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Prologo
UNA LUCIDA FOLLIA
Ogni giorno, con le Ansa, con le e-mail, con le grida strozzate
- da angosce, emozioni, vuoti di parole –
arrivano le notizie.
Sì, arrivano comunque, quelle notizie tetre, di morte,
sangue, agonie, singhiozzi...
di boia in azione.
E, insieme ai pianti, la gioia,
quella biblica, ancestrale, della vendetta,
che sembra far acquietare il dolore
con un altro dolore, forse ancora più grande.
Una morte che accompagna un’altra morte,
dà nuovi impulsi ai sopravvissuti.
O almeno così appare.
Quello stillicidio di veleni, scosse elettriche,
di corpi deformati, estinti, esangui
ottenebra, amplifica ogni immagine, ogni illusione
facendo rivivere anche le più segrete speranze.
E allora mi chiedo, vi chiedo, una lucida follia
che faccia rinascere un mondo perduto
dove nessuno osi uccidere una formica,
calpestare una libellula,
strattonare una farfalla,
strappare le ali ad una coccinella.
E tantomeno pensare di torturare o togliere la vita a un uomo,
anche se fosse più perfido del più perfido dei Caini.
Una lucida follia che inseguo ogni giorno.
Sempre di più.
Aldo Forbice
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Il voler iniziare tale premessa con una citazione di Aldo Forbice non è una scelta
casuale, ma si riallaccia, innanzitutto, al mio pensiero, anzi, per meglio dire, al
mio ideale riguardo alla pena capitale.
La criminalità in espansione rende di grande attualità il problema della pena di
morte, punizione da più parti invocata ed auspicata come naturale antidoto alla
delinquenza. L‟esperienza e le statistiche, però, dimostrano che l‟indice della
delinquenza non è connesso alla pena capitale, ma ad altri fattori particolari:
condizioni politiche, economiche e sociali. Infatti, sia essa in vigore, sia essa stata
abolita, la percentuale della criminalità non cambia, se non in relazione
all‟ambiente socio-culturale di ciascun Paese.
I fautori della conservazione o del ripristino della pena di morte sono
dell‟opinione che l‟abolizione incoraggi le associazioni a delinquere e i singoli
criminali, perché viene a mancare la massima forma di intimazione e punizione.
Così ammettono che la massima pena è dolorosa, ma la ritengono necessaria,
perché temuta dai malviventi, considerati individui da distruggere.
Gli avversari controbattono che vogliono uno Stato educatore, che prevenga il
male e recuperi il criminale, e non uno Stato carnefice, che giustizia in nome
dell‟esemplarità della pena capitale. Esortano, poi, l‟opinione pubblica a reagire
contro il disumano e inutile omicidio legalizzato, indegno di uno Stato
democratico e di un popolo civile e libero. Dichiarano che un castigo diverso è più
umano e, se inflitto con sollecitudine, più efficace della pena capitale.
Al reo rimane un‟ultima speranza: la concessione della grazia da parte del Capo
dello Stato. Alcuni sono contrari alla pena capitale perché ritengono che l‟uomo
agisca in base alle leggi della natura.
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La storia del più grave dei castighi si perde nel corso dei secoli: ebbe all‟inizio un
carattere religioso e anche la Chiesa cattolica l‟ha ammessa, anzi, nel passato, l‟ha
inflitta, con la convinzione di togliere al delinquente solamente la vita terrena, non
quella eterna, sulla quale Dio solo può giudicare. Per chi non crede, invece, la
condanna a morte preclude, ovviamente, ogni possibilità di redenzione.
In sintesi, si potrebbe dire che l‟uomo, libero e responsabile, ha bisogno di
istituzioni che lo guidino, lo frenino e, se necessario, lo recuperino; e non di inutili
patiboli. La legislazione italiana sembra che condivida questi principi: infatti, la
pena di morte fu abolita nel 1889; ripristinata nel 1926, fu nuovamente abolita nel
1944, reintrodotta per un periodo limitato alla fine della seconda guerra mondiale,
fu applicata per l‟ultima volta nel 1947. Da allora può essere applicata solo dai
tribunali militari, in tempo di guerra, per alto tradimento o altri gravi reati.
Quest‟ultima possibilità è stata negata nel 1994. Pertanto, l‟Italia è entrata
definitivamente nel novero degli Stati che ritengono inutile l‟applicazione della
pena capitale, una cosa, a mio avviso, su cui porre l‟accento, soprattutto per la
battaglia contro il ricorso alla stessa.
