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APPROFONDIMENTI

Vecchi rischi e nuovi bisogni. La cittadinanza dei garantiti.

26/11/2007

Vecchi rischi e nuovi bisogni. La cittadinanza dei garantiti.

Benché nel corso del Novecento sia divenuta una categoria di individuazione centrale per i sistemi politici liberaldemocratici, la cittadinanza è oggi un incerto terreno di dispute definitorie e normative che non sembrano potersi risolvere in via definitiva, a prescindere dal contesto storico in cui sopraggiungono. Peccando di un certo panglossismo, T. H. Marshall1 tentò per primo di tematizzare la cittadinanza come novero di diritti civili, politici e sociali che si sarebbero venuti affermando in modo irreversibile e, pur con qualche intersezione, in ordine cronologico progressivo, dall’età dei lumi ai giorni nostri. Il destino comune ad altri pionieri volle che il suo pensiero venisse in seguito variamente criticato, specialmente per due ragioni principali: l’eccesso di zelo con cui incluse tra i diritti di cittadinanza, cioè i contenuti del contratto sociale tra individui e Stato, anche i diritti sociali; e la prospettiva evolutiva dello sviluppo di detti diritti.
Le sagaci argomentazioni della prima contestazione2, tuttavia, non sembrano resistere alla confutazione empirica dell’eventualità che il cittadino possa fruire pienamente dei diritti civili e politici in assenza di un minimo di sicurezza economica, di istruzione e di protezione contro i rischi legati sia al tipo di organizzazione della società, sia agli accidenti che possono intervenire nelle varie fasi della vita. La rimozione di quelle che l’autorevole Nobel A. Sen3 indica come fonti di illibertà, cioè la povertà, la fame, l’ignoranza, la malattia, è un prerequisito indispensabile per l’effettivo godimento (endowment) di quei diritti formalmente riconosciuti ai cittadini dallo Stato (entitlement). In questo senso, l’invenzione europea del welfare state può trovare giustificazione normativa, così come le politiche attraverso cui esso tenta di produrre ciò che il capitalismo di libero mercato non garantisce, ossia un’equa distribuzione delle risorse nella società. Questo non significa operare una redistribuzione che conduca ad un’eguaglianza di redditi, ma attribuire ad ogni individuo facente parte di una data comunità politica la medesima capacità (capacitazione, per riprendere il lessico seniano) di fruizione dei diritti di cittadinanza. Detto altrimenti, è compito dell’autorità pubblica garantire un’eguaglianza di status ai propri cittadini che consenta loro di avere una voice nel sistema politico-istituzionale4 .
Non mi sembra dunque che sia la forza normativa dei diritti sociali a dover essere messa in discussione rispetto al tema della cittadinanza, bensì il grado della loro estensione nelle società contemporanee, per tornare alla seconda critica mossa al noto sociologo inglese. Dalla seconda metà del secolo scorso, la crescita esponenziale delle conquiste scientifico-tecnologiche, l’accelerato dispiegamento su scala mondiale dell’economia capitalistica di libero mercato, l’aumentata facilità con cui circolano beni, persone ed idee, hanno certamente dato una sferzata di dinamismo alle “magnifiche sorti e progressive”5 , ma non sono riusciti a dissipare la diffidenza leopardiana verso atteggiamenti di positivismo, se è vero che tali sorti non riguardano ancora la “umana gente”, ma un suo ristretto sottoinsieme. Il bilancio di fine millennio redatto dallo UNDP6 denuncia infatti che il quinto più ricco della popolazione del pianeta beneficia dell’ 86% della ricchezza economica prodotta ogni anno, mentre al quinto più povero rimane solo l’ 1%. Circa 1.2 miliardi di persone vivono con meno di un dollaro al giorno, 2.6 miliardi non hanno accesso ai servizi igienici di base e 880 milioni non sono raggiunti dai servizi sanitari. Gli obiettivi di sviluppo concordati dai principali leader mondiali in seno all’ONU, i Millennium Development Goals, non sembrano essere raggiungibili entro il 2015 come auspicato. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite7 segnala a questo proposito che, malgrado i progressi fatti nella lotta all’estrema povertà o nell’estensione della scolarizzazione, modesti rimangono i risultati rispetto all’eliminazione della fame nei Paesi in via di sviluppo o della discriminazione di genere nelle società del terzo millennio, mentre la diffusione dell’HIV e le morti per AIDS continuano a crescere.
Si potrebbe obiettare che un simile quadro non riguardi le avanzate liberaldemocrazie occidentali e che pertanto esso si limiti a fotografare la situazione di Paesi che non sono ancora stati interessati dalla medesima ondata di progresso. Sfortunatamente, negli ultimi anni anche le roccaforti più solide dei diritti sociali – i sistemi di welfare europei – stanno assistendo ad un processo di frammentazione della cittadinanza sociale. Proprio perché, con buona pace di T. H. Marshall, la storia “non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario”8 , essa ebbe cura di proporre nuove inaspettate sfide ai welfare state, e le ripose nelle trasformazioni delle strutture demografiche, del mondo produttivo, del mercato del lavoro e della famiglia. Così, se durante i “trenta gloriosi” le liberaldemocrazie europee industrialmente avanzate poterono sviluppare sistemi di protezione sociale senza precedenti, progettati per popolazioni con minore speranza di vita ed elevata fertilità e finanziati dalla sostenuta espansione dell’occupazione fordista, nell’attuale era – chiamata post-industriale – essi sono divenuti incoerenti con le recenti dinamiche socio-economiche e inadeguati ai nuovi bisogni dei suoi cittadini9 .
