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Il filologo sognatore: mitopoiesi, fonti letterarie inattese e ricezione dell'opera di J.R.R Tolkien

La mia tesi è una tesi in Filologia. Tolkien era un filologo, dunque il primo aspetto analizzato è stato questo: quanto del proprio lavoro, dei propri interessi accademici, è stato trasposto nella sua opera. Sono arrivato alla conclusione che molto è passato dai saggi accademici alla narrativa, e che qualunque parola, nome, ambientazione che per il lettore digiuno di Filologia altro non sembrano che azzeccate scelte terminologiche nella nomenclatura di un romanzo fantastico, derivano invece da approfonditi studi trasposti in maniera più o meno evidente in un'opera in cui nulla è lasciato al caso, in cui la scelta linguistica, le mot just, quello che per noi lettori è, per dirla con le parole di Tolkien, semplice “piacere eufonico”, ha rappresentato il prodotto di un incessante lavoro sulla parola e sulla sua derivazione dal linguaggio.

La “lingua” di Tolkien, i diversi registri utilizzati dal professore nelle sue opere narrative, derivano da vari linguaggi, dai linguaggi esistiti e studiati e da quelli legati al “vizio segreto” del professore oxoniano, vale a dire la creazione di linguaggi inventati che anzi, cronologicamente, vengono concepiti prima delle genti e del mondo di fantasia che Tolkien inventerà proprio per dare un substrato “concreto” alle sue lingue. Filologia e fantasia si mescolano in Tolkien in una creazione mitopoietica che, nelle sue intenzioni, voleva avere una funzione maieutica e propositiva, non doveva disimpegnare il lettore, ma contribuire ad immergerlo nelle problematiche del proprio tempo attraverso la creazione di nuovi miti, di nuovi concetti utili ad attraversare la “notte dell'ignoto”. Tolkien voleva dire delle cose e le ha dette col suo linguaggio, le ha dette nel modo che più gli è risultato congeniale, attraverso la filologia e la fantasia.

La mia è una tesi in Filologia romanza, dunque, nella seconda parte, ho analizzato il rapporto tra Tolkien, professore in Filologia anglosassone ad Oxford, studioso del Beowul, dell'Edda e della Saga dei Volsunghi, affascinato dal Kalevala finnico, e il mondo romanzo, sia quello francese, rappresentato dai romanzi di Chrétien e dai Lais di Maria di Francia, sia quello italiano, scoprendo un inaspettato e dichiarato amore di Tolkien per Dante oltre che particolari similitudini e analogie tra il suo primo romanzo, Lo Hobbit, e il Milione di Marco Polo. L'analisi di questo rapporto, quello tra Tolkien e il mondo romanzo, è risultata, come previsto, difficile, sia per la quasi totale mancanza di letteratura critica sia per l'intrinseca difficoltà nel trovare addentellati “cortesi” e “mediterranei” in un'opera di dichiarata filiazione nordica, ma sono comunque emerse correlazioni significative e alcuni parallelismi interessanti.

La terza parte della tesi analizza il rapporto tra Tolkien, l'Italia e gli italiani. Andando avanti negli studi e nelle ricerche negli scorsi mesi mi sono imbattuto in due tipi di approccio all'opera narrativa di Tolkien assolutamente diversi tra loro: quello italiano e quello europeo e americano. Mi sono reso conto che gli studi italiani non riescono a prescindere da una connotazione ideologica che è totalmente assente al di fuori dell'Italia. Ho appurato che Tolkien ha amato molto l'Italia, ha trasposto nelle sue pagine alcuni scorci italiani che lui, fine paesaggista, ha saputo tratteggiare in maniera esemplare, pur essendo stato in Italia solamente dopo la stesura de Il Signore degli Anelli. Dalle sue lettere traspare l'amore e l'ammirazione per la nostra terra e, come lui stesso ammette, alcuni luoghi descritti nella Terra di Mezzo gli sono realmente “apparsi” davanti agli occhi in Italia.

