APPROFONDIMENTI
Questione libanese e Forza multinazionale: prospettive di Peacekeeping Vis-à-Vis l’esperienza del 1982
Febbraio 2005. Ricordo piazze pullulanti di gente, specialmente giovani sventolare cedri su sfondo bianco nella regolarità bordata di rosso, dietro un inconsueto “Vive le Liban!” si levano le voci di cristiani, musulmani sciiti e sunniti. Sono volti di malcontento per la tutela politica armata che il vicino siriano esercita dal 1976, spinto alla ribalta dall’assassinio dell’ex Primo Ministro Hariri, unitamente alle accuse della comunità internazionale di una presunta responsabilità del regime Assad. Ottenuto il totale ritiro delle ultime truppe siriane stanziate nel paese, l’emozione è soprattutto per il sentimento nazionale che all’improvviso sembra essere diventato una realtà anche per il piccolo Libano.
Luglio 2006. Le immagini di una popolazione civile unita per l’indipendenza oltre i confini delle singole comunità religiose sbiadiscono davanti alle scene tv di dolore e devastazione, laddove tra i fumi dei razzi katiuscia della resistenza Hizbullah e gli spari delle incursioni notturne delle Forze di Difesa Israeliane si perde il senso delle motivazioni politiche e resta emblematico l’imperativo di un’affascinante donna libanese, “lasciateci vivere la nostra vita!”.
L’impasse si concentra in questi giorni sulla efficacia ed effettività della diplomazia internazionale, sull’opportunità di un sostanziale coinvolgimento dei cosiddetti “Stati canaglia” protagonisti nella regione, e in modo particolare sulla specificità di una forza multinazionale come Leviatano del Medio Oriente. Difatti, nel considerare la “questione libanese” sarebbe riduttivo prescindere dalle storiche interconnessioni tra la dimensione interna ed esterna, quest’ultima opportunamente distinta in regionale ed internazionale. Tuttavia, la dura lezione impartita nel 1983 dal cosiddetto Accordo del 17 Maggio sottolinea l’importanza basilare di puntare fermamente al consolidamento dell’equilibrio politico interno. Ovviamente, in un contesto di guerra dove la già confusa definizione di “terrorismo” oscilla tra accuse di “movimento terroristico” al Partito di Dio e “terrorismo di Stato” nei confronti di Israele, il ruolo di una forza multinazionale si prospetta cruciale nel creare le condizioni per il dialogo nazionale.
Mentre nel “palazzo di vetro” si discutono gli aspetti essenziali dell’intervento, la situazione geo-politica corrente sembra riproporre le stesse dinamiche del biennio 1982-1984, col rischio quindi di vedere realizzate le stesse prospettive di fallimento della missione di pace e di caos socio-politico per il paese. Il Libano presenta oggi equilibri socio-politici chiaramente diversi rispetto agli anni ’70-’80, tuttavia vi è una forte analogia in termini di opportunità e contesto di riferimento per la diplomazia in senso lato.
Innanzitutto, sebbene le Nazioni Unite vivono oggi una crisi di fatto come organismo di risoluzione dei conflitti per antonomasia, escluderne a priori un certo ruolo in termini di condanna dell’“aggressione” israeliana (il consenso è stato espresso per una “condotta deplorevole”!) o di rilancio dell’iniziativa Unifil (la United Nations Interim Force è attiva in Libano dal 1978), significa rinunciare ad un framework politico-giuridico garante sostanziale di legittimità ed imparzialità, quindi a maggiori possibilità di preservare generalmente gradita l’utilità del peacekeeping. Nelle parole di Richard W. Nelson autore di “Multinational Peacekeeping in the Middle East and the United Nations Model”, “il peacekeeping può funzionare solo quando gli è permesso di funzionare”, per cui se da una parte sembra ragionevole la proposta di una tregua immediata parallelamente al rafforzamento della missione Unifil, dall’altra l’idea di inviare successivamente una cosiddetta “vera forza internazionale” in grado di far rispettare l’accordo politico, richiama l’attenzione sul dibattito relativo all’“uso della forza”: nel momento in cui si interviene in conflitti inter- e soprattutto intra-statali col nobile scopo di ripristinare la stabilità e la pace, diventa opportuno riconoscere i limiti impliciti nella definizione del peacekeeping, vale a dire il fatto che l’obiettivo di fondo consiste nel creare le condizioni adatte per consentire alle istanze antagoniste di convergere su una soluzione pacifica condivisa; è importante dunque accettare che una forza multinazionale non può imporre la propria idea di pace, soprattutto non può imporla con la forza quando il suo compito concerne invece il contenimento delle violenze e delle ostilità, può e deve però temporeggiare in vista di un contesto stabile per la riconciliazione nazionale. Ridurre la violenza è fondamentale, ma è allo stesso tempo importante farlo nel modo adeguato, il che richiede necessariamente l’assolvimento di compiti civili, di gestione dell’ordine pubblico ed anche umanitari. Implicito vi è un concetto elementare che una operazione di mantenimento della pace dovrebbe tenere sempre presente: una peacekeeping force è chiamata a operare insieme ai gruppi locali, piuttosto che fungere solo da strumento di separazione ed interposizione. Oggi più che mai l’obiettivo nel paese dei cedri deve consistere nell’assicurare l’effettiva protezione dei civili e delle infrastrutture civili, per questo sarebbe auspicabile un coinvolgimento ampio di personale civile, oppure in alternativa, una forza militare - perché non la stessa Unifil? - capace di combinare un alto livello di professionalità con uno sviluppato senso di protezione di deboli e indifesi. Questo aspetto non deve essere percepito come fonte di debolezza ma di forza, unitamente all’esigenza nei confronti dei contingenti ONU sia di rilanciare il sostegno attivo da parte degli attori internazionali influenti, sia di impegnarsi nel promuovere la cooperazione degli attori locali. Inutile infatti invocare il peacekeeping quando la pratica è di peace-enforcement: la reazione ai bombardamenti di Suq al-Gharb del 12 settembre 1983 dovrebbe aver insegnato come un mantenimento della pace più “attivo” crea confusione circa le intenzioni della mediazione internazionale, e mina a priori l’auspicata sicurezza dei contingenti in loco, ovvero rende inevitabile sentimenti concreti di avversione, la perdita della propria imparzialità e legittimità e l’identificazione come parte co-belligerante.
