APPROFONDIMENTI
Quando Georges Feydeau parla di Georges Feydeau
L’ironica autobiografia di uno dei più grandi commediografi francesi
Nel 1908 il direttore del quotidiano parigino Le Matin chiese a Georges Feydeau di scrivere un articolo in cui doveva parlare di se stesso e del suo mestiere. Vincendo la sua ritrosia, e sotto le pressanti insistenze del direttore del giornale, Georges Feydeau scrisse un testo di tre colonne che venne pubblicato il 15 marzo di quello stesso anno.
Quello che ne esce è il ritratto di un autore capace di parlare dei suoi ricordi infantili e delle difficoltà affrontate nel mestiere di commediografo, senza per questo mai perdere la sua profonda autoironia e quella voglia di giocare con il pubblico e con i lettori spiazzandoli a ogni riga.
"De la apresse à la gloire. Comment je suis devenu vaudevilliste", Le Matin, 15 marzo 1908.
Il testo originale in francese è disponibile sul sito della Bibliotèque Nationale de France.
È più facile fare il vaudevillista che spiegare perché lo si fa. Tuttavia, cercherò di fornire una spiegazione in merito.
Innanzitutto devo dirvi che quest’ultima cosa sono costretto a farla, poiché il quotidiano Le Matin mi aveva pregato di scrivere un articolo a riguardo. Dovevo parlare di me stesso. Ora, modestia a parte, parlare di se stessi è sempre molto imbarazzante. Quando si svolge un mestiere, soprattutto come il mio, si è talmente abituati alle insidie da arrivare a dubitare perfino di se stessi. Ero venuto con l’idea di scusarmi e darmela a gambe, ma è successo che dopo un po’ mi sono ritrovato rinchiuso in uno studio, confortevole, di questo devo darne atto, e adeguatamente illuminato, e, attraverso la porta chiusa, ho sentito una voce che gridava: “Vi lascerò andare solo quando mi avrete consegnato le pagine che mi avete promesso…”. Ho riconosciuto la voce di colui che si esprimeva in tal modo, un irriducibile tiranno, e allo stesso tempo ho dovuto ammettere che in effetti le avevo promesse, quelle pagine sulla mia vocazione.
Quasi una scena da vaudeville. Perfetto. Sono dunque rassegnato a fare quanto mi si chiede, tanto più che fremo dalla voglia di tornare libero. Oh, libertà!... Insomma…
Come sono diventato vaudevillista? È molto semplice. Per pigrizia, tutto qui. Come! la cosa vi stupisce? Ignorate dunque che la pigrizia è la madre miracolosa e feconda del lavoro.
E dico miracolosa perché il padre è completamente sconosciuto.
Ero ancora bambino, avrò avuto sei, sette anni. Non ricordo. Una sera mi hanno portato a teatro. Che commedia davano? L’ho dimenticato. Ma tornai a casa pieno di entusiasmo. Ero colpito. Il male si era appena impossessato di me.
Il giorno seguente, dopo aver passato una notte insonne, mi alzai all’alba e mi misi subito al lavoro. Mio padre mi sorprese all’opera. Con la lingua di fuori e la mano febbrile, lisciandomi i capelli arruffati dall’insonnia, ero intento a scrivere una commedia, tutto qui.
- Cosa fai lì? chiese lui.
- Scrivo una commedia teatrale. Risposi con risolutezza.
Un paio d’ore dopo, quando l’istitutrice incaricata di inculcarmi i primi rudimenti di tutte le scienze in uso – una gran bella signorina, ma di una noia! – venne a cercarmi dicendo:
- Andiamo su, signor Georges, è ora.
Mio padre intervenne dicendole a bassa voce:
- Lasciate Georges tranquillo, ha già lavorato stamattina. Ha fatto una commedia. Lasciatelo tranquillo.
Capii immediatamente che quella era la mia salvezza, lo stratagemma di salvataggio. Da quel giorno benedetto, tutte le volte che mi dimenticavo di fare i compiti o di studiare, situazione che, credete a me, a volte si verificava, mi precipitavo sul mio quaderno dei drammi. E l’istitutrice, sbigottita, mi lasciava in pace. Non si conoscono mai abbastanza le risorse della drammaturgia.
È così che ho iniziato la mia attività di vaudevillista.
Poi, ho continuato.
