APPROFONDIMENTI
In principio fu ET....
...il piccolo extraterrestre che nel 1982 mangiava le caramelle Reese's Pieces. O, forse, faremmo meglio a dire che in principio fu il cinema. Infatti, se la nascita del product placement viene generalmente fatta risalire alla pellicola di Spielberg, analoghi fenomeni si possono riscontrare sin dai primi filmati dei fratelli Lumière, il cui scopo era appunto quello di accrescere il prestigio e la fama della loro società di lastre fotografiche.
Nella società contemporanea, la tecnologia sta rivoluzionando la televisione ed il mondo della pubblicità. Assistiamo oggi ad una crescente pervasività dei messaggi pubblicitari, che hanno invaso gran parte degli spazi disponibili nella moderna comunicazione di massa. Questo sovraffollamento pubblicitario, da un lato provoca una sorta di rigetto da parte del pubblico, che ha ormai imparato a riconoscere ed evitare i tradizionali messaggi pubblicitari; d'altro lato porta le imprese a cercare soluzioni alternative per promuovere il proprio brand. In questo contesto si colloca il product placement: pratica consistente nell'inserimento pianificato di un prodotto o di una marca – in quest'ultimo caso si parla più propriamente di brand placement – in una vasta tipologia di contenuti di intrattenimento, in contesti non specificatamente pubblicitari, in cambio di una somma in denaro o dell'impegno in attività promozionali congiunte.1
In Italia questo fenomeno, sebbene abbia le sue origini già durante il fascismo con i film di propaganda e abbia avuto una notevole diffusione durante gli anni Settanta e Ottanta, è sempre stato visto con una certa diffidenza, spesso assimilato alla pubblicità occulta o ingannevole, fino ad essere espressamente dichiarato illegale con il decreto legislativo 74/1992 sulla pubblicità ingannevole, che lo pone sullo stesso piano della pubblicità occulta per assenza di trasparenza e riconoscibilità. I film che volevano ottenere la cittadinanza italiana dovevano essere quindi assolutamente privi di marchi commerciali o, qualora ve ne fossero, la produzione doveva essere in grado di giustificarli come adeguati ed indispensabili alla narrazione. Il product placement sarà poi riabilitato con la Legge Urbani del 2004 (d.lgs. 28/2004), che lo rende legale anche in Italia e ne disciplina l'utilizzo, rispondendo in parte anche alla necessità di reperire risorse per la produzione aggiuntive a quelle disponibili sul fondo unico per lo spettacolo.
L'inserimento all'interno di un film di marchi, che devono comunque essere coerenti con il contesto narrativo, è consentita a patto che sia segnalata da un non meglio specificato 'idoneo avviso'. Attualmente questo idoneo avviso consiste nella citazione delle aziende in fondo ai titoli di coda e talvolta nella locandina del film, ma è comunque lecito avanzare qualche dubbio sulla reale efficacia di tale segnalazione, considerando la scarsa attenzione che generalmente il pubblico presta ai titoli di coda. Del resto è difficile trovare altre soluzioni praticabili.
Per poter valutare un'operazione di product placement, occorre analizzare la marca nella sua complessità di attributi tangibili e intangibili. Gli attributi tangibili di un brand sono le sue caratteristiche oggettive e di performance, mentre gli attributi intangibili sono rappresentati dal patrimonio di senso e di valori che una marca riesce a veicolare presso il proprio pubblico.
Nella società attuale, dove i prodotti sono sempre più uguali tra loro, non è più sufficiente comunicare l'esistenza di un prodotto e i suoi attributi tangibili, ma occorre porre l'accento, per distinguersi dalla concorrenza, sui valori intangibili, comunicare quindi una propria specifica identità.