L’aspetto politico è da privilegiare nell’analizzare le prospettive di successo di una forza multinazionale poiché in fondo, l’agire militare si sviluppa proprio a partire dalla trama delle decisioni politiche, prese a qualsiasi livello minimamente connesso col contesto operativo del peacekeeping. A tale proposito il ruolo di primo piano giocato ancora una volta dalla diplomazia statunitense impone alcune riflessioni fondamentali. In primo luogo, è evidente la crisi del ruolo strategico degli Usa in Medio Oriente: laddove qualsiasi impegno sembra subordinato alle “esigenze di sicurezza” di Israele in un consolidato inverted principal-agent principle (il dubbio è se Israele possa ancora considerarsi il partner più debole di questa “special relationship”!), ne consegue una diplomazia poco credibile ed efficace, piuttosto volta a realizzare il progetto di un “Nuovo Medio Oriente”. Nel riconoscere un certo buon senso nella proposta di una missione di pace non a guida americana, è tuttavia opportuno precisare che se da una parte l’appoggio degli Stati Uniti non garantisce il successo dell’operazione, dall’altra è vero che l’assenza di questo riduce fortemente le probabilità del successo stesso; il nocciolo della questione risiede nel fatto che una potenza del calibro degli Stati Uniti possiede la capacità di influenzare concretamente il comportamento degli attori locali e regionali, possibilmente in favore dell’operazione di pace. Allo stesso modo, la disponibilità di una guida francese non cancella il ricordo degli attacchi mirati anche alla legione straniera. Sarebbe quindi auspicabile una struttura di comando unificata, con al vertice un’autorità civile (è indispensabile data la natura politica del peacekeeping), capace cioè di operare come una unità militare integrata ed efficiente; il giusto complemento sarebbe poi una gerarchia di comando politico-militare che metta in contatto i governi nazionali e i rispettivi contingenti nella forma il più possibile sicura, semplice e diretta. In generale, è indispensabile che ci sia coordinazione tra fattore politico-diplomatico e fattore militare non solo nel paese di dispiegamento della forza multinazionale, ma anche nei singoli paesi coinvolti nella missione di pace. L’esperienza del biennio 1982-1984 sottolinea tra gli altri aspetti importanti per la buona riuscita di una missione di pace, la scelta dei contingenti, la definizione del mandato operativo in maniera chiara e appropriata, il modo in cui avviene il dispiegamento dei contingenti nella propria area di responsabilità. Difatti, per prima cosa la forza multinazionale deve essere accettabile da tutte le parti del conflitto, il che significa che composizione e dimensione devono essere appropriate, in relazione sia all’obiettivo politico-militare della operazione, sia all’ambiente in cui si interviene. Secondo, è necessario che il mandato preveda una strategia politica razionale e coerente, sulla quale diventa poi possibile forgiare la strategia militare di modo che sia funzionale a perseguire l’obiettivo politico, in maniera altrettanto razionale e coerente; l’essenza del peacekeeping si risolve nel ruolo specifico e cruciale di catalizzatore di un ordine pacifico, per questo deve essere sostanzialmente impiegato come “strumento” di stabilizzazione della crisi e di attenuazione della violenza piuttosto che come mezzo per assicurare direttamente l’ordine. Infine, i contingenti in loco devono essere configurati in modo che sia possibile implementare il mandato in maniera agevole ed efficiente, e quindi in modo da trasmettere necessariamente un’immagine militarmente professionale, e contemporaneamente di credibilità e neutralità vis-à-vis gli attori locali; diventa quindi particolarmente importante definire la gestione delle violazioni (reali o presunte) di determinati impegni presi dagli attori locali (per esempio a proposito di restrizioni all’uso delle armi nelle zone controllate dalla forza multinazionale).
