l'interpretazione) di Ugo
Fabietti dove si spiega la natura e la struttura del sapere antropologico
attraverso un esame delle procedure, pratiche e teoriche, che lo
costituiscono.
Università: Università degli Studi di Milano - Bicocca
Facoltà: Scienze della Formazione
Corso: Antropologia
Esame: Modelli teorici dell’antropologia
Docente: Ugo Fabietti
Titolo del libro: Antropologia culturale (l’esperienza e
l’interpretazione)
Autore del libro: Ugo Fabietti
Editore: Laterza
Anno pubblicazione: 20091. Definizione di antropologia
ANTROPOLOGIA: è un sapere nato come riflessione sulle società incontrate dalla società industriale
moderna nel suo movimento di espansione e presenta la non comune caratteristica di essere una critica
implicita a qualunque pretesa di assolutizzazione dei fondamenti della cultura di cui essa stessa è
espressione.
Descartes ('600) e Montaigne (fine '500) esprimono idee simili su costumi e comportamenti (cioè la cultura)
ma giungono a conclusioni diverse:
1) Descartes rifiuta di credere che le certezze derivanti dalla cultura nella quale si nasce e si cresce siano il
parametro valido per formulare giudizi sulla realtà che ci circonda. Esorta a dubitare sempre delle apparenze
(abitudini e costumi) poiché la verità va cercata dentro di noi attraverso l'applicazione metodica del dubbio;
2) secondo Montaigne noi siamo ciò che i costumi ci fanno essere, quindi dobbiamo essere cauti nel
giudicare e saggi nel comportarci con chi ha costumi diversi dai nostri. L'antropologia va situata a metà
strada fra i due: essa, infatti, nutre dei dubbi nei confronti delle verità trasmesseci dalla tradizione ma non
ritiene che la verità sia qualcosa di raggiungibile al di fuori delle forme di esistenza storica e sociale in cui
vivono gli esseri umani, cioè al di fuori della loro "cultura".
L'antropologia:
- è una frontiera perché si situa alla frontiera di una cultura (quella occidentale) che ha sempre considerato
se stessa in grado di ricondurre il mondo alle sue categorie. L'antropologia è espressione di questa tradizione
di pensiero (totalitario, colonialista, imperialista, sessista,…) ma è anche figlia del dubbio, è una critica a
qualunque pretesa di assolutizzazione dei fondamenti della cultura di cui è essa stessa espressione. Per
comprendere il mondo in maniera chiara e distinta, bisogna passare attraverso l'estraneazione dall'ovvietà,
dall'attitudine, dall'esempio;
- è nata sulla frontiera, fra culture diverse o in "zone di contatto" dove agiscono soggetti di provenienza
diversa, portatori di specifici motivi culturali, interessi, progetti politici, aspirazioni economiche,
rivendicazioni identitarie. Essa si muove fra due poli:
1) esperienza: esperienza della diversità culturale ma anche contesto, fatto di altri esseri umani capaci di
produrre significati propri, in cui l'antropologo mette in atto strategie di ricerca;
2) interpretazione: è necessaria, altrimenti l'esperienza non avrebbe alcun valore.
N.B. Se dunque l'antropologia è una frontiera, è perché essa esprime il "limite" della cultura che l'ha vista
nascere, perché si è sviluppata in "zone di contatto" e forse anche perché essa si pone come sapere "mobile",
sempre disposto a riformulare i propri parametri sulla base delle nuove esperienze suscettibili di produrre
nuove interpretazioni. La sua mobilità dipende dal fatto che gli antropologi viaggiano.
