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I filosofi della Scuola di Milano


I filosofi della Scuola di Milano (Antonio Banfi capostipite) hanno particolarmente influenzato gli architetti della Scuola di Milano tra cui E.N. Rogers.

Dino Formaggio, allievo di Banfi parla della forma concreta di un’opera e promuove la rivalorizzazione di qualcosa che sta dietro la sua forma ma anche la sua funzione.
Egli ritiene che la dimensione tecnica, ovvero materica e processuale, degli artefatti è essenziale ed è sbagliato istituire gerarchie che svalutano le arti caratterizzate da una matericità e da una processualità tecniche maggiori.
La funzionalità delle arti non è da svalutare ma da riconoscere infatti un oggetto artistico lo è proprio perché funziona bene (vedi Kant con il concetto di bellezza aderente quando parla di architettura) questo “funziona bene” significa che rappresenta la nostra spazio-temporalità, la funzione non è antitetica alla bellezza ma collaborativa.
Formaggio radicalizza la posizione di Banfi secondo cui l’arte è la sua forma ovvero il suo processo di costruzione materica.
L’arte non è solo scansione interiore ma vuole divenire azione la quale è vincolata a determinate materie per cui il lavoro dell’architetto è il massimo esempio di un iter costruttivo concentrato sulla matericità e la processualità.
L’architettura carica il significato tecnico della nozione di forma la quale risulta essere l’unione della varietà straordinari delle tecniche presenti e dell’esperienza fruitiva.

Un’altra articolazione di forma è rappresentata da alcuni autori della corrente del purovisibilismo che si occupa del rapporto tra architetture ed empatie, c’è ancora al centro la forma concreta che indica il riconoscimento tra l’essere umano e la forma architettonica che abita, laddove c’è questo riconoscimento c’è buona architettura in caso contrario siamo di fronte ad un’architettura fallimentare.
Esiste una relazione importante tra le caratteristiche fisiognomiche dei soggetti e le caratteristiche formali degli oggetti fruiti, la forma architettonica è comprensibile attraverso la fisiognomia urbane per cui gli elementi dell’architettura si lasciano definire a partire dalle esperienze vissute da ogni essere umano (La materia è pesante e tende verso il basso e l’essere umano ha esperienze della potenza del peso attraverso corpo umano, ovvero occorre comprendere cosa impedisce di cadere al suolo ed è la forza contrapposta alla gravità che si può chiamare volontà, vita oppure forza formale).

Arnheim, autore di “La dinamica delle forme architettoniche”, afferma che la visione di una forma è fondamentale nella fruizione dell’oggetto architettonico perché una buona forma è sempre portatrice
di espressione significativa ovvero sostiene che non sia possibile comprendere la forma di un elemento come la porta senza metterla in relazione con la sua funzione infatti la fame, il freddo e la paura vanno di pari passo con il bisogno di privacy ed armonia.
Egli parla di esteticità formale riferendosi al fatto che la forma è l’unico modo che l’architettura ha per rappresentare la risposta ad un bisogno.
Le forme non sono superflue ma rappresentano la soluzione per risolvere un problema o un bisogno come ad esempio il riparo dal freddo.
È importante distinguere l’autonomizzazione della forma dalla sua assolutizzazione in quanto nel primo caso la morphè continua ad essere legata ad un èidos mentre nel secondo caso si è di fronte ad una morphè sciolta da qualsiasi èidos (ad esempio una stazione ferroviaria caratterizzata da una morphè assoluta, significa che la morphè non permette di entrare in relazione con l’èidos che corrisponde alla sua destinazione funzionale e quindi sarà probabilmente una struttura complicata che rende difficile il raggiungimento dei binari).

Nel Novecento si sviluppa anche la corrente del coerentismo secondo cui è la coerenza tra le parti e l’interno a risolvere l’identità di un oggetto e non la corrispondenza con un’èidos.
Il coerentismo si basa sulla nozione di verità secondo la quale un’affermazione è vera se è coerente con la totalità delle affermazioni che unite rappresentano la teoria generale di riferimento (è possibile quindi assumere una teoria di riferimento, stile X, e verificare la legittimità dell’oggetto architettonico A che viene realizzato attraverso la sua relazione con lo stile X e non con tutte le ragioni che sono invece estrinseche allo stile X).
In questo caso il pericolo è che si realizzano architetture che non hanno il potere di fare entrare in relazione con qualcosa di altro da sé ovvero con i bisogni umani da soddisfare.

Umberto Eco sottolinea invece la necessità dell’architettura e della sua forma di avere a che fare con altro da sé in quanto la forma è decisiva nella determinazione dell’identità dell’architettura.
Ne “La struttura assente” parla dell’elemento della scala la cui forma obbliga ad un particolare tipo di agire (muovere i piedi in successione) – la forma della scala agisce su di me come uno stimolo necessitante: se voglio passare dove c’è una scala devo alzare i piedi.

Tratto da ESTETICA DELL'ARCHITETTURA di Francesca Zoia
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