APPROFONDIMENTI
La svolta a sinistra del Sudamerica: successi e contraddizioni
Il quadro politico del Sudamerica nel 2008 è sorprendente e inimmaginabile se confrontato con quello di appena dieci anni prima: sono al governo 8 partiti o coalizioni di (centro)sinistra, che diventerebbero 9 se nelle elezioni di aprile in Paraguay prevalesse il candidato dell’opposizione Fernando Lugo. In Argentina Cristina Kirchner del Frente Para la Victoria è diventata presidente dopo il 10 dicembre, succedendo al marito Nestor; in Bolivia governa il Mas di Evo Morales, in Brasile il Pt di Lula, in Cile la socialista Michelle Bachelet (succeduta a Lagos); Rafael Correa di Alianza Paìs governa è il presidente dell’Ecuador, Alan Garcìa del Perù; il Frente Amplio amministra con Tabarè Vàzquez l’Uruguay, mentre in Venezuela il presidente è il colonnello Hugo Chàvez.
Cosa ha portato un continente che ha da poco riabbracciato la democrazia, dopo le terribili dittature che negli anni ’70-’80 sconvolsero l’area, a dare un consenso così diffuso alla sinistra? Quanti tipi di sinistra ci sono oggi in Sudamerica? E cosa hanno ottenuto i rispettivi governi?
I motivi dei trionfi elettorali dei candidati di sinistra alle elezioni presidenziali, prescindendo dalle innegabili specificità di ogni paese, sono essenzialmente quattro:
- La situazione dissestata delle economie dei Paesi dell’area, dovuta in gran parte alla crescita del debito estero e all’adozione del modello neoliberale.
- La revisione ideologica di alcuni partiti di sinistra, che ha permesso loro di abbracciare una fetta più ampia dell’elettorato.
- La capacità dei partiti e degli esponenti di sinistra di attrarre il voto di persone che non avevano mai votato prima.
- Il forte richiamo simbolico dei candidati presidenziali
Per combattere la crisi economica che aveva colpito il Sudamerica negli anni ‘80 fu adottato - su indicazione delle istituzioni di Bretton Woods, cioè Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, cui ci si rivolse per chiedere in prestito denaro - il Washington consensus, ovverosia un modello economico che prevedeva la riduzione della spesa pubblica e ampie liberalizzazioni e privatizzazioni. Le riforme adottate dai presidenti di centrodestra nel “decennio neoliberale” degli anni ’90 hanno avuto l’unico merito di ridurre l’inflazione, storico tallone d’Achille delle economie latinoamericane; in compenso aumentarono la disoccupazione e la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e diminuirono i salari.
La sinistra tradizionale, legata ai dogmi dell’ortodossia comunista, non sarebbe stata in grado di attrarre e capitalizzare politicamente il malcontento generato dalle riforme neoliberali: serviva un processo di revisione ideologica che portasse al ripudio della lotta armata, all’accettazione della democrazia (da non chiamare più con disprezzo, come in passato, “democrazia borghese”) e che rendesse la sinistra attraente anche agli occhi del ceto medio moderato in paesi in cui questo è piuttosto consistente, come Cile e Brasile; al contempo occorreva dare risposte nuove a problemi storici - come la condizione della maggioranza di indios in Bolivia - che non erano mai stati affrontati, per portare più gente alle urne.
Le sinistre sudamericane sono riuscite in ciò, e hanno vinto con dei candidati presidenziali dall’alto valore simbolico: due ex sindacalisti dalle umili origini (Lula in Brasile e l’indigeno Morales in Bolivia), una donna figlia di un militare costituzionalista ucciso dalla dittatura (Michelle Bachelet in Cile nel 2006), personaggi con alle spalle esperienze politiche di maggiore o minore successo (il cileno Lagos, predecessore della Bachelet, era presidente del partito socialista, l’uruguayano Tabarè Vàzquez è stato sindaco di Montevideo, l’ecuadoriano Correa ministro dell’Economia, Kirchner era il governatore della provincia argentina di Santa Cruz e Alan Garcìa era già stato presidente del Perù fra il 1985 e il 1990). Hugo Chàvez era conosciuto dai venezuelani per un fallito golpe contro il presidente Pérez nel 1992.