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Capitolo 1
La concezione arcaica della vendetta
<<Chi dimentica diventa complice del nemico:
dimenticare le vittime significa
ucciderle una seconda volta.
Certo, non si comprenderà mai
la crudeltà del boia,
né la tenerezza delle sue vittime.
Non si tratta di capire, ma di conoscere.
Confessare l’incomprensione è segno di umiltà,
rifiutare la conoscenza è arroganza.
E insensibilità!>>
E. WIESEL
1. L’antica Grecia
Per secoli, in Grecia, prima della nascita della polis, ad un male inflitto si
rispondeva con la vendetta privata: la cultura ha inserito, infatti, la vendetta
nell‟ottica dell‟onore. Solo attuando una vendetta proporzionata all‟offesa chi ha
ricevuto un torto dimostra di essere più forte e più valoroso dell‟offensore.
Nel 621 – 620 a. C., la prima legge ateniese, quella di Draconte sull‟omicidio,
proibiva ai parenti della vittima di ricorrere alla forza privata. Loro diritto e
dovere era quello di denunciare l‟uccisione, da cui scaturiva l‟onere dello Stato di
accertare l‟episodio per poi irrogare o meno la pena stabilita dalla legge: morte per
l‟omicidio volontario, esilio per quello involontario. Ma nonostante tale divieto,
l‟idea che la pena vendicasse i torti era insita nella mentalità di molti ateniesi. In
tale contesto, si inserisce il pensiero di alcuni filosofi:
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Protagora, uno dei primi sofisti, sostiene che la virtù può essere insegnata e la
prova sta nella pena, che non deve essere sinonimo di retribuzione;
Platone, invece, ritiene che ci sono vari tipi di empietà e di persone empie, in
relazione alle quali bisognerà applicare una pena diversa: gli irrecuperabili devono
essere giustiziati o rinchiusi a vita in un carcere; al contrario, i recuperabili
dovranno essere rinchiusi in un carcere riabilitativo per almeno 5 anni e solo se
riacquisteranno la saggezza, verranno liberati, altrimenti saranno condannati a
morte.
Socrate, afferma che l‟ingiustizia e la malvagità sono malattie morali, la cui cura è
la pena: dopo che la morte ha separato l‟anima dal corpo, la prima conserva le sue
caratteristiche ed in base a queste viene giudicata, per poi essere inviata nel luogo
che ha meritato, ossia le isole dei Beati o il Tartaro. Le pene applicate nel Tartaro
hanno una funzione riabilitativa e paradigmatica.
2. Singolarità della pena di morte: Socrate e la cicuta
Chi torna col pensiero alla pena di morte nell‟antichità, ripensa inevitabilmente
all‟introduzione, ad Atene, della famosa cicuta, il veleno che nel 399 a. C. uccise
Socrate.
I tipi di esecuzione capitale, in Grecia, erano due:
La crocefissione greca, per i peggiori delinquenti, che consisteva
nell‟immobilizzare il condannato legandolo ad un palo infisso nel terreno,
serrandogli caviglie, polsi e collo, abbandonandolo alla derisione, alla
crudeltà, alle intemperie, ai morsi della sete, della fame, finché la morte non lo
coglieva, in alcuni giorni, addirittura, dopo una decina di giorni.
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La precipitazione, invece, era riservata ai condannati per reati religiosi e
politici.
Morire grazie all‟effetto di un veleno come la cicuta era un‟importante
innovazione, introdotta nel V secolo a. C. In realtà, esattamente come l‟iniezione
letale, la cicuta era un‟innovazione utile al potere che infliggeva la pena capitale.
Quel che sappiamo è che il veleno raffreddava la temperatura corporea a partire
dal basso sino a raggiungere il cuore, dando una morte dolce che, in effetti, pare
non fosse affatto tale. La descrizione di Platone della fine serena di Socrate è
probabilmente dovuta al desiderio del discepolo di idealizzare gli ultimi momenti
del maestro.
Altri resoconti sostengono che si è in preda a capogiro, con la mente oscurata, la
vista appannata, gli occhi che roteano selvaggiamente, le ginocchia indebolite, la
gola attanagliata e le estremità paralizzate. Una fine terribile, insomma, che
provocava fortissime sofferenze: la morte dolce, quindi, era solo ipocrisia. Essa
iniziò ad entrare in uso, pare, durante il regime dei Trenta tiranni, quando a molti
oppositori politici del regime veniva mandato in carcere il veleno perché lo
bevessero e morissero senza troppo rumore.