Tolkien ha amato l'Italia dunque ma non è stato corrisposto dagli italiani, che hanno preso la sua opera per uno zibaldone di florilegi pseudo-fascisti. Ho cercato di comprendere i motivi che hanno portato a questa interpretazione peculiarmente italiana, così faziosa e provinciale, provando a sottrarre l'opera di Tolkien al tiro incrociato dei cecchini ideologici e riproponendola per quello che è: una grande opera narrativa di fantasia, un romanzo moderno ammantato di Medioevo, una delle opere più importanti della narrativa del Novecento.

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1 INTRODUZIONE Quando nel 2015 ho sostenuto l’esame di Filologia romanza in maniera assolutamente inaspettata questa disciplina mi piacque moltissimo e mi appassionò tanto da decidere di chiedere la tesi proprio in questa materia. Sono già laureato in Scienze politiche e quando mi sono iscritto a Lettere a L’Aquila l’ho fatto per puro piacere personale. Quello di Filologia romanza era uno di quegli esami lasciati appositamente per ultimi, sulla carta poco entusiasmante, da fare obtorto collo per obbligo accademico. Non è andata così. Mi sono ritrovato immerso in un mondo, quello della “Chanson de geste”, che mi ha riportato alla mente le immagini di una Chanson de Roland illustrata che avevo da bambino e da lì, a ritroso, quelle dell’Odissea che mi raccontava mia madre e quelle “canzoni” (le chiamavano così gli anziani del mio paese) che mio nonno mi affabulava prima di andare a dormire. La battaglia di Roncisvalle mi ha fatto ripensare a quando, adolescente, leggevo Tolkien e mi “appassionavo” per l’eroica difesa dei Cavalieri di Rohan al fosso di Helm che con i miei amici rivivevamo attraverso i Giochi di Ruolo. Poi, per molti anni, non ho più pensato a queste cose finché, immaginando con la professoressa Spetia l’argomento di una possibile tesi che mettesse d’accordo i miei interessi con le tematiche specifiche della materia mi è venuto in mente Tolkien. Ho iniziato dunque a studiarlo più approfonditamente, non solamente come scrittore di narrativa ma anche come professore di Anglosassone e di Lingua e letteratura inglese prima a Leeds e poi a Oxford e mi sono reso conto, parlando con amici e conoscenti dell’argomento della mia futura tesi che la percezione di Tolkien che la maggior parte delle persone aveva si poteva riassumere con queste parole: «Come? Una tesi su Tolkien? Ma è un fascista!». Rimanevo colpito da quelle affermazioni, mi chiedevo perché, tutti erano assolutamente certi di qualcosa e io, che ne avevo letto probabilmente più di tutti loro, non avevo mai pensato a Tolkien sotto quest’ottica. Ho provato a capire il perché. La mia tesi è una tesi in Filologia. Tolkien era un filologo, dunque il primo aspetto analizzato è stato questo: quanto del proprio lavoro, dei propri interessi accademici, è stato trasposto nella sua opera. Sono arrivato alla conclusione che molto è passato dai saggi accademici alla narrativa, e che qualunque parola, nome, ambientazione che per il lettore digiuno di Filologia altro non sembrano che azzeccate scelte terminologiche nella nomenclatura di un romanzo fantastico, derivano invece da approfonditi studi trasposti in maniera più o meno evidente in un’opera in cui nulla è lasciato al caso, in cui la scelta linguistica, le mot just, quello che per noi lettori è, per dirla con le parole di Tolkien, semplice “piacere eufonico”, ha rappresentato il prodotto di un incessante lavoro sulla parola e sulla sua derivazione dal linguaggio. La “lingua” di Tolkien, i diversi registri utilizzati dal professore nelle sue opere narrative, derivano da vari linguaggi, dai linguaggi esistiti e studiati e da quelli legati al

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fascista
linguaggio
filologia
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