In collegio, a Saint-Louis, scrivevo dialoghi eroici e crepitanti, ma siccome il sorvegliante me li sgraffignava a mano a mano che li componevo, e io non ho conservato il benché minimo ricordo di quei capolavori scolastici, non mi dilungherò oltre sull’argomento. Tuttavia, a partire da allora, fui pervaso da un violento fervore per il teatro. Autore? Attore? Per me non faceva poi molta differenza. Ricordo di aver organizzato, o piuttosto provato, con de Féraudy, mio condiscepolo, benché lui fosse nella classe dei grandi quando io ero ancora in quella dei piccoli, una rappresentazione in una sala che avevamo affittato, vicino alla rue Boissy-d’Anglas. Dovevamo mettere in scena Le Gendre de Monsieur Poirier (Il genero di Monsieur Poirier dei drammaturghi Augier e Sandeau. N.d.T.).
Una serie di circostanze impedirono che l’evento avesse luogo, ma ad ogni modo l’intenzione c’era.
Fu tempo dopo, quando ero nel 74° reggimento di linea, e scusate l’immodestia, che scrissi la mia prima grande commedia: Sarto per signora.
Gli attori Saint-Germain e Galipaux interpretavano i ruoli principali. Fu un successo. Quanta gioia! Quante speranze! Ahimè! le cose non andarono come benevolmente pensavo. Fui costretto a ricredermi. Conobbi l’angoscia dei mezzi successi. Avevo già una certa filosofia, naturalmente, senza contare l’esperienza, poi. Mi ricredetti, dunque, ma non mi persi d’animo. Al contrario, cercai di capirne le ragioni. E le trovai, visto che sono cocciuto. Con la cocciutaggine e la pigrizia indubbiamente si riesce sempre a tirar fuori qualcosa.
Ricordo che all’uscita dalla rappresentazione di Sarto per signora, avendo incontrato Jules Prével, quest’ultimo mi disse con un tono che non dimenticherò mai: “Stasera hanno sancito il vostro successo, ma ve lo faranno pagare caro.”
Mai nessuno mi aveva detto cosa più saggia e più vera.
Nel frattempo, mi accorsi che i vaudevilles erano invariabilmente costruiti su trame desuete, con personaggi convenzionali, ridicoli e falsi, dei fantocci insomma. Ora, mi venne in mente che ognuno di noi nel corso della vita si trova ad affrontare situazioni vaudevillesche, senza tuttavia che in questo gioco venga meno la nostra singolare personalità. C’era bisogno d’altro? Mi sono messo immediatamente a cercare i miei personaggi nella realtà, personaggi autentici e, mantenendo invariato il carattere che gli era proprio, mi sforzai, dopo un proemio da commedia, di gettarli in situazioni ridicole.
La parte più difficile era fatta, restavano solo da scrivere le commedie, cosa che, per un buon vaudevillista, come voi ben sapete, si riduce a un gioco da bambini.
Sono riuscito a raggiungere il mio obiettivo? Se ne dubitassi sarei un ingrato verso il pubblico che mi ha prodigato i suoi applausi, e che a volte ha riso di gusto, quando la mia unica intenzione era piacergli e farlo ridere quanto più possibile. Ma sono le lettere, giunte da ogni dove, quelle che davvero vi dimostrano di aver ottenuto la gloria tanto sognata. E quante ne ho ricevute! Una, va. Un giorno, un signore che si firmava J. B. mi scrisse da Bordeaux chiamandomi “caro maestro” e decantando oltre il mio buon gusto, il mio spirito sensibile e il mio immenso talento. Queste sono le sue esatte parole. Assieme alla lettera mi inviava un manoscritto, una prestigiosa commedia di spirito, sosteneva lui, sulla quale, per gentilezza, chiedeva il mio parere, offrendomi di diventare suo collaboratore.
La commedia superava i limiti del consentito in fatto di idiozia. La rispedii al suo modesto autore accompagnata dalle mie scuse.
Ora, meno di una settimana più tardi, ricevetti dal mio corrispondente bordolese una lettera furibonda. Mi trattava come uno zerbino, e concludeva il discorso con queste parole di squisita cortesia:
“E poi, io vi mando a fan…!”
Alle quali risposi serenamente:
“Non siete più un mio fan, adesso, caro signore, perché ho finito di leggere la vostra commedia”.
Non successe altro, ma era pur sempre gloria.
Georges Feydeau
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