Proprio attorno alla figura del presidente venezuelano ruota la distinzione fra sinistra “populista” (che sarebbe quella di Chàvez, Morales, Correa e di Nestor Kirchner, che dopo le elezioni dell’ottobre 2007 ha ceduto la presidenza dell’Argentina alla moglie Cristina) e sinistra “riformista” (quella di Brasile, Cile, Perù e Uruguay): il discrimine è l’accettazione delle implicazioni istituzionali della democrazia - che i riformisti fanno propria - e la gestione clientelare e patrimoniale dello Stato, caratteristica dei populisti. A unire i due fronti, quelle che secondo Norberto Bobbio1 sono le caratteristiche precipue della sinistra: l’insistenza sul concetto di uguaglianza e la lotta per un mondo più equo e più vivibile. Questa distinzione di fondo esiste, ed è comoda per un’analisi a grandi linee degli eventi latinoamericani; bisogna tuttavia tenere ben presente che le dinamiche dell’area a sud del Canale di Panama non rispondono alle categorie politiche tipicamente occidentali, data la diversità della storia e la molteplicità d’influssi che da sempre interessano ogni singolo paese. Esemplare è il caso della Bolivia, in cui nel 2005 è stato eletto per la prima volta un presidente indigeno, in un paese a maggioranza indigena: Morales porta avanti un progetto di cambiamento radicale della società che supera il socialismo e si ispira ai valori propri della cultura dei popoli originari2 . Ciò spiega come il presidente brasiliano Lula possa farsi fotografare accanto “all’amico” Fidel Castro e stringere un accordo sulla produzione di etanolo3 con il suo più grande nemico, il presidente statunitense George W. Bush.
Questi anni di centrosinistra sono caratterizzati da un favorevole trend economico, da alcune misure clamorose e dalla presenza di alcune incognite per il futuro.
Il Prodotto Interno Lordo degli Stati governati da partiti o coalizioni di (centro)sinistra cresce regolarmente da tempo, grazie principalmente al boom del prezzo delle materie prime – idrocarburi e generi alimentari su tutti - di cui la regione è tradizionale esportatrice; l’inflazione è quasi ovunque sotto le due cifre e la stabilità macroeconomica dell’area è in aumento. C’è comunque ancora molto da fare per attrarre un maggior flusso di investimenti diretti esteri e contare di più nel mercato internazionale.
La politica interna adottata dai vari paesi ha il comune obiettivo della riduzione della povertà e delle disuguaglianze. Programmi come Chile solidario, Fame zero in Brasile o le Misiones venezuelane si concentrano sulle fasce più deboli della popolazione, cui si propongono di offrire – tramite una serie di sussidi – una risposta alla fame, all’analfabetismo, all’emergenza medica. Lo Stato torna ad avere un ruolo centrale anche nell’economia: non sorprende, dato che anche un recente sondaggio di Latinobarometro ha confermato che i latinoamericani non hanno molta fiducia nell’economia di mercato e nelle imprese private4 .
I governi populisti hanno effettivamente adottato le misure più clamorose: il Venezuela ha rivisto tutti i contratti sullo sfruttamento delle risorse idrocarburifere del paese, aumentando le tasse e diminuendo i profitti delle compagnie petrolifere straniere. La nazionalizzazione dei pozzi nel bacino dell’Orinoco ha portato ad una controversia con strascichi legali con la Exxon, che ha chiesto il blocco dei capitali della compagnia petrolifera statale Petroleos de Venezuela. Il governo di Evo Morales ha invece nazionalizzato gli idrocarburi della Bolivia, e anche il presidente dell’Ecuador Correa ha in mente un provvedimento simile.
Proprio gli idrocarburi e più in generale l’energia sono la chiave di volta del Sudamerica5 : in questo campo le distinzioni fra populisti e riformisti, e le solidarietà fra “fratelli sudamericani” vengono meno, per lasciare spazio ai princìpi della realpolitik. L’area complessivamente produce più idrocarburi di quanti ne consumi, ma è spaccata fra esportatori ed importatori netti: giganti come Argentina e Brasile dipendono in buona parte dal gas della piccola Bolivia, il Venezuela può esportare petrolio a prezzo calmierato addirittura verso gli Stati Uniti mentre il Cile prova a puntare sull’idroelettrico e sul nucleare. Il sogno di Hugo Chàvez, quello di un “gasdotto del Sud” che portasse il gas di Caracas fino alla Patagonia argentina, sembra essere tramontato: da una parte esso avrebbe consegnato al presidente del Venezuela le chiavi dell’indipendenza energetica di mezzo Sudamerica, dall’altra le recenti scoperte di giacimenti di petrolio al largo delle coste del Brasile hanno portato a un raffreddamento dell’interesse del paese carioca, principale partner e destinatario del progetto.
I problemi energetici del Cile portano invece a fare delle considerazioni sul peso della storia in Sudamerica: Santiago ha combattuto e vinto una guerra contro il Perù e la Bolivia nel XIX secolo (la guerra del Pacifico), sottraendo a questa ultima l’accesso al mare. Da quel momento i rapporti con Lima e La Paz6 sono stati all’insegna della diffidenza reciproca; se con la Bolivia si intravede una schiarita, la recente decisione del Perù di ricorrere alla Corte Internazionale di giustizia dell’Aja per ottenere giustizia sulla delimitazione della frontiera marittima dimostra che spesso la solidarietà fra fratelli latinoamericani è solo un luogo comune.