Una prima trasformazione che rende obsoleta l’attuale architettura istituzionale dello Stato sociale è senz’altro l’invecchiamento della popolazione. Da una parte, allargandosi la coorte degli anziani, cresce la domanda di pensioni, servizi sociali e assistenza sanitaria; dall’altra, la quantità di lavoratori attivi non è in grado di sostenere gli oneri finanziari che corrispondono agli aumentati bisogni. Ciò è dovuto principalmente ai profondi cambiamenti del mercato del lavoro europeo, che a partire dagli anni Ottanta ha sofferto una brusca crescita della disoccupazione e il diffondersi di forme contrattuali atipiche.
La crescente competitività sui mercati globali, la ristrutturazione dei modi di produzione attraverso la massiccia introduzione di progresso tecnico e il controllo che su di essi esercita la finanza hanno creato esuberi di forza lavoro (solo in parte assorbiti dall’espansione del settore terziario), accorciato gli orizzonti temporali degli investimenti e dei rispettivi ritorni10 , richiesto una maggiore flessibilità organizzativa e delle figure professionali. Il conseguente aumento dell’incertezza nella nuova economia post-industriale ha reso poco conveniente il modello occupazionale fordista, che sinteticamente implica assunzioni a tempo indeterminato con pagamento stabile dei contributi previdenziali. Si sono invece diffuse tipologie contrattuali temporanee, come quelle del lavoro interinale, stagionale o a tempo determinato, che danno garanzie di molto inferiori in termini di reddito e di maturazione dei contributi per la pensione. Tra il 1994 e il 1998 questi contratti riguardavano già circa la metà dei nuovi posti di lavoro creati all’interno dell’Unione Europea11 . Parallelamente, nel corso degli ultimi quindici anni, la disoccupazione tecnologica e la transizione all’economia dei servizi hanno spinto il tasso medio di disoccupazione europeo all’8,8%, anche se non di rado alcuni Paesi sono andati ben oltre il 10%12 . Lo stress finanziario dei sistemi di protezione sociale europei è intensificato poi dalla rigidità dei vincoli di bilancio legati a ragioni di competitività nei mercati internazionali, al Trattato di Maastricht ed al Patto di Stabilità.
I nuovi bisogni cui deve dare risposta lo Stato sociale sono acuiti da un ulteriore processo di cambiamento, quello della fragilizzazione dei rapporti familiari13 . Divorzi, allungamento della vita, ridefinizione dei ruoli di genere, aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, hanno reso la famiglia, un tempo principale fonte di sostegno per i suoi membri più deboli, un ammortizzatore sociale sempre più instabile. Le funzioni di mantenimento del reddito sono infatti meno garantite, soprattutto se si pensa che è in crescita il numero di nuclei familiari che richiedono una maggiore attenzione da parte dello Stato, come quelli monogenitoriali o composti da un solo componente. Allo stesso modo, cresce la necessità – prevalentemente femminile – di conciliare lavoro pagato e lavoro di cura, incrementando la domanda di servizi sociali che sostituiscano le donne nelle loro tradizionali funzioni di assistenza a bambini, anziani, familiari malati o disabili.
La capacità dei welfare state europei di rispondere in modo adeguato a tutti questi nuovi bisogni, che corrispondono a nuove tipologie di rischio indotte dai recenti cambiamenti socio-economici, ha ripercussioni rilevanti sul grado di estensione della cittadinanza. I sistemi di protezione sociale attuali, infatti, tutelando i propri cittadini in relazione ad un vecchio profilo di rischi, offrono garanzie sociali molto generose a coloro che presentano bisogni coerenti con quelli previsti dall’organizzazione fordista, ma non danno sufficiente (o alcuna) protezione a chi si trova in condizioni che esulano dalle categorie tradizionali di rischio14 . Per esempio, le famiglie composte da due coniugi che lavorano con contratti a tempo indeterminato e non hanno altre persone a carico godono di maggiore stabilità economica e di una più adeguata erogazione di servizi rispetto ad un anziano solo, ad una ragazza madre, ad un lavoratore a bassa qualifica professionale con contratto di lavoro precario e figli a carico, o a persone che vivono nelle cosiddette famiglie estese, cioè che comprendono al loro interno tre diverse generazioni (genitori, figli, parenti anziani).
Questi gruppi sottoprotetti di persone vivono nuove forme di povertà, che ostacolano il godimento effettivo dei diritti di cittadinanza. Pertanto il divario tra outsiders ed insiders, cioè tra chi è di fatto escluso dalla fruizione dei diritti di cittadinanza e chi invece ne usufruisce pienamente, si sta ampliando sempre di più non solo a livello mondiale, per la contrapposizione tra Paesi in via di sviluppo e Paesi occidentali, ma anche all’interno di quei Paesi che sono stati il laboratorio storico dei diritti sociali e liberaldemocratici.
La frammentazione di quel sistema di diritti che si è affermato nell’arco di più di tre secoli sembra beffardamente prefigurare un ripiegamento della storia su se stessa più che una estensione marshalliana dell’eguaglianza di status a tutti i cittadini. Per queste ragioni, la politica è chiamata a introdurre riforme che rendano più coerenti le istituzioni vigenti con il nuovo contesto storico, a meno di svuotare di contenuti sostanziali il concetto di cittadinanza. Gli interventi richiederanno però una forte dose di audacia, poiché implicando inevitabilmente un’alterazione profonda dello status quo distributivo, incontreranno giocoforza l’opposizione di quel gruppo di privilegiati che oggi è arroccato nella “cittadella dei diritti”. Altrimenti la cittadinanza rischierà di rimanere una conquista storica per pochi: la cittadinanza dei garantiti.


