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Poteri illegittimi e diritto alla rivoluzione in Locke



Il potere è illegittimo se si fonda sulla forza e sulla sopraffazione: la forza non costituisce diritto. Il dispotismo si giustifica solo temporaneamente nei casi in cui un conquistatore usa la forza nei riguardi delle terre conquistato. In ogni caso tale forza deve ricadere solo su chi ha voluto una guerra ingiusta, o chi l’ha combattuta direttamente e persa. Chi non la voleva o si è tirato indietro non deve subirne le conseguenze. Ad ogni modo neanche un despota che vince una guerra giusta ha diritto di dominio politico sulle terre conquistate: i vinti, una volta che si è dissolto il potere sono liberi di costituirne uno nuovo. Chiunque giunga ad esercitare il potere attraverso meccanismi diversi rispetto a quelli previsti dalle leggi, non ha diritto all’obbedienza, anche se mantiene intatta la forma di governo. La conquista, l’usurpazione, la tirannia allora restituiscono il potere sovrano direttamente al popolo.
Tra i grandi giusnaturalisti allora, solo Locke riconosce il diritto alla rivoluzione, ossia la resistenza a un potere illegittimo. In Hobbes e Spinosa, lo stato pecca per lo più per difetto, ossia non garantisce ciò di cui i sudditi avrebbero bisogno. In Locke lo stato pecca invece per lo più per eccesso: attraverso la trasgressione delle leggi. Ne conseguono due concezioni diverse di obbedienza: incondizionata nel primo caso, dipendente dalla lealtà del sovrano nel secondo. Ad essere precisi però, secondo Locke non si dà mai rivoluzione, semmai “restaurazione” di un potere che ha agito illegittimamente. La forza allora va opposta soltanto alla forza, ossia se non è possibile in alcun modo ricorrere alle leggi. La resistenza è legittima, anzi necessaria se atti legali colpiscono la maggioranza o se l’oppresiione, sia pure di una minoranza, minaccia le leggi, i beni, la libertà e quant’altro è costitutivo della vita di ciascuno.

Tratto da STORIA DELLA FILOSOFIA MODERNA di Carlo Cilia
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