APPROFONDIMENTI
Il fantasma del ''care''nella rete sociale
Il problema della non autosufficienza degli anziani e il bisogno di cura che essi esprimono viene tradizionalmente affrontato in Italia con il riaccoglimento dell’anziano nella famiglia dei figli o, comunque, all’interno di una rete familiare di aiuto anche quando non vi è vera e propria coabitazione. Questa soluzione – di gran lunga la più praticata - comporta un sovraccarico funzionale per la famiglia, di solito per le donne, che spesso non hanno le risorse economiche e temporali per farvi fronte. L’alternativa della completa istituzionalizzazione è praticata in un numero molto esiguo di casi, soprattutto quando ci sono anche complicazioni di carattere sanitario o nel caso di anziani senza figli. La filosofia assistenziale dell’ospizio è quella di offrire un ricovero per le persone molto anziane e malate, per le quali non esistono più trattamenti medici appropriati per il recupero della salute e la cura lascia il posto al prendersi cura (cure and care), offrendo sostegno psicologico e cure palliative per l’alleviamento del dolore a chi si trova in una fase terminale della vita (vedi per esempio la legge n. 39 del 1999). Al di là di questi casi, l’istituzionalizzazione è poco praticata, anche perché, oltre ai fattori culturali, gioca il fatto che le residenze sanitarie assistenziali pubbliche per anziani sono poche mentre quelle private sono costose e di qualità variabile.
Il modello prevalente è dunque quello dell’integrazione in una rete familiare di aiuto che se da una parte limita fortemente i casi di esclusione e marginalità dell’anziano, dall’altra sottopone la famiglia ad un sovraccarico funzionale a cui fa di norma fronte la donna, che spesso è costretta a rinunciare all’inserimento nel mondo del lavoro o a limitare fortemente le sue aspirazioni professionali e la propria vita sociale e relazionale. D’altro canto non va sottovalutato l’aiuto che gli anziani danno spesso alle famiglie dei figli, finché possono, sotto forma di custodia dei piccoli, disbrigo di affari e pratiche amministrative, aiuto domestico, lavori di manutenzione e molto altro ancora.
La direzione verso cui ci si dovrebbe muovere – e in parte lo si sta facendo – è quella di differenziare maggiormente i servizi, in modo da consentire agli anziani di rimanere a casa propria alleggerendo e sostenendo quanto più possibile il lavoro di supporto e di cura delle famiglie.
Non è semplice trovare un collegamento tra le cure formali (i servizi pubblici) e le cure informali (familiari e vicinato).
In Italia il concetto di assistenza è spesso stato legato all’assistenza pubblica o volontaria, e risultava difficile riconoscere il ruolo del lavoro di cura informale come risorsa da educare al fine del sostegno al malato attraverso un programma individualizzato sul cliente.
Il concetto di community care ha segnalato il passaggio della filosofia assistenziale dall’istituzionale al comunitario, determinando un peso gravoso per la comunità.
“Il compito primario dei servizi pubblici e dell’associazione di volontariato è di sostenere l’assistenza informale fornita dai parenti e dagli amici in modo tale che queste relazioni di cura continuino a far fronte ai bisogni più pressanti dell’utente” . Infatti, nello stesso concetto di community care è intesa quell’assistenza fornita localmente dai servizi pubblici volontari, ma anche informali che operano in diverse maniere per sostenere persone in situazione di dipendenza assistenziale. Per informali indichiamo la famiglia intesa come fonte di social care.
Anche in Italia, oggi, la cura professionale e quella familiare non vengono più considerate come soluzioni alternative, ma attività che devono essere rese complementari attraverso una combinazione di misure di sostegno alla cura familiare e di misure finalizzate ad offrire servizi professionali. Perciò il care familiare viene considerato esplicitamente come un elemento importante nella valutazione dei casi e delle misure assistenziali da realizzare come risorse da utilizzare. L’aspetto negativo è che non vi è ancora, per i caregiver, alcun riconoscimento esplicito della propria attività, che spesso porta a fare delle scelte nella propria vita. Philip Abrams sostiene che “le basi effettive della community care sono la parentela, […]. La parentela rimane la più solida base dell’attaccamento e la base più sicura di assistenza che noi abbiamo. Questo è particolarmente vero per le donne.”