Si sta pertanto assistendo oggi ad un crescente orientamento delle imprese verso il cosiddetto marketing relazionale ed esperienziale; le aziende cercano quindi di stabilire una relazione duratura con il proprio pubblico trasmettendo dei valori di marca. Si sta verificando quindi il processo che Codeluppi2 ha definito di 'vetrinizzazione della società', per il quale i consumatori si identificano a tal punto nei valori della marca che questa diviene per essi un vero e proprio emblema, uno status symbol, attraverso cui esprimere una propria identità sociale.
La finzione cinematografica è in grado di modificare abitudini di consumo o di indurre al desiderio, ma il maggiore o minore successo non è dato dal semplice inserimento della marca, quanto piuttosto dalle modalità con cui questo inserimento avviene. Una marca acquista infatti tanta più attrattiva agli occhi del pubblico quanto più ha un ruolo attivo nel procedere della storia e quanto più è associata ad un protagonista.
Un brand può essere infatti collocato in un film come semplice accessorio di decoro, può servire a dare informazioni sul personaggio o può essere utilizzato come risorsa narrativa su cui sviluppare una scena o un dialogo. Far diventare la marca protagonista permette di aumentare il valore e il mito della marca stessa, che in sostanza è lo scopo del product placement.
Tralasciando gli innumerevoli esempi di product placement cinematografico 'tradizionale', un caso particolarmente interessante ed innovativo di placement è rappresentato dal film Voglio la Luna, film che va oltre la definizione di product placement in quanto è stato ideato e prodotto direttamente dal tour operator Hotelplan Italia come strumento per promuovere il proprio marchio. La particolarità di questo film è il coinvolgimento a 360° del personale di Hotelplan: il film è nato infatti da un'idea del direttore tour operating di Hotelplan Italia Marco Cisini e vi recitano gli stessi dipendenti dell'azienda (tra cui Cisini).
Attraverso questo coinvolgimento attivo del personale si trasmette un'idea di fedeltà all'azienda e alla marca che aumenta anche il valore della marca stessa presso il pubblico. Occorre inoltre notare che, paradossalmente, il product placement di Hotelplan Italia e delle aziende partner in Voglio la Luna è meno invadente ed invasivo (e se non altro più integrato nel contesto) rispetto a quello, in molti casi eccessivo, presente in molte commedie italiane che si riducono a pure esposizioni di prodotti. Questo è possibile perché la vera promozione, tanto per Hotelplan quanto per le aziende partner, non deriva tanto dall'inserimento dei propri marchi nel film, quanto piuttosto dal film stesso e dal meccanismo di produzione e promozione ad esso legato; a fronte, infatti, di un numero piuttosto ampio di clienti Hotelplan e lettori di riviste turistiche e cinematografiche che hanno appreso dell'iniziativa, soltanto un esiguo numero di spettatori ha avuto modo di visionare concretamente il film in sala. Voglio la Luna è quindi un prodotto che va ben al di là del tradizionale concetto di product placement configurandosi come un anticipo del meccanismo di tax shelter, introdotto con la finanziaria 2008, che permetterebbe ai privati di investire nel cinema a fronte di un risparmio fiscale, consentendo in tal modo al cinema italiano di uscire dai soliti meccanismi delle sovvenzioni pubbliche.
Lo strumento del product placement può essere valutato sotto diverse prospettive. In primo luogo viene incontro alle esigenze legate alla produzione di un'opera filmica, costituendo una forma alternativa di finanziamento per la produzione. Inoltre, la presenza di marche aggiungerebbe realismo alla storia narrata, le marche fanno infatti parte del quotidiano ed un film senza brand sarebbe irreale, poco credibile.
Dal punto di vista delle aziende, il product placement consente di ottenere maggiore visibilità e notorietà aggirando le barriere poste dal pubblico alla pubblicità tradizionale ed a costi notevolmente inferiori.
A fronte degli evidenti vantaggi del product placement, vi è però indubbiamente anche un lato negativo, consistente nella talvolta eccessiva invadenza dei prodotti nella narrazione.
Viene quindi spontaneo chiedersi: quanto l'inserimento di un prodotto provoca danno allo spettatore e quanto invece questo strumento consente di aumentare la qualità del film, garantendone un maggior realismo, oltre ad un più elevato supporto finanziario?