I rapporti fra vicini non attraversano d’altronde il loro miglior momento: l’Argentina ha fatto ricorso all’Aja contro la costruzione di una fabbrica di cellulosa nella località uruguayana di Fray Bentos, sul fiume Uruguay che segna il confine fra i due paesi; dietro a ragioni pseudo-ambientaliste c’è in realtà la rabbia dell’imprenditoria locale, che non avrebbe voluto che l’ingente investimento della multinazionale finlandese Botnia (+ di 1 miliardo di dollari) finisse nel paese vicino. Rivendicazioni sulla sovranità di alcune isole caraibiche dividono invece il Nicaragua dalla Colombia, e quest’ultima dal Venezuela per quanto riguardo il golfo di Maracaibo. La tensione fra Bogotà e Caracas ha però altra origine: il presidente colombiano Uribe non gradisce la protezione che Chàvez garantisce alla guerriglia colombiana marxista-leninista delle Farc, che hanno indicato il presidente venezuelano come mediatore per la liberazione di alcuni ostaggi. La questione assume rilevanza regionale: la Colombia è, insieme al Messico, l’unico alleato di destra degli Stati Uniti nell’America Latina, e Washington ha tutto l’interesse a rafforzare il conservatore Uribe. Lo strumento potrebbe essere quello dei dollari della lotta al narco-traffico (il famoso quanto inefficace Plan Colombia), che potrebbero però essere usati per destabilizzare il più grande avversario degli Usa, l’unico - appurata l’agonia politica e fisica di Castro - che si è dimostrato capace di sfidarli a livello regionale: Hugo Chàvez, per l’appunto.
La politica del presidente venezuelano è un misto di dichiarazioni e azioni roboanti, a volte controproducenti: lo sbandierato sostegno al candidato nazionalista peruviano Ollanta Humala in occasione delle presidenziali non ha giovato, visto che ha vinto Garcìa; la battaglia per un seggio non permamente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per il biennio 2008-9 è stata persa (non è stato eletto neanche il rivale Guatemala, ma Panama). La proposta di riforma costituzionale (che avrebbe aumentato le prerogative del presidente), preceduta dall’ormai celebre alterco con il re di Spagna7 non ha superato la prova del referendum: hanno prevalso, seppur con margine ristretto, i “no” 8 . Proprio l’accettazione del risultato delle urne ha confermato che le accuse di dittatura rivolte al governo di Chàvez sono - fino a prova contraria - esagerate, malgrado alcuni provvedimenti liberticidi (alla tv legata all’opposizione Rctv non è stata rinnovata la licenza per trasmettere in chiaro, e ora trasmette via cavo).
Un altro sogno di Hugo Chàvez è invece diventato realtà: è nato a dicembre il Banco del Sur, un’istituzione regionale alternativa a Banca Mondiale e FMI che dovrà finanziare i programmi di sviluppo del Sudamerica9 . Il Banco può avere successo, perché risponde in una certa maniera a quelle istanze di rifiuto del neoliberismo che hanno portato alle vittorie elettorali della sinistra. Diverso è il discorso per l’Alba (Alternativa Bolivariana para las Americas), progetto comprendente Bolivia, Cuba, Nicaragua, Venezuela e Dominica nato in opposizione all’Alca, l’area di libero commercio continentale che avrebbe voluto George W. Bush: per ora non è stato capace di attrarre l’interesse del resto del subcontinente.
La stagione della sinistra sta portando crescita economica e un maggiore interesse per l’equità sociale in Sudamerica: governi eletti (e ri-eletti) con ampio margine possono davvero dare una svolta alle società del subcontinente. Date le affinità ideologiche, è lecito aspettarsi anche un afflato unitario e uno sforzo affinché le tensioni fra i vari Stati possano essere messe da parte a favore di una collaborazione piena, che rilanci il ruolo dell’America Latina nel mondo: «perché essa ha bisogno del mondo molto più che il mondo di lei10 ».
Note:
1. Norberto Bobbio, Destra e sinistra Roma, Donzelli, 2004, pagg.119,198.
2. Ideologia, gas e politica di Evo Morales,
https://limes.espresso.repubblica.it/2008/01/26/ideologia-gas-e-politica-di-evo-morales/?p=421.
3. L’asse dell’etanolo, https://limes.espresso.repubblica.it/2007/07/03/lasse-delletanolo/?p=169.
4. Informe Latinobaròmetro 2007, https://www.latinobarometro.org/.
5. L’energia che integra o disintegra il Sudamerica,
https://limes.espresso.repubblica.it/2007/11/30/lenergia-che-integra-o-disintegra-il-sudamerica/?p=360.
6. La capitale della Bolivia è Sucre, ma tutti gli organi di governo dello Stato hanno sede a La Paz.
7. L’Iberoamerica volta le spalle a Madrid,
https://limes.espresso.repubblica.it/2007/11/15/tutte-le-tensioni-delliberoamerica/?p=330.
8. Speciale referendum Venezuela,
https://limes.espresso.repubblica.it/2007/12/13/speciale-referendum-venezuela/?p=404.
9. Bretton Woods addio, nasce il Banco del Sur,
https://limes.espresso.repubblica.it/2007/12/13/bretton-woods-addio-nasce-il-banco-del-sur/?p=405.
10. Loris Zanatta, La spinta populista in “Il Mulino”, A. LV, n. 423, 1/2006.