APPROFONDIMENTI
La ricerca linguistica e letteraria italo-spagnola nel XVI secolo
Nei primi anni del secolo XVI si evidenziano e raggiungono il loro massimo splendore tutte le espressioni della ricerca linguistico - letteraria nella cultura umanistica.
Nei primi decenni del secolo XVI, nei quali per le reiterate guerre, per le invasioni straniere e le indubitabili e note ripercussioni che si ebbe con la scoperta delle Americhe, si prepara e si va già delineando la decadenza politico economica del nostro Paese, perdura una fioritura di scrittori che raggiungono, con le loro Opere, una completa e matura manifestazione artistica.
Si deve tener presente che ancora oggi la ricerca linguistica letteraria è argomento d’indagine e d’analisi da parte d’eminenti studiosi che si sono interessati dei problemi tanto teorico letterari che linguistici. Data la complessità degli autori, mi soffermerò solo su coloro che hanno suscitato in me particolare interesse.
L’attività linguistica si amplifica in Italia e Spagna nel secolo XV e XVI, facendo conoscere in lingua castigliana Opere di diversi autori latini, italiani e greci. Ciò che sappiamo è che in Spagna, all’epoca dei Re Cattolici, gli studi linguistici si pongono da modello, raggiungendo una conoscenza più diretta, scientifica ed orientata verso la cultura classica. Grazie alla stampa, alla fondazione d’importanti Università e nel visitare la terra spagnola da parte d’umanisti italiani e grazie anche alle relazioni politiche e culturali con l’Italia, la letteratura italiana e la greco- latina cominciano ad influire congiuntamente in Castiglia, e con ciò anche i modelli preferiti della letteratura italiana, i tre grandi del secolo XIV: Dante, Petrarca e Boccaccio. È con Elio Antonio de Nebrija, la figura culmine dell’umanesimo spagnolo con la sua Arte de la lengua castellana, a costituire la prima grammatica scritta in lingua volgare.
La sua Opera stabilisce alcune norme che corrispondono alla struttura del castigliano e che facilitano lo studio del latino, dove i nuovi sudditi di Spagna apprenderanno la lingua dai loro conquistatori dato che, come ci racconta Nebrija, l’idioma segue il potere. Lui fu il primo che applicò al castigliano lo studio grammaticale fino allora riservato alle lingue classiche.
Maggiore interesse letterario offrono le idee filologiche e lo stile di Juan de Valdés, nella sua grande Opera: Diálogo de la lengua.
Valdés considera il castigliano identità propria, con indipendenza dal latino. Lui maneggiava con scioltezza il latino, il greco, l’ebraico e doveva godere in Italia di un certo prestigio e considerazione. Afferma anche di essere appassionato di studi linguistici.
In Italia le polemiche sulla questione della lingua erano in pieno fervore. Bembo scrisse le Prose della Volgar lingua e considerò opportuno favorire i pochi studiosi della lingua volgare con un tema attualissimo, che in quel tempo costituisce una materia malleabile, suscitando nei dialoganti una moltitudine di risonanze che concordano nei vari aspetti del mondo della cultura.
Le sue asserzioni in difesa del volgare sono contro Ercole Strozzi, che afferma la superiorità e l’eccellenza nello scrivere in lingua latina, ponendo come modello i migliori scrittori toscani del secolo XIV: Petrarca per la poesia, Boccaccio per la prosa1 .
Valdés in questi anni imparava a conoscere la lingua italiana, ma con piacere constatò che il castigliano era lingua molto conosciuta e al principio del suo Diálogo, affermò che <...en Italia así entre damas como entre caballeros se tiene por gentileza y galanía saber hablar castellano>.
Juan de Valdés nel suo Diálogo, rispetta tre termini precisi: 1) la sentenza come senso e chiarezza, 2) l’interessamento come certa enfasi nel tono della personale partecipazione nell’enunciato, 3)l’eleganza che consiste nel guardare alcune norme stilistiche, con una componente del gusto.
