APPROFONDIMENTI
Archeocondono incompiutoLa sanatoria sul possesso dei beni archeologici
A partire dal primo governo Berlusconi (1994), con il Ministro Fisichella, e poi con i governi successivi, attraverso il Ministro Veltroni (1998) ed il Ministro Urbani (2003), fino alla proposta Conte (2004), gli addetti ai lavori, e non solo, hanno seguito con enorme interesse l’avvicendarsi di una serie di proposte di legge, ben presto contrassegnate come “archeocondoni”, tese a sanare il possesso di beni archeologici da parte di privati, al di fuori delle circostanze previste dalla legge.
Proposte che, per vari motivi, non hanno mai superato la fase meramente progettuale. Ma perché cambiare le regole del gioco?
Appare utile, per meglio comprendere i termini della vicenda, collocare la questione del possesso dei beni archeologici nell’attuale quadro normativo.
Il Decreto Legislativo n. 42/2004, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, eredità di una tradizione secolare fissata dalla Legge n. 364/1909, poi rifusa nella Legge n. 1089/1939 e nel Testo Unico n. 490/99, attribuisce allo Stato, ipso iure, la proprietà di ogni nuovo rinvenimento di beni archeologici.
Infatti, l’ art. 90 stabilisce che “chi scopre fortuitamente cose immobili o mobili indicate nell’articolo 10 (beni d’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico) ne fa denuncia entro ventiquattro ore al soprintendente o al sindaco ovvero all’autorità di pubblica sicurezza e provvede alla loro conservazione temporanea”; la violazione di tale norma prevede “l’arresto fino ad un anno e l’ammenda da euro 310 a euro 3.099” (art. 175, violazioni in materia di ricerche archeologiche).
Ancora l’art. 91 precisa che tali beni “da chiunque e in qualunque modo ritrovati, nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato”; chi se ne impossessa “è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 31 a euro 516, 50” (art. 176, impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato).
Tuttavia il Ministero (art. 92) “corrisponde un premio non superiore al quarto del valore delle cose ritrovate: al proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento; al concessionario dell’attività di ricerca (art. 89); allo scopritore fortuito (art. 90)”. Tale premio può essere corrisposto tanto in denaro quanto mediante il “rilascio di parte delle cose ritrovate”.
Ne consegue che per essere legittimati al possesso di beni archeologici bisogna provare, esibendone i relativi titoli, di averli acquisiti in base agli articoli precedentemente indicati; oppure, secondo la giurisprudenza di Cassazione, dimostrare che il bene che si detiene è frutto di un ritrovamento anteriore alla legge n. 364/1909. Al di fuori di queste ipotesi si è in presenza del reato di ricettazione e dei reati previsti dal Codice dei Beni Culturali.
Nota:
Articolo pubblicato su: Archeo News, Anno II – Numero XXIII – Dicembre 2005, Edizioni Agenzia Magna Grecia, Albanella (SA).