Quando tornò la democrazia, la cicuta restò in uso, ma senza mai venire
istituzionalizzata: essa veniva concessa solo a chi poteva pagarsela. Quindi, la
“morte dolce” era un privilegio di classe. Inoltre, era un‟alternativa permessa solo
ai colpevoli di reati religiosi o politici.
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3. La pena di morte ai tempi di Achille
La vendetta era un sentimento nobile di una società che considerava un uomo
come Achille il modello dell‟eroe. Era l‟ideale di una società in cui ciascuno
pensava ad affermare se stesso. La vendetta, insomma, era un comportamento
funzionale ad una società in cui i valori erano di tipo competitivo e la violenza
una virtù.
Fu solo quando accanto ai modelli competitivi cominciarono ad affiancarsi quelli
collaborativi che la vendetta venne dapprima consuetudinariamente limitata e poi
giuridicamente vietata. Il divieto della vendetta era espressione di un mutamento
di valori indispensabile all‟attuazione di una convivenza pacifica e civile.
Nella nuova società non era più Achille il modello dell‟eroe, ma Leonida, il
generale che nel 480 a. C., con i suoi soldati spartani, riesce a bloccare per tre
giorni l‟immane esercito dei Persiani e, accerchiato, rifiuta di arrendersi,
sacrificando la propria vita. Leonida muore per il bene comune, pone l‟interesse
della comunità dei greci al di sopra di quello personale, dei suoi affetti e della sua
sopravvivenza. Era nato un mondo nuovo, che vietava la vendetta. Il superamento
di quest‟ultima è stato un passo verso la civiltà e verso una società più progredita
e più pacifica.
Di fronte ad una tendenza che adombra la possibilità di un ritorno indietro nel
tempo nel tempo, in direzione opposta a quella percorsa dalla civiltà giuridica
occidentale, ripensare ai greci non è stato inutile.
Il fine di queste considerazioni è quello di contribuire alla soluzione utile per la
battaglia abolizionista, per la civiltà giuridica delle nazioni che non ammettono la
soppressione della pena capitale.
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4. Tra XIII e XVII secolo
Facendo un salto nel passato, precisamente ritornando al XIII secolo, è utile
parlare del pensiero dei sostenitori della pena di morte e degli oppositori. A favore
della pena di morte si poneva Tommaso d‟Aquino, per il quale “il bene di tutti
vale di più di quello di uno solo”.
Dall‟altra parte, invece, si poneva Tommaso Moro, secondo cui il crimine aveva
due cause sociali: la miseria e l‟ignoranza. Se esse non erano state eliminate e
qualcuno commetteva un reato andava curato con la preghiera e la prigione
“aperta”. Tuttavia lo stesso ammetteva un caso in cui la pena capitale poteva
applicarsi: il detenuto che da o riceve denaro, nonché chi lo riceve da lui.
Alciato, invece, sosteneva la necessità di sostituire la pena di morte con la
reclusione a vita.
Infine, Blaise Pascal asseriva: “è necessario uccidere per impedire che ci siano dei
malvagi? Questo significa farne due, invece di uno”.
5. L’Illuminismo
Continuando a ritornare indietro nel tempo, esattamente ai tempi dell‟illuminismo,
è necessario parlare della riforma, in senso umanitario, del diritto penale. Ma
prima di addentrarci nell‟argomento, è utile far cenno al quadro generale.
Nel settecento, la pena capitale veniva applicata ad un numero elevato di
comportamenti, che includeva la bestemmia, il sacrilegio, l‟eresia e la magia,
definiti delitti religiosi, accanto ai quali si ponevano il furto e la falsificazione di
monete, considerati crimini di lesa maestà, per i quali la morte era una pena
spropositata. Tra l‟altro, nel caso di delitti più gravi, ossia quelli di sangue e di
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lesa maestà, la morte era accompagnata da tormenti, come il supplizio della ruota
o i morsi di tenaglie roventi. L‟atteggiamento degli Illuministi dinanzi al problema
dei delitti religiosi fu unanime: la trasgressione della legge religiosa o morale e la
violazione di una norma del diritto penale erano cose diverse; la prima era
peccato, la seconda delitto. Altrettanto netta fu la presa di posizione degli
Illuministi contro i supplizi.
a. Cesare Beccaria
Nel 1764, contro la pena di morte si pronunciò, in primo luogo, Cesare Beccaria,
il quale si basò su due ordini di argomenti:
Gli esseri umani hanno dovuto concludere un contratto che ha imposto loro la
rinuncia di una parte della libertà di cui godevano, resa inutile, peraltro, dal
continuo stato di belligeranza;
La pena capitale non ha efficacia deterrente.
