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PSICOFARMACI


Farmaci psicoattivi: sostanze che agiscono alterando l’umore, i processi di pensiero o il comportamento che sono usate per trattare le malattie psichiche. Tutti gli psicofarmaci curano i sintomi, non la malattia e gli ansiolitici e gli antidepressivi vengono proposti come terapie di mantenimento, cioè terapie croniche, come avviene per ogni malattia che può essere curata ma non guarita.
Probabilmente il metodo più utile di classificare dei farmaci è quello che si basa sui loro effetti comportamentali più caratteristici o sul loro uso clinico principale. Quindi gli effetti comportamentali di uno psicofarmaco ne determinano la classificazione. Vengono detti anti-depressivi o ansio-litici perché descrivono un comportamento che sopprimono, presupponendo che un comportamento sia riconducibile a un unico significato indipendente dal contesto, dall’osservatore e dal soggetto che lo esprime.
La psichiatria classifica i comportamenti attraverso un manuale diagnostico che ha il suo fondamento “scientifico” nell’azione degli psicofarmaci e ogni diagnosi è accoppiata a un farmaco che modifica i comportamenti patologici evidenziati dalla diagnosi. Gli psicofarmaci sono al contempo il prodotto di ricerche neurobiologiche su persone con una diagnosi psichiatrica e lo strumento principale della classificazione della diagnosi.
Esempio: “ I neurolettici nascono come an-estetici e riducono la percezione degli stimoli esterni, quindi dell’ambiente. Ma la sedazione senza perdita di coscienza, il disinteresse e il distacco per gli stimoli esterni sono sintomi cardine (secondo il DSM) di patologie come la depressione maggiore e alcune sindromi schizofreniche”.
Dunque il modello psicofarmacologico non è ancora riuscito a portare guarigione proprio perché non è in grado di proporre diagnosi di tipo eziologico, dato che la malattia mentale non può fare a meno di essere definita attraverso criteri di normalità che hanno riferimento nel sociale.

Tratto da LE RADICI CULTURALI DELLA DIAGNOSI di Carla Callioni
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