APPROFONDIMENTI
Alta velocità in Val di Susa: troppo decisionismo o troppo poco?
Da poco più di un mese l’Italia ferroviaria celebra l’avvento dell’Alta Velocità che, con il completamento della direttrice Torino - Salerno previsto per dicembre 2009, costituirà quella che l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, ha definito come: “Metropolitana d’Italia”. Treni veloci, servizi efficienti che stanno alla base di quella che viene considerata una rivoluzione nel modo di muoversi degli italiani col treno; una soluzione che si pone nelle medie distanze come principale alternativa all’aereo. Tanti aspetti innovativi non cancellano più di quindici anni di grande ostilità nei confronti del TAV sia in termini di risorse economiche, investite in maniera spropositata, sia per le aspre battaglie che le comunità locali di tutta Italia hanno combattuto per la salvaguardia del loro territorio talvolta riuscendoci, altre volte andando incontro a veri disastri ambientali come nel caso dell’Appennino tosco emiliano interessato dalla tratta Bologna - Firenze.
In questo grande e variegato contesto l’unico angolino d’Italia in cui c’è qualcuno che non ha mai ceduto è la Val di Susa interessata dal passaggio della linea transfrontaliera Torino – Lione.
La protesta della valle ebbe grande risalto sui media nazionali a fine 2005 quando l’insediamento dei primi cantieri per l’alta velocità venne ostacolato da migliaia di valsusini, scesi in strada per manifestare in modo coeso e deciso contro un’opera calata dall’alto senza la minima concertazione con chi quella valle la conosce e vive da sempre ed è disposto a tutto pur di preservarla .
La vicenda dell’Alta Velocità in Val di Susa rientra tra le situazioni di stallo che coinvolgono quotidianamente in Italia opere più o meno grandi: si tratta di opere ritenute di interesse generale, ma osteggiate dalle popolazioni residenti che le giudicano invasive, pericolose e decidono di mobilitarsi per impedirle. Con questi presupposti appare chiaro che l’impasse in Val di Susa non rappresenta l’eccezione ma la regola, capace di mettere in luce alcune disfunzioni tipiche del sistema politico e amministrativo italiano.
A tal proposito vi sono due interpretazioni contrastanti 1:
Secondo la prima interpretazione la vicenda della val di Susa mostra in modo eloquente l’endemica vulnerabilità del sistema politico italiano rispetto alle pressioni particolaristiche. Nel caso specifico la sproporzione tra i rapporti di forza è,almeno sulla carta, abissale: da un lato abbiamo un’opera che interessa l’intera collettività nazionale, per cui il governo italiano ha assunto stringenti impegni con un altro paese, che è sostenuta dall’Unione Europea anche sul piano finanziario, che è stata oggetto di studi approfonditi per più di un decennio da tecnici italiani e francesi e che è richiesta a gran voce da tutte le forze politiche ed economiche del Nord Ovest e dell’intera valle Padana.
Dall’altro abbiamo l’opposizione di un piccolo territorio di 60.000 abitanti che non vuole subire i costi che l’opera arrecherebbe.
Un sistema politico dotato di un minimo di efficienza dovrebbe essere in grado di risolvere un contrasto così squilibrato di interessi. La soluzione sarebbe relativamente semplice ed è praticata in tutto il mondo in casi analoghi: occorrerebbe individuare soluzioni tecniche capaci di eliminare i rischi per la salute delle popolazioni interessate e minimizzare gli impatti sull’ambiente con tutti gli aggravi di costi che questa soluzione comporterebbe e indennizzare gli abitanti per quei disagi che non possono essere eliminati. Questa strada si è rivelata impraticabile dal momento che i tavoli di confronto che sono stati ripetutamente aperti con gli amministratori della valle non sono riusciti a scalfire la loro posizione di intransigente rifiuto.
L’incomunicabilità che ha caratterizzato le relazioni tra le due parti e che ha finora precluso una soluzione ragionevole deriva da due fattori che sono entrambi riconducibili alle peculiarità del sistema politico italiano. In primo luogo l’opposizione nella valle di Susa ha assunto, fin dall’inizio, un carattere fortemente ideologico: le legittime preoccupazioni dei residenti sono state inquadrate all’interno del frame antagonistico offerto dai gruppi della sinistra ambientalista e radicale che sono riusciti con successo a manipolare i timori della popolazione, amplificando gli effetti negativi che l’opera avrebbe comportato.
Questo ostacolo avrebbe potuto essere forse superato o almeno circoscritto se i promotori dell’opera si fossero mostrati determinati, convinti delle loro ragioni e capaci di seguire senza tentennamenti la l’interesse generale. Qui è intervenuto il secondo fattore.
La frammentazione del sistema politico italiano ha offerto agli oppositori la possibilità di trovare interlocutori politici nazionali in grado di appoggiarli e far valere le loro ragioni. I Verdi e Rifondazione comunista non potevano restare insensibili al richiamo di valori ambientali e alle tematiche no global ed una volta entrati nel governo Prodi l’esecutivo ha dovuto intraprendere la strada del dialogo con le opposizioni locali, perché una linea di maggiore fermezza si sarebbe scontrata con il loro veto.
La Francia dispone invece di un sistema politico assai più compatto e con un numero assai minore di punti di veto. Ha esitato più dell’Italia a impegnarsi nella Torino-Lione perché il collegamento a sud attraverso le Alpi non rappresenta l’unica soluzione possibile, né la più rilevante sul piano strategico. Ma alla fine, dopo che la decisione è stata presa, la Francia ha mostrato di saper tirare dritta sulla sua strada: ha onorato gli impegni, ha avviato i lavori di prospezione e ora sta completando l’iter per l’approvazione definitiva del progetto. La val Maurienne, pur trovandosi di fronte alla medesima opera ed ai medesimi disagi ed essendo dotata di una struttura orografica del tutto analoga a quella della valle di Susa, non ha conosciuto rilevanti movimenti di protesta e ora sta partecipando, pacificamente, all’inchiesta pubblica disposta del governo francese.