Infatti Abrams afferma che l’assistenza in gran parte è fornita da parenti di sesso femminile. Di norma sono le donne a doversi occupare dell’assistenza; un’assistenza che passa invisibile ed è data per scontata. Anzi, Bulmer arriva a sostenere che la community care sfrutta “il lavoro familiare non pagato”, e per eseguirlo bisogna rinunciare ad un pezzo della propria vita. Infatti, l’impegno è così grande che bisognerebbe riservare maggiore attenzione a chi presta assistenza ad un malato. Se, tra i membri di una famiglia il peso dell’assistenza ricade su una persona, allora sono necessari sforzi più sistematici per assistere chi assiste, qualche volta con servizi di tregua, oppure con il ricovero temporaneo dell’assistito. La parentela è vista come risorsa indispensabile, in quanto appare un elemento e un’articolazione di rete fondamentale della vita sociale su cui si sviluppa quella che è la vita quotidiana. È anche vero che uno studio inglese ha potuto mettere a confronto i dati di ricerca sulle relazioni di sostegno parentale in una stessa comunità a diversi anni di distanza e ha documentato sia le rilevanze di queste reti di sostegno che mutamenti all’interno di tali sostegni. Gli autori di questa ricerca concludono che per quanto importante sia la parentela nella vita quotidiana e nel benessere psicofisico degli anziani, quest’ultimi non possono contare sui parenti per vari motivi, come quello della lontananza geografica o gli impegni di lavoro ecc. Inoltre, coloro che sono veramente coinvolti in questo tipo di assistenza sono sempre meno.
Tenendo conto di ciò bisognerebbe trovare nella pratica un intreccio o legame tra queste due tipi di cura, al di là dell’assistenza economica che lo Stato fornisce attraverso la pensione di invalidità o di accompagnamento.
Come afferma Bulmer, i carers informali rimangono il principale punto di riferimento per le persone che necessitano aiuto. La rete sociale di ciascun individuo costituisce un riferimento sicuro per cercare, e ottenere, un aiuto urgente per soddisfare i bisogni più immediati. Le situazioni che riesce a coprire non sono uniformi poiché dipendono da legami personali e dalla densità della rete sociale in cui si trova l’individuo. Esse possono essere forti in una determinata zona e deboli in un’altra ed anche in un territorio con reti forti, un particolare individuo privo di parentela o amici può rimanere isolato.
Un servizio che rappresenti un certo grado di intercambiabilità tra il settore formale e quello informale è per esempio il servizio di assistenza domiciliare. Gli studi sull’assistenza domiciliare hanno mostrato ripetutamente che gli anziani che abitano da soli ricevono più aiuti di quelli che vivono con le loro famiglie. Il fatto di vivere da soli viene considerato un criterio convenzionale per stabilire una priorità nell’assegnazione del servizio, indipendentemente da una esatta valutazione della situazione della persona. Un altro criterio potrebbe essere quello di fornire supporto ad una famiglia che è sottoposta ad un impegno assistenziale continuativo.
Questa idea di un continuum tra il formale e l’informale è molto difficile da attuare, poiché difficile è trasformare l’assistenza nella comunità in assistenza dalla comunità, soprattutto se ciò significa far cooperare strettamente carers formali e quelli informali. Tutto ciò è scaturito da vincoli organizzativi esistenti nelle due forme di cura. Il primo vincolo è rappresentato dal fatto che gli operatori formali e quelli informali differiscono per la quantità di tempo che possono dedicare all’impegno assistenziale. Mentre i primi prestano un servizio con aspettative determinate e a tempo determinato, i secondi nella loro prestazione non hanno né un inizio né una fine. Il secondo vincolo è rappresentato dal fatto che l’operatore formale ha abilità specifiche ed informazioni specializzate; mentre i carers informali basano le loro azioni su coscienze personali, acquisite dall’esperienza e dall’ambiente in cui vivono. Essi danno vita a legami che sono molto particolari ed un aspetto importante è il carico di stress che devono subire, dovuto ad un grosso “carico familiare”.
