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Il cinema di poesia di Pasolini e la soggettività



Entro le teorie ontologiche, Pasolini costituisce una figura atipica, e la sua teorizzazione deriva dagli Elementi di semiologia di Barthes (1964), rifacendosi a Longhi (teoria dell’arte visiva) e alla “Stilkritik” di Auerbach e Contini; Deleuze ripropone molti temi di Pasolini con un vigore filosofico assente in quest’ultimo. I 2 saggi fondamentali sono “Il cinema di poesia” (1965) e “La lingua scritta dell’azione” (1966; “della realtà” nell’edizione 1972), relazioni presentate al festival di Pesaro in cui si afferma la semiologia francese strutturalista; il primo saggio si rifà al formalismo russo e alla determinazione della categoria di “letterarietà” con la contrapposizione “lingua di poesia” e “lingua di prosa” (Sklovskij), e Pasolini sostiene l’irrazionalità del cinema che lo oppone alla razionalità della prosa, e perciò condanna la “narrazione” a favore della “espressione”; il cinema è pregrammaticale e prestorico, ma è stato piegato alle esigenze della narrazione, e comunque mantiene la forza eversiva dell’universo espressivo non codificato; la “poesia” del cinema si realizza mediante l’inclusione della soggettività del poeta, compiuta dalla “soggettiva libera indiretta” analoga al “discorso libero indiretto” letterario, un’inquadratura che caratterizza il punto di vista di un personaggio (“soggettiva”) ma stabilisce una programmatica indistinzione tra autore e personaggio; il cinema di poesia è stabilito dall’uso pretestuale della soggettiva libera indiretta (Deserto rosso di Antonioni), ossia dallo scambio di punti di vista tra autore e personaggio, con lo svuotamento dell’inquadratura dai personaggi e un’attenzione ai dettagli non contestualizzati come soggettiva dei personaggi, in un’antinarratività che definisce la “lingua di poesia” come forza centrifuga rispetto alla “chiusura di senso” narrativa.

Tratto da SEMIOLOGIA DEL CINEMA di Massimiliano Rubbi
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