In merito agli stessi, egli sosteneva: “Qual può essere il diritto, che si
attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui
risulta la sovranità e le leggi. […] Non è dunque la pena di morte un diritto […]
ma è una guerra della nazione contro un cittadino. […] La morte di un cittadino
non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di
libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza pericolosa nella forma di
governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando
la nazione recupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell‟anarchia, quando i
disordini stessi tengon luogo di leggi. […] Io non veggo necessità alcuna di
distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno
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per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi
giusta e necessaria la pena di morte”. Come ben possiamo notare, questa citazione
riguarda il primo dei due punti.
Passando al secondo punto, il Beccaria dichiara: “Non è il terribile ma
passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato
esempio di un uomo privo di libertà […] il freno più forte contro i delitti”. Ecco
perché, alla pena capitale va sostituita la prigione a vita.
La pubblicazione del libro Dei delitti e delle pene, in realtà, ha suscitato diverse
reazioni: innanzitutto, non tutti i contrattualisti erano contrari alla pena capitale
(l‟esempio è rappresentato da Jean–Jacques Rousseau e Gaetano Filangieri).
Mentre Voltaire si affiancava al Beccaria, Immanuel Kant si pose a favore della
stessa. Tra le conseguenze più clamorose di tale pubblicazione rientra l‟Istruzione
del 1765 di Caterina III, in Russia, nella quale si legge: “l‟esperienza di tutti i
secoli prova che la pena della morte non ha giammai resa migliore una nazione”.
Rientra, in tali conseguenze clamorose, anche l‟inserimento dell‟opera nell‟Indice
della Chiesa, nonché la stima nei confronti della stessa da parte del presidente
degli Stati Uniti d‟America, John Adams.
b. L’Italia
Sempre nell‟ambito delle conseguenze scaturite dalla pubblicazione dell‟opera
rientra la legge emanata dal Granduca Leopoldo I di Toscana il 30 novembre
1786, la prima al mondo ad aver abolito la pena di morte.
In realtà, la norma ebbe vita breve: solo quattro anni dopo, la pena venne
reintrodotta, dapprima contro i ribelli e i sollevatori e successivamente per altri
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reati. Circa un secolo dopo, nel 1859, il governo provvisorio toscano la proibì
nuovamente. Lo stesso divieto acquisì ulteriore efficacia quando fu inserito nel
codice penale unificato Zanardelli. Ma la battaglia non era finita: fu reintrodotta
nel 1926 da Mussolini contro coloro che commettevano una serie di reati contro lo
Stato. Nel 1931, poi, fu estesa anche ad altri reati comuni. Si dovette attendere il
d.l. n. 224/1944, per l‟ulteriore abolizione: ma la stessa rimase in vigore per i reati
fascisti e di collaborazione con i nazi – fascisti; successivamente, fu prevista come
misura provvisoria in caso di partecipazione a banda armata, rapina con uso di
violenza ed estorsione (1945). Con la Costituzione italiana (1947) si ebbe
l‟abolizione, esclusi alcuni casi.
“Non è ammessa la pena di morte se non nei casi
previsti dalle leggi militari di guerra”
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recita l‟art. 27 della nostra Costituzione. L‟eliminazione totale si ebbe solo nel
1994, con un progetto di legge: “Per i delitti previsti dal codice penale militare di
guerra e dalle leggi militari di guerra, la pena di morte è abolita ed è sostituita
dalla pena massima prevista dal codice penale”.
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Ciò che preoccupa
maggiormente la popolazione è la persistenza di un “diritto penale mite” (basti
vedere la l. n. 134/2003, quella che prevede il “patteggiamento allargato”, la l. n.
145/2004, che ha ampliato l‟area applicativa della sospensione condizionale della
pena e la l. n. 251/2005 che ha inferto un colpo mortale alla certezza della pena, in
merito ai reati societari): ma ciò non necessariamente si coniuga con
l‟introduzione della pena capitale. Anzi, si punta su attività socialmente utili.
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A. Forbice, ASSASSINI DI STATO; pag. 16
2
A. Forbice, ASSASSINI DI STATO; pag. 17
3
E. Cantarella, IL RITORNO DELLA VENDETTA. Pena di morte: giustizia o assassinio?; pp. 21
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