PENA DI MORTE: democrazia e castigo definitivo
La criminalità in espansione rende di grande attualità il problema della pena di morte, punizione da più parti invocata ed auspicata come naturale antidoto alla delinquenza. L’esperienza e le statistiche, però, dimostrano che l’indice della delinquenza non è connesso alla pena capitale, ma ad altri fattori particolari: condizioni politiche, economiche e sociali. Infatti, sia essa in vigore, sia essa stata abolita, la percentuale della criminalità non cambia, se non in relazione all’ambiente socio-culturale di ciascun Paese.
I fautori della conservazione o del ripristino della pena di morte sono dell’opinione che l’abolizione incoraggi le associazioni a delinquere e i singoli criminali, perché viene a mancare la massima forma di intimazione e punizione. Così ammettono che la massima pena è dolorosa, ma la ritengono necessaria, perché temuta dai malviventi, considerati individui da distruggere.
Gli avversari controbattono che vogliono uno Stato educatore, che prevenga il male e recuperi il criminale, e non uno Stato carnefice, che giustizia in nome dell’esemplarità della pena capitale. Esortano, poi, l’opinione pubblica a reagire contro il disumano e inutile omicidio legalizzato, indegno di uno Stato democratico e di un popolo civile e libero. Dichiarano che un castigo diverso è più umano e, se inflitto con sollecitudine, più efficace della pena capitale.
Al reo rimane un’ultima speranza: la concessione della grazia da parte del Capo dello Stato. Alcuni sono contrari alla pena capitale perché ritengono che l’uomo agisca in base alle leggi della natura.
La storia del più grave dei castighi si perde nel corso dei secoli: ebbe all’inizio un carattere religioso e anche la Chiesa cattolica l’ha ammessa, anzi, nel passato, l’ha inflitta, con la convinzione di togliere al delinquente solamente la vita terrena, non quella eterna, sulla quale Dio solo può giudicare. Per chi non crede, invece, la condanna a morte preclude, ovviamente, ogni possibilità di redenzione.
In sintesi, si potrebbe dire che l’uomo, libero e responsabile, ha bisogno di istituzioni che lo guidino, lo frenino e, se necessario, lo recuperino; e non di inutili patiboli. La legislazione italiana sembra che condivida questi principi: infatti, la pena di morte fu abolita nel 1889; ripristinata nel 1926, fu nuovamente abolita nel 1944, reintrodotta per un periodo limitato alla fine della seconda guerra mondiale, fu applicata per l’ultima volta nel 1947. Da allora può essere applicata solo dai tribunali militari, in tempo di guerra, per alto tradimento o altri gravi reati. Quest’ultima possibilità è stata negata nel 1994. Pertanto, l’Italia è entrata definitivamente nel novero degli Stati che ritengono inutile l’applicazione della pena capitale, una cosa, a mio avviso, su cui porre l’accento, soprattutto per la battaglia contro il ricorso alla stessa.
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Informazioni tesi
Autore: | Tiziana Scommegna |
Tipo: | Diploma di Laurea |
Anno: | 2011-12 |
Università: | Università degli Studi di Bari |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Scienze dell'Amministrazione |
Relatore: | Giuseppe Cotturri |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 150 |
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