Note:

1. Cfr. T. H. Marshall, Cittadinanza e Classe Sociale, UTET, Torino, 1976.
2. Cfr. D. Zolo, La strategia della cittadinanza, e E. Santoro, Le antinomie della cittadinanza: libertà negativa, diritti sociali e autonomia individuale, in D. Zolo (a cura di), La Cittadinanza. Appartenenza, Identità, Diritti, Laterza, Bari, 1994.
3. Cfr. A. Sen, Globalizzazione e Libertà, Mondadori, Milano, 2003.
4. Cfr. The World Bank, World Development Report, 2006. https://www.worldbank.org/wdr2006
5. Citazione da G. Leopardi, La Ginestra, 1836-1837.
6. Cfr. UNDP, Human Development Report, 1999. https://www.hdr.undp.org/reports/global/1999/en
7. Cfr. UN/DESA, The Millennium Development Goals Report, 2006. https://www.un.org/millenniumgoals/
8. Citazione da E. Montale, La Storia, in Satura: 1962-1970, Mondadori, Milano,1971.
9. Cfr. M. Ferrera, Le Trappole del Welfare, Il Mulino, Bologna, 1998.
10. Cfr. G. Lunghini, I nuovi compiti dello Stato, pubblicato sul sito del Centro di Filosofia Sociale dell’Università di Pavia, 2000. https://www.unipv.it/deontica/scritti.htm
11. Cfr. I. Harsløf, Processes of Marginalization at Work. Integration of Young People on the Labour Market through Temporary Employment, The Danish National Institute of Social Research, Copenhagen, 2006. www.sfi.dk
12. Cfr. OECD, Factbook, 2006. www.oecd.org
13. Cfr. M. Paci, Nuovi Lavori, Nuovo Welfare, Il Mulino, Bologna, 2005.
14. Cfr. M. Ferrera, Le Trappole del Welfare. Il Mulino, Bologna, 1998.


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