Il fiabesco in play-back
Eppure, Wild at Heart si costruisce sulla base di un plot narrativo tra i più classici; un eroe, dopo un allontanamento, deve riconquistare la propria principessa, passando attraverso delle tappe che ne qualifichino opportunamente la competenza, fino a una prova decisiva dove la schiera degli oppositori sia finalmente vinta o messa fuori gioco: la glorificazione finale è data dal matrimonio. Apparentemente nulla di nuovo sul fronte della fiaba occidentale.
La fiaba incontra il fumetto in Wild at heart, e il “riduzionismo psicologico” - proprio quan-tomeno di ciò che si è soliti chiamare il “fumettistico” - diviene quasi un alibi per i protagonisti, la cui profondità affettività e cognitiva è al massimo una doppia imbiancatura, a base di passioni smielate e ideali d’accatto, sulle mura di una stanza del pensiero desolantemente vuota. Ogni spessore psicologico è quadro posticcio appeso di volta in volta alle quinte della scena in modo da poterla rinviare al catalogo da cui trae origine: la banalità del quotidiano. In bocca ai protagonisti, le frasi giungono come trasmesse da un altrove metatestuale, come se tutto fosse, più che una recita, un doppiaggio. La vita di Sailor e Lula è un playback di tutto ciò che hanno introiettato, in un affastellarsi di discorsi mal compresi, trasmessi dalla radio della contemporaneità; quando si trovano le “stazioni giuste”, sono discorsi che muovono le labbra e danno voce a uno straccio di opinione. La vibrazione psicologica dei personaggi risiede casomai nello iato tra, da una parte, la “sintonizzazione” con le pose conversazionali trendy e i testi di miti che canzoni, dall’altra, la slabbratura del presente affetto dal ricordo di un’infanzia violata e dalla prefigurazione di un futuro incerto. Anche i ricordi, tuttavia, sono “scene madri” di film “passati” o mitizzazioni posticce della perdita della propria verginità (retrodatazione “eroica” del proprio incontro con il peccato).
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