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La nozione di luogo drammatico a teatro


Non c'è teatro che non sia dell'uomo ma il dramma cinematografico può comunque fare a meno di attori. Una porta che sbatte, una foglia al vento, le onde che lambiscono una spiaggia, possono raggiungere il massimo potere drammatico. A teatro il dramma parte dall'attore, al cinema va dall'ambiente all'uomo. Tale inversione dei poli drammatici è di un'importanza decisiva e interessa l'essenza stessa della regia. Dobbiamo a questo punto chiarire una nozione specificamente teatrale: quella del luogo drammatico.
La nozione di luogo drammatico
Non potrebbe esistere teatro senza architettura, sia esso il vestibolo della cattedrale, il palazzo dei papi o il palco da fiera. Gioco o celebrazione il teatro non può confondersi con la natura, pena il dissolversi in essa e dunque il cessare di esistere. Fondato sulla coscienza reciproca dei partecipanti presenti, esso ha bisogno di opporsi al resto del mondo come la recitazione alla realtà, la complicità all'indifferenza, la liturgia alla volgarità dell'utile. Costumi, maschere, trucchi, stile del linguaggio contribuiscono sicuramente a questa distinzione ma il segno più evidente ne è il palcoscenico, la cui architettura ha variato senza cessare però di definire uno spazio privilegiato, realmente o virtualmente distinto dalla natura. È in rapporto a questo luogo drammatico localizzato che esiste la scenografia, che contribuisce a distinguerlo, a specificarlo. La scenografia costituisce le pareti del palcoscenico e nessuno ignora ciò che realmente avviene quando l'attore si ritira nei suoi appartamenti o va comunque via dalla scena; semplicemente sta al gioco. Nel cinema, invece, il principio è quello di negare ogni frontiera all'azione. Il concetto di luogo drammatico non solo è estraneo ma essenzialmente contraddittorio con la nozione di schermo. Lo schermo non è una cornice come quella del quadro ma un mascherino segreto che non lascia scorgere che una parte dell'avvenimento. Quando un personaggio esce dal campo della macchina da presa siamo disposti ad ammettere che esso sfugge al campo visivo, ma per noi continua ad esistere identico a sé stesso in un altro punto della scena, che ci è nascosto. Lo schermo non ha quinte, non potrebbe averne senza distruggere la sua specifica illusione, che è di fare una pistola o di un viso il centro stesso dell'universo. Al contrario di quello del palcoscenico, lo spazio dello schermo è centrifugo.
Dato che l'infinito di cui il teatro ha bisogno non potrebbe essere spaziale, esso può essere solo quello dell'anima umana. Circondato da questo spazio chiuso, l'attore è nel fuoco di un doppio specchio concavo. Dalla sala e dalla scenografia convergono su di lui i fuochi oscuri della coscienza e le luci della ribalta.  Ma il fuoco di cui egli brucia è anche quello della propria passione e del suo punto focale; egli accende nello spettatore una fiamma complice. Sullo schermo, invece, l'uomo cessa di essere il punto focale del dramma per divenire il centro di un universo. L'urto della sua azione può sviluppare le sue onde all'infinito; la scenografia che lo circonda partecipa dello spessore del mondo. Perciò, come tale, l'attore può anche essere assente poiché l'uomo non gode qui di nessun privilegio a priori sull'animale o sulla foresta. Tuttavia niente esclude che esso sia la molla principale e unica del dramma e in ciò il cinema può benissimo sovrapporsi al teatro. In quanto ad azione quella di Fedra o di Re Lear non è meno cinematografica che teatrale, e la vista della morte di un coniglio ne La regola del gioco ci commuove come quella, raccontata, del gattino di Agnese.

Tratto da CINEMA E TEATRO TRA REALTÀ E FINZIONE di Gherardo Fabretti
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