Realtà di fabbrica. Il caso Melfi
Sono passati tredici anni dall’inaugurazione della produzione all’interno dello stabilimento lucano e particolarmente rilevanti sono stati i rimodellamenti nell’organico, soprattutto in relazione alla manodopera impegnata all’interno del ciclo di produzione e che svolge la propria mansione in linea (operai): un alto turn over determinato dalla voglia di sottrarsi a ritmi (TMC-2) e orari di lavoro (doppia battuta) insostenibili.
Tale turn over ha senza dubbio inficiato il singolare percorso di “costruzione” degli addetti che ne ha contraddistinto l’avviamento: le prime leve di Melfi, o come venivano chiamati al momento dell’assunzione i “ragazzi di Melfi” (dato che uno dei requisiti per l’assunzione era la soglia massima di età di 35 anni), hanno assistito così all’abbandono del proprio posto di lavoro da parte di molti colleghi, e all’ingresso in officina di nuovi colleghi che non hanno assolutamente avuto una socializzazione al lavoro industriale della loro portata. Si è assistito così ad una differenziazione qualitativa della popolazione aziendale, che se da una parte ha intaccato il senso di appartenenza all’universo SATA-Fiat (del resto chi è entrato successivamente in SATA era già a conoscenza della realtà vigente all’interno dello stabilimento considerato l’alto turn over), dall’atra non ha inciso minimamente sul senso ultimo dell’esistenza dello stabilimento lucano: riuscire a produrre il più possibile dove più basso è il costo della manodopera rispetto agli altri stabilimenti della Casa (all’interno dei quali tra l’altro sempre più ricorrente è il ricorso alla cassa integrazione) e dove si ha a disposizione un consistente bacino di manodopera.
Materie queste (salari, tempi e orari di produzione) in ogni modo accettate e concordate con la sottoscrizione dell’accordo dell’11 giugno ‘93, lo stesso accordo tramite il quale sono state poste le basi della collaborazione/concertazione con le organizzazioni sindacali e della partecipazione operaia, incentivata da premi monetari variabili quali Pdc e Pmq. Accordo dove si cita testualmente che “le parti si impegnano ad una gestione attiva dell’intesa volta ad escludere ricorsi giudiziari individuali o collettivi tendenti all’inefficacia o alla caducazione anche di una sola clausola del presente accordo” .
Dieci anni durante i quali tale sistema di regole condivise, accettato sotto l’abbaglio dell’occupazione, ha governato e mascherato ad arte gli effetti perversi del Sistema Melfi. Un sistema che fissa il suo ordine interno sul controllo degli operai sugli operai, inserendoli entro una collettività imposta e predeterminata quale è quella del lavoratore organico, mascherando ciò sotto il vincolo delle esigenze di produzione, e sostanzialmente basato sulle alte performance raggiungibili grazie all’utilizzo del sistema metrico applicato (TMC-2).
Sono questi i presupposti, le motivazioni forti, gli effetti del Sistema Melfi che stanno alla base del malcontento e delle tensioni latenti perpetuatesi per dieci anni, rimaste incastonate nei termini dell’accordo dell’11 giugno, e che hanno direttamente determinato lo scoppio della rivolta dei 21 giorni.
Una rivolta, dunque, contraddistinta oltre che dall’elevato livello di partecipazione e condivisione delle motivazioni, da un senso di rivincita nei confronti dell’azienda rispetto a quanto subito all’interno delle officine fino a quel momento, nonché dalle molteplici difficoltà incontrate dalle rappresentanze sindacali ad incanalarla all’interno dei momenti istituzionali di confronto e dialogo.
Forte e radicale il dissenso espresso grazie al quale è stato possibile riuscire ad ottenere gli scopi prefissati.
A tutt’oggi, a distanza di due anni dalla rivolta, lo stabilimento di Melfi è governato dalla stessa calma apparente del periodo antecedente alla rivolta stessa. Infatti sebbene siano stati raggiunti traguardi prima impensabili, quali l’equiparazione salariale e il superamento della doppia battuta, essi hanno solamente riassestato il Sistema Melfi, che da tale rivolta ne è uscito comunque vincente, dato che non si è riusciti a mettere in discussione il perno fondamentale dello stesso, ovvero il sistema di metrica del lavoro applicato al suo interno.
Del resto è ancora molto diffusa l’opinione secondo la quale “abbascio” ci si ammala.
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Informazioni tesi
Autore: | Angelo Milazzo |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2005-06 |
Università: | Università degli Studi di Roma La Sapienza |
Facoltà: | Sociologia |
Corso: | Sociologia |
Relatore: | Antonio Fasanella |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 198 |
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