Un terzo fattore in analogia con la guerra civile del 1982 risiede nella possibilità reale di perseguire il dialogo tra le parti belligeranti. Poiché una delle critiche ricorrenti circa l’implementazione del peacekeeping in Libano afferma la sostanziale incapacità di comprensione della realtà da parte della Forza Multinazionale, stavolta sembra doveroso considerare opportunamente la necessità di perseguire insieme riconciliazione nazionale e ritiro delle forze straniere. Nessun dubbio (ed inaccettabile il clamoroso ritardo) sulla doverosità di un immediato “cessate il fuoco”. Allo stesso modo, è fondato il timore manifestato da Israele circa un consolidamento delle posizioni militari e delle istanze politiche di Hizbullah in concomitanza ad un ritiro repentino delle Forze di Difesa Israeliane: al peacekeeper saggio si richiede di riconoscere la debolezza delle istituzioni libanesi e la necessità di risolvere prima i problemi di fondo del paese dei cedri. Nella realtà multiconfessionale del Libano, la trasformazione socio-economica concretizzata negli anni ’60 aveva stimolato il processo di politicizzazione della comunità sciita, laddove la necessità di sentirsi capite, protette, validamente rappresentate, aveva portato le masse sciite a rifiutare in ultima istanza il tradizionale rapporto clientelare privo di autonomia e responsabilità civica del cittadino. Tuttavia, proprio l’incapacità dello Stato e degli stessi capi politici di riflettere questa inedita presa di coscienza politica aveva stimolato la mobilitazione politica ed il consolidamento di Hizbullah quale deciso rappresentante dell’avanzamento sociale, politico ed economico della comunità sciita. Il nodo cruciale risiede nel fatto che a differenza della resistenza palestinese, Hizbullah gode oggi di un atteggiamento positivo da parte della società libanese, senza trascurare la rappresentanza in parlamento, per cui ignorare le regole e gli strumenti della democrazia politica per la riconciliazione nazionale delle esigenze comunitarie comporterebbe di nuovo un serio indebolimento del governo libanese, ed una sostanziale perdita di credibilità delle istituzioni in un momento così delicato. Inoltre la logica della “politica intra-gruppo” tipica del sistema confessionale, implica che se le élites perdono legittimità di fronte alla propria base sociale, contemporaneamente diminuisce la loro capacità di promuovere la risoluzione pacifica delle questioni identitarie, ed aumenta invece il peso delle istanze radicali. Un altro Accordo del 17 Maggio che ignori tout-court le esigenze rappresentate da Nasrallah avrebbe il duplice effetto di mettere da parte una situazione politica interna favorevole (già a gennaio 2006 era cominciato un processo di dialogo nazionale tra i leader di tutti gli schieramenti per individuare una riforma dello Stato che accontenti tutte le anime del paese), e soprattutto di provocare questa volta un più deciso coinvolgimento dell’Iran negli affari libanesi; come per la Siria nelle dinamiche del 1982-1983, oggi si rischia di nuovo di ignorare incautamente sia il regime Assad che quello di Ahmadinejad.
L’esperienza libanese ha mostrato quanto “mantenere la pace” sia in realtà un principio semplice e giusto da sostenere, ma estremamente difficile da concretizzare nella maniera il più corretta ed efficace possibile: è indispensabile definire correttamente scopi politico-militari e modalità d’implementazione, organizzare una forza multinazionale adeguata al contesto operativo, cercare di preservare intatta la propria credibilità e legittimità in quanto forza di pace, infine ma non meno importante, sviluppare una conoscenza profonda delle logiche conflittuali che si intende placare. Continuare a pretendere che la forza multinazionale risolva le cause socio-strutturali del conflitto libanese significa attribuire al peacekeeping internazionale un compito che in realtà non gli spetta; la forza multinazionale può effettivamente prevenire determinati sviluppi, quindi tenere bassa la tensione e la violenza, temporeggiare in vista del dialogo tra leader antagonisti, evitare che attori esterni influenti traggano beneficio dalla permeabilità di una situazione profondamente instabile, ma l’unità di una nazione non scaturisce con la mera presenza militare di pace: un intervento pacificatore di successo può creare un contesto stabile per il dialogo preservando intatta la propria credibilità, ma poi è necessario che il popolo collabori per forgiare una coscienza nazionale che rifletta l’idea che il popolo stesso ha di sé, e procedere quindi insieme al consolidamento di una simile armonia. A tale proposito, una convivenza pacifica e soprattutto duratura potrebbe scaturire da una rivalutazione dello Stato (riducendo così l’influenza della comunità) come fonte diretta di identificazione del cittadino, il quale potrebbe vedere i suoi bisogni soddisfatti da un’efficiente welfare-system; infine, il crescente numero di vittime civili impone il fondamentale recupero della centralità dell’individuo, e quindi l’affermazione dell’assoluta inviolabilità dei suoi diritti e della sua libertà in quanto singolo. Quanto alla dimensione regionale ed internazionale, l’auspicio va verso un ruolo politico dell’Europa più coeso e consistente, una diplomazia americana più indipendente e meno messianica, un decisivo impegno di Israele nel risolvere contemporaneamente la questione palestinese, e soprattutto una generale inversione di tendenza che rispetti finalmente il diritto sovrano della Repubblica Libanese.