Valdés quando scrisse questo Diálogo, tenne presente Cicerone e Petrarca, ambedue menzionati nel Diálogo de la lengua. I personaggi e gli interlocutori sono uomini di lettere come Coriolano, curioso della lingua, Marcio, novizio della lingua e delle armi e Torres, propugnatore della lingua naturale.
Valdés domina l’arte e l’uso della lingua e può intendere la prospettiva di Coriolano come semplice o curioso, ossia <....aficionado...>, che non conosce lo spagnolo, come anche Marcio, novizio della lingua che la intende e sa parlare ma non scrivere e Torres, che è naturale della lingua, ma ignora l’arte. Domina sempre la figura di Valdés, disposto a compiacere gli amici, esercitando la funzione di guida e maestro.
Agli italiani rimprovera la pretesa di superiorità culturale. Marcio come interlocutore del Diálogo e curioso della lingua spagnola (che sa parlare bene, ma non scrivere) rappresenta la cultura ufficiale italiana che Valdés non considera. La lingua spagnola si costituiva in lingua internazionale, ma la questione della lingua nell’ambito italiano poteva per lo più sensibilizzare gli spagnoli su certi temi: per esempio in Italia si discuteva sull’uso toscano o volgare illustre, mentre nell’ambito ispanico non preoccupava gran cosa quale fosse la modalità del castigliano più degna di costituirsi in modello.
Valdés in effetti, considera la mancanza di modelli letterari o d’autorità nell’uso del casigliano, così come Petrarca e Boccaccio sono modelli di lingua toscana; la lingua castigliana, invece: <.....nunca ha tenido quien escriba en ella con tanto cuidado y miramiento.....>, così scrive Valdés.
Per la mancanza d’autorità si supplirà con ragionamenti che a sua volta troveranno un fondamento nell’uso, nella lingua comunemente testimoniata dai proverbi.
Ciò che pensava Valdés, non era la lingua, ma l’uso che di lei avevano fatto gli autori (atteggiamento coincidente con quello di Garcilaso). Per questo lui considera come ricco patrimonio linguistico gli antichi proverbi. Questi sebbene nati tra il volgo, sono testimonianza dell’uso autentico e generalizzato di certe forme lessicali e sintattiche, ma non è definitivo e totale il rifiuto della produzione letteraria tradizionale in lingua spagnola.
L’inferiorità letteraria dello spagnolo non è riconosciuta passivamente, ma in se stessa è stimolo a produrre. Valdés partecipa alla concezione del tempo che vede la lingua in funzione della letteratura, ma non è questa la sua unica prospettiva perché a volte considera la lingua come patrimonio oggettivo, prodotto dall’uso e corruzione del latino. Valdés difende anche l’uso toledano – cortigiano, d’accordo con ciò che sosteneva Garcilaso e contro la metodologia del grande “andaluz” Nebrija, per cui la riduzione ad arte e a regole era il massimo onore che poteva farsi alla lingua, equiparandola al latino che era giunto al culmine, al suo grado più alto di perfezione.
Ciò che voleva fare Nebrija era regolarizzare il castigliano similmente al latino.
La grande scoperta di Valdés, invece, è l’uso contrapposto all’arte. Mediante l’uso si è imposta la lingua castigliana in Italia. Valdés conosce l’arte, la grammatica, ma non la confonde con la lingua. La divisione del dialogo che tratta la materia nelle otto parti nella quale si ordina la riflessione sulla lingua e sulle questioni grammaticali, danno fede di una necessità pratica di strutturare la materia.
Per Valdés la lingua non materna si deve apprendere da vari angoli: quello dell’uso che è dire, è la conoscenza esaustiva delle sue particolarità; quello dell’arte o dell’organizzazione propria del sapere grammaticale ed infine quello del gusto, discrezione, attenzione e rispetto per coloro che parlano e scrivono bene.
Non basta la pratica della lingua, sennonché è necessario l’apprendistato in letture raccomandate, in connessione con la letteratura.
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1. Vedi l'articolo di Maurizio Faella, Struttura dialogica delle Prose della Volgar lingua.