Viola Donarini Sezione Appunti
Antropologia culturale (l'esperienza e l'interpretazione) di Ugo 2. L’antropologia moderna e l’idea di viaggio
Già presente nel '700, nell'800 la comparazione diventa lo strumento grazie al quale si ritiene possibile uno
studio di somiglianze e differenze che consente di formulare, sulla base di osservazioni empiriche, idee
generali su cultura e società umana. L'antropologia moderna è strettamente legata all'idea di viaggio come
spostamento nello spazio fisico di un soggetto conoscente; il viaggio antropologico è diverso perché
comporta quella pratica intenzionale che si chiama ricerca sul campo. Dopo la I G.M. il compito
dell'antropologo sul campo comincia ad essere concepito come quello di cogliere il punto di vista del nativo,
il suo rapporto con la vita e capire la sua visione del proprio mondo. Da questo momento viaggio e
conoscenza dell'alterità si congiungono in un progetto intellettuale e scientifico coerente ed inizia una certa
venerazione per la ricerca sul campo.
Ricerca sul campo ed etnografia
Ricerca sul campo ed etnografia vengono solitamente fatte coincidere ma la sovrapposizione crea problemi,
soprattutto perché si opera una specie di riduzione del lavoro dell'antropologo ad una mera raccolta di
informazioni. Questa identificazione, inoltre, si basa su un'altra identificazione ormai difficile da sostenere:
quella fra campo come attività di ricerca e come "luogo", "spazio" nel quale si realizza tale attività. Il campo
non è sempre uno spazio geografico determinato perché l'antropologo ha compiuto spostamenti ed è venuto
a contatto con estranei, inoltre la cultura studiata può anche non essere un'entità localizzabile e delimitabile.
Questa identificazione, pertanto, dipende da una "finzione" che deriva da motivi pratici: l'oggetto di studio
come qualcosa di circoscritto o spazialmente limitato.
La ricerca sul campo tende ad includere e ad influenzare l'etnografia poiché questa non è decondizionabile
da quell'ambiente interattivo più ampio che è la ricerca sul campo, la quale comporta una serie di
spostamenti, relazioni, negoziazioni e rapporti di forza tra soggetti, che finiscono per riversarsi nella pratica
etnografica. In passato certi aspetti del lavoro sul campo sono stati espunti dal testo etnografico perché si
pensava che in un resoconto "oggettivo" non dovessero comparire elementi ascrivibili a qualche forma di
"soggettività". Questa contrapposizione fra ricerca sul campo come operazione scientifica riconosciuta ed
esperienza personale inconfessabile in quanto soggettiva, quindi non scientifica, costringe l'antropologo a
non dire ciò che invece lo ha messo in condizione di sapere e di parlare, procurandogli l'illusione che il suo
lavoro sia il frutto di un'attività di ricerca scientifica libera da influenze esterne.
- Fare ricerca sul campo è problematico e fondamentale perché rende possibile l'etnografia;
- l'etnografia, dal canto suo, è una pratica di ricerca fortemente condizionata da quanto avviene in
quell'ambiente interattivo più ampio che è la ricerca sul campo.
Solo se siamo consapevoli di questo fatto, possiamo usare il termine etnografia al posto di ricerca sul campo
e viceversa.
Viola Donarini Sezione Appunti
Antropologia culturale (l'esperienza e l'interpretazione) di Ugo
Antropologia ed etnografia
L'etnografia può essere intesa in due modi:
1) come "manuale": raccogliere dati, registrare la nomenclatura di parentela, studiare determinati gesti,…).
E' una descrizione esigua;
2) come "pratica interpretativa": è una forma di attività intellettuale in larga misura coincidente con
l'antropologia. E' una descrizione densa.
Il lavoro antropologico consiste nel:
- vivere a contatto con persone di un'altra "compagnia";
- decodificare certe pratiche o rappresentazioni a partire da un contesto estraneo e "riportare" questo
significato all'interno di un codice familiare per noi e per il pubblico;
- tradurre, cioè nel passaggio di codice da una cultura ad un'altra.
Queste fasi avvengono contemporaneamente poiché la decodificazione dei segni non può essere concepita se
non in riferimento ad un altro codice (quello in cui deve essere tradotta).
Per lungo tempo l'etnografia è stata considerata come il primo "gradino" della conoscenza antropologica. Ad
esempio Lévi- Strauss ha disposto in linea ascendente:
- etnografia: osservazione, descrizione;
- etnologia: comparazione, generalizzazione;
- antropologia: elaborazione di teorie e spiegazioni.