Spesso questa differenza tra gli operatori e i carers informali porta ad un giudizio di superiorità dei primi verso i secondi, non dando la possibilità di mettere una vera e propria collaborazione tra le due forme, ma si verifica una supervisione del servizio pubblico su quello privato. Tutto ciò porta ad una forma di natura sommersa del “care” privato, la cui assistenza si sviluppa al di fuori della rete di sostegno a favore degli anziani non auto sufficienti, con frammentarietà e vuoto di relazioni e di coordinamento con lo sviluppo dei servizi pubblici territoriali.
La necessità di tagliare la spesa pubblica fa apparire la community care più economica rispetto ad altre modalità di assistenza. Però l’intrecciamento è molto difficile da attuare; forse sarebbe più opportuno, come afferma Bulmer, parlare di “ strutture di mediazione” che vanno incontro a punti di debolezza presenti nelle cure informali. Non è realistico aspettarsi che le famiglie forniscano servizi di carattere professionale.
Una funzione che potrebbe avere il terzo settore.
Infatti, un importante “momento” del processo di sviluppo che ha portato alla attuale configurazione del sistema di Welfare va visto nella nascita e nel consolidamento di un terzo settore «moderno», come soggetto centrale della produzione di servizi sociali. La trasformazione ha inizio a partire dagli anni Settanta, in una fase politica e sociale dominata da una forte ambivalenza. Da una parte si affermano concetti di “bisogno” e di “disagio” più articolati e multidimensionali, rispetto ai quali gli interventi standardizzati delle strutture pubbliche tradizionali appaiono sempre più inadeguati. Anche sulla scorta delle innovazioni culturali portate dai movimenti degli anni sessanta-settanta, si apre la strada della critica all’approccio burocratico di gestione del Welfare. Si profilano nuovi diritti. Da questa prospettiva, l’emergenza del terzo settore viene messa in relazione all’emergere di nuovi bisogni e alla modificazione di alcuni bisogni tradizionali (generalizzazione dello status di madre lavoratrice, invecchiamento della popolazione, tossicodipendenza etc.). Sono richieste nuove culture di intervento, più flessibili modalità di erogazione e, di conseguenza, una diversa collocazione istituzionale dei servizi sociali, modalità di gestione più innovative, e dunque si profila nell’agenda politica la necessità di ampliare, modernizzare e sviluppare il novero dei soggetti abilitati a fornire i servizi. Il terzo settore, rispetto al sistema pubblico e anche rispetto al privato “for profit”, viene ritenuto in grado – a torto o a ragione – di assicurare una maggiore capacità di partecipazione e coinvolgimento, sia nella “lettura” dei bisogni, sia anche nella formulazione delle risposte. In questa fase il campo dell’assistenza si apre anche a nuovi approcci professionali, in particolare a quelli tipici del sociale, distinti da quelli tradizionali di tipo medico o burocratico. I paradigmi professionali del sociale, più deboli, si presentano come più predisposti ad una pratica dell’ascolto, della complessità, meno orientati ad un approccio paternalistico o tutelare.
Dall’altra parte, più o meno negli stessi anni si palesa quella che viene chiamata in letteratura la crisi fiscale dello stato e la conseguente richiesta di ridimensionamento delle risorse destinate ai programmi di Welfare. Da questa seconda prospettiva, l’opzione del terzo settore viene spesso interpretata come un tentativo, più o meno velato di esternalizzare al privato funzioni che prima erano svolte da organismi pubblici con lo scopo primario di ridurre le spese.