La seconda interpretazione racconta invece una storia completamente diversa. Alla radice dell’impasse nella valle di Susa vi è piuttosto la fragilità della discussione pubblica su un opera di tale portata. Tutto il lavoro progettuale è ruotato attorno ad un punto fisso definito fin dall’inizio e mai rimesso in discussione: il tunnel di 50 km sotto le Alpi.
Per quindici anni si è lavorato su questa idea originaria cercando di dimostrarne la fattibilità tecnica e finanziaria ed immaginando quali vantaggi potessero derivarne sul piano trasportistico, ambientale ed economico. Le possibili soluzioni alternative sono state analizzate ritualmente e scartate, senza prenderle veramente sul serio. La soluzione infatti c’era già. Il grande tunnel è apparso perciò come una soluzione alla ricerca di un problema: con il passare del tempo il problema da risolvere è stato ridefinito, ma la soluzione è rimasta immutata.
Il problema è sorto quando la soluzione prescelta è stata pubblicamente contestata con argomenti credibili e sono state proposte soluzioni alternative plausibili. In questo caso chi sostiene la necessità dell’opera è costretto ad accettare la sfida e offrire alla discussione pubblica ragioni altrettanto plausibili. Nel caso della Torino-Lione questo passaggio è mancato.
La sproporzione tra gli argomenti offerti dalle due parti è sconcertante: contro la Tav sono stati pubblicati svariati libri,a favore nessuno. I proponenti hanno condotto decine di studi su tutti gli aspetti della questione, ma non li hanno messi a disposizione del pubblico, come se si stessero attenendo a un codice di riservatezza aziendale e non stessero invece affrontando un opera pubblica di dimensioni gigantesche. Chi desideri informarsi sulla Torino-Lione troverà più informazioni e documenti originali sui siti No-Tav che sui siti della Ltf o del comitato Transapadana che invece si limitano a un informazione patinata e propagandistica.
I proponenti hanno preceduto a senso unico, con bassissimi margini di flessibilità e si sono poco preoccupati di motivare pubblicamente le loro scelte: lo squilibrio dei rapporti di forza era tale almeno sulla carta che non sembrava necessario impegnarsi nel dibattito pubblico in quanto si era convinti che bastava aspettare e chi aveva più potere alla fine l’avrebbe sicuramente spuntata. Questo senso di sicurezza ha fatto sì che nessuno si preoccupasse di delineare una strategia per affrontare le contestazioni, né quelle tecniche né quelle territoriali.
La Torino-Lione è stata disegnata da un insieme di attori a competenza limitata che non hanno mai affrontato una dialogo serio con il tessuto associativo della valle nè si sono mai preoccupati di sfidare il movimento sulle alternative che esso proponeva. La valle di Susa ha avuto perciò la sensazione di trovarsi di fronte ad un muro non riuscendo a trovare un serio interlocutore: si è avuta la percezione di essere vittima di un decisionismo arrogante e questo aspetto,unito alla mancanza di qualsiasi apertura da parte dei proponenti, ha spinto il conflitto verso il muro contro muro.
Il paragone con la Francia è istruttivo anche per questa seconda interpretazione. Quando quindici anni fa la Francia si trovò di fronte un opposizione del tutto simile e altrettanto ostinata da parte dei vignerons della valle del Rodano contro la linea del Tgv Méditerranée cercò di trarne una lezione e nel 1995 fu varata una legge che imponeva di sottoporre tutte le opere infrastrutturali di una certa importanza a un débat public preventivo in cui fosse garantito l’ascolto di tutti i soggetti interessati da parte di un’autorità indipendente e in cui la prima questione da discutere sarebbe stata: L’opera va fatta? Esistono alternative? Questa procedura non è stata applicata nel caso della Torino- Lione in quanto l’opera è stata avviata prima dell’entrata in vigore della legge, ma è comunque in corso una procedura di ascolto più tradizionale, l’inchiesta pubblica , un istituto che in Italia è ancora sconosciuto.
In Italia di fronte al medesimo problema è stata compiuta, con la Legge Obiettivo, la scelta diametralmente opposta: quella di restringere le occasioni di dibattito, conferendo pieni poteri alle autorità centrali e sottraendo poteri ai governi locali. Il vero ritardo dell’Italia non risiede nell’influenza eccessiva dei gruppi particolaristici,ma nell’incapacità di prendere atto di questo fenomeno e di affrontarlo per tempo attraverso il dialogo e l’ascolto.
Le due interpretazioni offrono diagnosi nettamente contrapposte: la prima mette in luce le enormi difficoltà che l’interesse generale trova sulla sua strada quando incontra gruppi organizzati portatori di interessi particolaristici e attribuisce questa difficoltà ai poteri di veto diffusi nel nostro sistema politico. La seconda evidenzia la chiusura dei promotori e la loro incapacità di ascoltare le voci dissonanti e quindi di definire l’interesse generale in termini credibili di fronte all’opinione pubblica. La prima imputa ai proponenti di non aver saputo tener ferme le loro decisioni., la seconda li rimprovera di averle tenute troppo ferme e di non aver saputo affrontare e gestire il confronto anche quando era evidente che gli oppositori erano forti e sollevavano argomenti dotati di qualche fondamento. C’è stato un deficit di decisionismo per la prima ipotesi, un eccesso decisionismo per la seconda.