Secondo Geertz l'etnografia è in pratica coincidente con la stessa antropologia perché gli oggetti
dell'antropologo (gli esseri umani) conferiscono un senso a ciò che dicono ed a ciò che fanno, quindi ai
"dati" dell'etnografia.
Se in base a questa prospettiva l'etnografia può essere fatta coincidere in larga misura con l'antropologia vi
sono tre modi di intendere il termine etnografia:
1) pratica di ricerca: descrizione di un gruppo,una cultura, una società destratificazione di significati
(descrizione densa);
2) studio singolo / monografia: studio particolare dedicato ad un determinato gruppo, società, cultura;
3) corpus di studi: complesso dei lavori prodotti su un determinato gruppo, società o cultura o in riferimento
ad una determinata area.
Decentrare lo sguardo
Viola Donarini Sezione Appunti
Antropologia culturale (l'esperienza e l'interpretazione) di Ugo
La pratica antropologica implica l'adozione di un punto di vista capace di liberare, per quanto possibile, lo
sguardo sull'alterità dai pregiudizi e dai condizionamenti imposti dalla cultura di colui che osserva ed
interpreta. Liberarsi totalmente dai condizionamenti imposti dalla cultura alla quale apparteniamo è
impossibile però dobbiamo adottare un punto di vista relativo, cioè decentrato rispetto al mondo che ci è
noto attraverso le nostre categorie, le nostre abitudini mentali ed i nostri comportamenti . è il relativismo
culturale, elaborato negli USA subito dopo la II G.M. Il relativismo teorizzato da Herskovits era fortemente
connotato in senso etico ed intendeva promuovere un atteggiamento di tolleranza, comprensione e rispetto
per la diversità; queste tendenze possono essere rilette alla luce del fatto che l'Occidente era appena uscito
dalla lotta contro il Nazismo, per il quale la diversità era qualcosa da estirpare. Esso consiste nell'idea che ci
siano tante culture quante sono le società, che ciascun individuo apprenda la cultura che "trova" nella società
in cui nasce e vive e dà per scontato che ogni situazione, ogni comportamento, ogni mentalità trovino una
giustificazione (e quindi una specie di diritto all'esistenza) nelle circostanze che li hanno prodotti. Il
relativismo è dunque un atteggiamento dove la spiegazione, la comprensione e la giustificazione tendono a
confondersi, fino al punto da inibire una qualunque forma di giudizio morale ed un qualsivoglia giudizio
conoscitivo. I pericoli furono avvertiti immediatamente: l'atteggiamento relativista, infatti, non considera il
fatto che una società ed una cultura non sono mai il prodotto di un totale consenso ma che all'interno di una
società e di una cultura, per quanto "semplici" o "arcaiche" queste possano essere, esistono sempre dei punti
di vista dominanti. I valori, quindi, anziché essere distribuiti e condivisi in maniera omogenea, sono sempre
il prodotto di rapporti di forza esistenti fra le stesse componenti di una società. Il relativismo culturale si
fonda sulla considerazione che a partire da premesse diverse sul piano culturale, gli esseri umani trarrebbero
conclusioni culturali differenti; stando a questo relativismo, le culture potrebbero apparire come delle entità
del tutto isolate ed intraducibili. A questa possibile conclusione epistemologica segue un suo altrettanto
possibile correlato politico: il neorazzismo debiologizzato che può servirsi del presupposto che le culture si
equivalgono per restaurare un discorso di gerarchia e di esclusione. Il relativismo che cade nell'errore di
rappresentare mondi culturali come universi chiusi, può essere definito dogmatico tuttavia "essere
relativisti" può voler dire assumere intenzionalmente un atteggiamento che consiste in una "sospensione del
giudizio" e che faccia da sfondo ad un discorso che non tenti di ridurre l'altro a semplice "variabile del Noi"
attraverso un impiego acritico delle nostre categorie interpretative. Questo relativismo è il metodo
dell'antropologia.
