Il principio di determinatezza: il divieto di analogia
Il divieto di analogia è rivolto al giudice ma anche al legislatore non consentendogli di prevedere nel testo normativo un espresso richiamo a questa tecnica interpretativa.
Ad esempio l’art. 600 c.p. è stato modificato perché parlava di stato di “schiavitù o stati analoghi”.
Le fonti del divieto di analogia si trovano all’art. 1 c.p. col termine “espressamente”, all’art. 14 prel. c.c., all’art. 119 c.p., all’artt. 252-253 cost., in campo amministrativo all’art. 1-2 l. 689/81 che dice: “le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi in esse considerati”.
Il fondamento del divieto di analogia si trova nell’essenza stessa dell’operazione analogica, la quale consiste nel considerare simile una situazione concreta con una norma penale.
Questo accomunamento viene fatto dall’interprete privilegiando quegli aspetti della questione che tendono ad accomunare caso e legge a scapito di altri punti di vista che invece gli allontanano.
Si tratta cioè di una scelta tra interessi e tale scelta, come già visto nel principio di legalità, è riservata al legislatore in virtù della tutela dei contro-interessi, ed è preclusa al giudice; oltre al rispetto della democraticità nella produzione di diritto penale.
Il divieto di analogia tutela la certezza del diritto, in quanto l’analogia introdurrebbe fattispecie non previste impedendo ai cittadini di conoscere i comportamenti cui debbono astenersi, e infine si tutela la frammentarietà del diritto penale in quanto l’analogia comporterebbe un allargamento di ciò che è penalmente rilevante.
Rilevanza fondamentale assume quindi la distinzione tra semplice attività interpretativa, perfettamente legittima, e analogia.
Entrambi questi procedimenti logico-valutativi procedono per somiglianze: gli “atti sessuali” di cui all’art. 609 bis c.p. ricomprendono non solo la congiunzione carnale ma anche tutta un’altra serie di atti di libidine ragionando per interpretazione, mentre ricondurre il pedinamento alla fattispecie di cui all’art. 615 bis c.p. sarebbe un’operazione di analogia.
La differenza tra queste due operazioni è che nella prima non si esce dal senso linguistico del termine usato dal legislatore, mentre nel secondo ci si spingerebbe troppo avanti fino ad uscire dal termine linguistico compromettendo così la validità dell’operazione.
Parlando della portata del divieto si può dire innanzi tutto che l’analogia è sempre vietata per le norme sfavorevoli.
Per quel che riguarda quelle favorevoli esistono varie correnti di pensiero: chi sostiene che il divieto tuteli esigenze di certezza del diritto allora considera il divieto perfettamente valido anche per le norme favorevoli, chi invece ritiene portante il fondamento garantista del divieto sarà portato a concedere l’analogia sulle norme favorevoli.
La soluzione risiede nella natura di queste norme favorevoli: se sono eccezionali l’analogia è vietata ex art. 14 prel. c.c., come ad esempio le cause di non punibilità e di estinzione della responsabilità, se non sono eccezionali ma sono comunque tassative od omni-comprensive il divieto permane, vedi lo stato di necessità che riguarda espressamente solo il rischio di pregiudizi personali e non patrimoniali; in questi casi non c’è lacuna che giustifichi l’analogia.
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Dettagli appunto:
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Autore:
Stefano Civitelli
[Visita la sua tesi: "Danni da mobbing e tutela della persona"]
- Università: Università degli Studi di Firenze
- Facoltà: Giurisprudenza
- Esame: Diritto penale I, a.a. 2006/2007
- Titolo del libro: Corso di Diritto Penale
- Autore del libro: Francesco Palazzo
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