Con il termine di «terzo settore» si intendono una pluralità di soggetti, molto diversi per natura, configurazione organizzativa e dimensioni. Si tratta in effetti di una definizione residuale che include tutti quei centri di iniziativa la cui attività non è mossa né dall’obiettivo specifico di perseguire profitto economico né da programmi amministrativi. Il terzo settore va altresì definito rispetto ad un altro centro di iniziativa che opera negli spazi tra mercato e istituzioni pubbliche, sebbene in questo caso la distinzione sia meno agevole dal punto di vista formale. Si tratta delle reti sociali che operano in modo informale: famiglia innanzi tutto, gruppi di vicinato e amicali, reti parentali estese e via dicendo. E’ evidente che questi gruppi svolgono una importantissima funzione assistenziale, per lo più non riconosciuta, e che sono importantissimi fornitori di servizi (custodia, funzioni informative, sostegno economico e socio-psicologico). Non è facile delimitarli rispetto al terzo settore propriamente detto e i momenti di passaggio dall’informalità alla formalità sono spesso di difficile definizione. Basta pensare ai gruppi di auto-aiuto (“self-help”) che si attivano nella terapia delle dipendenze e che possono avere talvolta una struttura formalizzata e tal’altra operano in modo assolutamente spontaneo, senza alcuna natura giuridica. Allo stesso modo, e con la stessa ambiguità, nell’ambito del terzo settore troviamo piccole associazioni prive di una attività strutturata, e grandi cooperative o associazioni di volontariato con migliaia di iscritti e di dipendenti. Anche per ciò che riguarda la cultura di provenienza, gli enti del terzo settore differiscono molto tra di loro: talvolta sono una emanazione del mondo cattolico, altre volte espressione di solidarietà nate in seno al movimento operaio e altre ancora sono iniziative mosse da sentimenti di benevolenza e carità.
Il problema del sostegno all’anziano rimane sempre importante e fondamentale, ma bisogna ricordare chi, in silenzio tra le proprie mura domestiche, è costretto a rinunciare alla propria vita sociale per accudire un familiare in condizioni di disagio. Riflettiamo su questo.
1 - Cfr. W. HARBERT,The nature of community care, in HARBERT E ROGERT,Community-Based social care: The Avon experience, London Bedford Square Press, p.5.
2 - HARBERT W., The nature of community care, op.cit.p.6.
3 - M. BULMER, Le basi della community care, Edizioni Erickson, Trento, 1992,p.27.
4 - Il termine care è riportato nel significato inglese di assistenza e cura sia come aiuto informale che come aiuto formale; in italiano indica un assistenza di tipo istituzionale.
5 - C. RANCI, I mercati sociali della cura: un modello valido per l’Italia?, in L’assistente sociale, Rivista trimestrale sulla prospettiva del Welfare, n.4, Ottobre/Dicembre 2001, Ediesse, p. 49 e ss.
6 - P. ABRAMS, Community care, some research problems and priorities, in BARNES E CONNELLY, Social Research, London, Policy Studies Institute e Bedford Square Press. Pp. 86-87.
7 - Cfr. M.BULMER, Le basi della Community care, op. cit., p. 48.
8 - Ibidem, p.79.
9 - Cfr. F. FOLGHERAITER E P.DONATI, Community care, Edizione Centro Studi Erickson, Trento, 1991, p.98-99.
10 - Cfr. C. SARACENO, M. NALDINI, Sociologia della Famiglia, Il Mulino, Bologna 2001, p.66-67.
11 - Cfr. BERNARD, M.PHILLIPS, J. PHILLIPSON, C. OGG, Continuity and Change the family and community life of older people in the 1990s, in Arder e Attias -Donfut, p.209-227.
12 - Ibidem, p.230.
13 - Questo termine ha origine nel campo della salute mentale. Cfr. J. GRAD E P. SAINSBURY, The effects that patients have on their families in a community care and a control psychiatric service: A two years follow-up, British Journal of Psychiatry, n.114, pp.265-278.
14 - Cfr. E.M. GOLBERG E N.CONNELLY, The effectiveness of Social Care for the Elderly, London, Heineman Educational Book, 1982, p.169.
15 - Cfr.,Un sistema inadeguato, 10 Gennaio 2003, in Stato Sociale. www.rassegna.it
16 - Cfr. A GRAYCAR, Informal voluntary and staturary services: the complex relationship in British Journal of Social Work, vol.13, 1983, p.385.