Distanza e straniamento
Necessari per un antropologo sono:
1) la presa di distanza . aspetto spaziale del rapporto con l'oggetto della propria ricerca;
. nei confronti di coloro che costituiscono l'oggetto dei nostri studi;
. nei confronti di noi stessi e della nostra cultura;
Viola Donarini Sezione Appunti
Antropologia culturale (l'esperienza e l'interpretazione) di Ugo 2) lo straniamento non letterale, retorico, strumentale bensì intenzionale e previsto. E' una condizione per
"vedere dal di fuori" situazioni che paiono radicalmente diverse (nelle quali è tuttavia possibile ritrovare un
elemento di familiarità) ed anche per poter osservare noi stessi ed il nostro mondo, che ci parevano così
familiari, con uno sguardo capace di coglierne l'estraneità.
Viola Donarini Sezione Appunti
Antropologia culturale (l'esperienza e l'interpretazione) di Ugo 3. Il concetto di osservazione partecipante e la comunicazione tra
antropologo e nativo
Osservazione e partecipazione
Osservazione partecipante: ha definito a lungo il comportamento ideale dell'antropologo sul campo ma il
binomio osservazione - partecipazione ha suscitato perplessità perché la prima richiede distacco, mentre la
seconda comporta un coinvolgimento emotivo. L'antropologo si trova così di fronte al paradosso
dell'osservazione partecipante: più egli si cala nella realtà locale ed acquista un modo di fare e di interpretare
la realtà simile a coloro che vuole studiare, più tali comportamenti e la relativa visione del mondo gli
sembreranno naturali e, quindi, difficili da notare. Con il tempo questa espressione ha perso il suo potere
rassicurante sul piano metodologico. Di recente qualcuno ha cercato di salvare la specificità del
procedimento osservativo (mediante il quale il ricercatore registra ed ordina i dati destinati a confluire nel
resoconto etnografico) distinguendolo dall'impregnazione che coincide con l'assimilazione, da parte del
ricercatore, degli stilemi culturali locali (gesti, modi di dire, pensare, sentire,…).
Anni '60: l'idea di osservazione comincia ad apparire troppo centrata sull'attività esclusiva del ricercatore.
Anni '80: Devereux riprende la metafora del "bastone fermo e del bastone molle" già usata dal fisico Bohr: il
bastone fermo diventa un prolungamento della mano . fa parte più dell'osservatore; il bastone molle fa parte
più dell'oggetto. I differenti modi di tenere il bastone sono conseguenti alle teorie possedute da colui che
compie l'indagine e sono da queste ultime influenzati a loro volta.
Anni '90: si passa a quella che Tedlock definisce osservazione della partecipazione in cui gli etnografi
sperimentano ed osservano contemporaneamente la copartecipazione propria ed altrui all'interno
dell'incontro etnografico. Da una prospettiva che assegnava all'antropologo un potere di controllo assoluto
nel processo di osservazione- partecipazione e relegava gli "altri" in un ruolo secondario, si giunge ad una
riflessione sulle modalità di partecipazione dell'antropologo e dei suoi interlocutori ad un processo di
negoziazione dei significati mirante a stabilire un "dialogo fra culture".
All'inizio dell'esperienza di ricerca ciò che viene visto e udito dall'antropologo viene ricondotto entro
l'orizzonte della propria cultura poi la "sfera comune" di significati (comune tra etnografo e suoi
interlocutori) diventa sempre più dipendente dalle espressioni fisse permanenti (secondo Dilthey). Queste
non possono emergere se non in uno scambio fra soggetti comunicanti e sono alla base del mondo condiviso
(secondo Dilthey).
L'idea di esperienza etnografica come "apprendimento di regole" si rifà alle nozioni di Ludwig Wittgenstein
di gioco linguistico, forma di vita, regola, "seguire la regola", tutte fra loro interrelate. Secondo Wittgenstein
il nostro modo di essere nel mondo è sempre mediato da un linguaggio e la nozione di partecipazione ad un
contesto comunicativo si risolve in quattro livelli:
Viola Donarini Sezione Appunti
Antropologia culturale (l'esperienza e l'interpretazione) di Ugo