Una prima risposta a questa domanda la si può trovare nelle righe che seguono, in cui citiamo un estratto dell'intervista al regista Pupi Avati che, ripreso sul set del film Ma quando arrivano le ragazze, spiega il suo punto di vista sul product placement:
"Per quello che riguarda il product placement, io penso che sia uno degli aspetti, tra le varie cose, innovativi di questa legge (Legge Urbani) e uno dei più positivi; nel senso che per anni e anni la produzione italiana ha vissuto sotto la spada di Damocle del rischio della non nazionalità, perché magari si inquadravano una marca di una bevanda o il logo di una marca di automobili o qualcosa del genere.
Ecco, oggi possiamo, invece, liberamente restituire quella che è la realtà che ci circonda, che è fatta da un'infinità di manifesti pubblicitari, di insegne, di oggetti che sono tutti contrassegnati dalle marche. E' evidente che questo produce anche dei vantaggi nei rapporti tra quella che è l'industria proponente di questi stessi prodotti e la produzione cinematografica che ne può trarre qualche vantaggio economico. Tutto questo va straordinariamente bene, a patto che il film non diventi un veicolo pubblicitario, a patto che queste società di intermediazione fra le aziende e la società di produzione e, soprattutto, i registi non diventino dei creativi di spot pubblicitari. [...] Io credo che l'autore cinematografico debba soprattutto obbedire alla narrazione, all'emozione, al proprio buon gusto ed a una propria dignità, quindi io credo che questa collaborazione è valida, è da supportare, è da applaudire, ma a patto che ognuno rimanga rispettosamente nel suo ambito. [...]
Dovranno essere quindi sia gli autori che le agenzie e appunto le società a trovare una via di mediazione, proprio perché il film resti soprattutto un veicolo di emozioni non un veicolo di spot pubblicitari."
Il rischio prospettato da Pupi Avati, ovvero che il film diventi un veicolo pubblicitario, purtroppo si concretizza, sgradevolmente, in molte recenti commedie italiane, che finiscono per apparire come un assemblaggio di vari spot pubblicitari anziché come un testo narrativo coerente e con una propria dignità.
Il rischio a cui si va incontro è quello di giungere ad un cinema in cui i prodotti siano protagonisti indiscussi, perennemente al centro della scena e, quel che è peggio, un cinema asettico, omologato, privo della capacità critica che lo può animare.
Questo è il product placement negativo, il product placement che non vogliamo, che consideriamo ingiusto, e, per il cinema e, per lo spettatore.
Il mondo del cinema ha indubbiamente bisogno del mondo della pubblicità e dei beni di consumo per creare i propri mondi possibili, che però non sono il suo scopo ultimo. Un film deve saper dar vita a questi mondi, che altrimenti rischiano di essere sterili contenitori di forme e non scenari per personaggi e storie.
Il cinema, quello sano, vero, autentico, deve saper commuovere, emozionare, far indignare i propri spettatori. E, soprattutto, farli sognare. Farli sognare di innamorarsi, di sconfiggere il male e le ingiustizie, far sognare qualsiasi cosa, purché non si limiti a far sognare gli oggetti e i marchi.
Si obietterà che la gente sogna anche intorno alle cose e a quello che potrebbe diventare grazie al possesso di un determinato bene, e che questo sogno non è necessariamente negativo.
Crediamo però che in una società dove sempre più si è ciò che si possiede, in una società nella quale conta molto più l'apparire che l'essere, nella quale si è valutati in base alla marca dei propri abiti, del proprio cellulare o della propria automobile, l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che anche il cinema rimarchi la nostra necessità di essere branded per essere qualcuno.
L’importante è, come in tutte le cose, non esagerare.
Note
2.V. Codeluppi, Il potere della marca: Disney, McDonald's, Nike e le altre, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
3. https://marketing.cinecitta.it