4
quantità di prodotto, che in time verrà assorbita dalla domanda di mercato.
Insomma, produrre meglio ed il necessario. La nuova parola d’ordine diventa
quindi, economizzare il processo di produzione, eliminando gli sprechi e le
giacenze di stock. La produzione viene gestita direttamente in officina, dove
materialmente avviene la lavorazione attraverso una manodopera plurifunzionale,
e quindi capace di riadattarsi in tempi brevi ai cambiamenti del prodotto da
realizzare. Viene abbandonata la standardizzazione delle mansioni e la
produzione incentrata sulla quantità, tipica del modello taylorista-fordista, per
dare invece superlativa importanza alla qualità del prodotto.
Sembrerebbe una radicale rottura col modello fordista, a favore di una svolta
verso quello che Coriat ha identificato come il “modello ohnista”
1
, ma in effetti,
per la Casa torinese si tratta più di un percorso lineare, conseguenziale e di
economizzazione, piuttosto che di una rivoluzione in senso stretto. Quello di
Ohno è un diverso metodo di produzione, che riplasma i rapporti e le funzioni
degli operai, ma che non intacca per niente il fine ultimo della produzione stessa:
la produzione e riproduzione di capitale. Del resto, lo stesso Ohno “non è uno di
coloro per i quali il capitale, la proprietà, e le prerogative dei suoi amministratori e
funzionari delegati rappresentino soggetti da mettere in discussione”. (Coriat,
1990, trad. it. 1991: 77)
Nel Capitolo 1 ci occuperemo dello “sbarco Fiat” in Basilicata, provando a
delineare al meglio l’avviamento del Sistema Melfi. Un’ organizzazione impostata
su ciò che è stato conveniente importare dalle esperienze d’oltroceano. Proprio
per questo, sarà utile soffermarsi, in prima istanza, sul modello di produzione
giapponese.
Una volta constatato che non esiste una versione pura del modello giapponese
(neanche nei transplant), per motivi riguardanti principalmente la diversità
1
Neologismo coniato da Coriat per “associare chiaramente le innovazione essenziali della scuola
giapponese al nome di colui che fu senza dubbio all’origine dei più importanti contributi della nuova
scuola” (Coriat, 1990, trad. it. 1991: 13), ovvero Tajichi Ohno.
5
storico-economica, nonché culturale, dei paesi dove si è provata l’applicazione di
alcune delle sue principali metodiche produttive e gestionali, è lecito poter oggi
affermare, soprattutto a fronte delle nuove politiche di management delle risorse
umane, che ogni stabilimento è un vero e proprio caso a se stante. Non è infatti
possibile l’esistenza di stabilimenti gemelli, per il semplice motivo che ad animarli
sono persone in carne ed ossa, che tendono ad instaurare al loro interno rapporti
interrelazionali unici; il tipo di lavorazione effettuata è inoltre diversa in ognuno di
questi, ed i rapporti sono, in maniera non indifferente, governati dal metodo
produttivo adottato. L’utilizzo del Kan-Ban in SATA (Capitolo 2) ha infatti risvolti
relativi sia all’organizzazione del flusso, sia ai rapporti di produzione della
fabbrica.
Dopo più di dieci anni dall’apertura dello stabilimento, durante i quali diversi sono
stati i rimodellamenti dell’organico (circa il 30% del management intermedio oggi
presente in SATA proviene da assunti nel 1993-1994, e più di 1.800 persone non
fanno più parte dell’organico per svariati motivi), sembra ora opportuno guardare
allo stabilimento con occhio differente, alla luce dei nuovi soggetti che ne sono
entrati a far parte: ma del resto uno stabilimento, anche se concepito come
partecipato, rimane sempre l’ultimo anello di una catena decisionale, che parte
dall’alto e per la quale esso deve comunque produrre. Non va dimenticato che,
sebbene si tenti di riformulare (plasmandoli a proprio vantaggio) i rapporti sociali
fra i salariati all’interno delle fabbriche, non è comunque pensabile, da parte
aziendale, riformulare i rapporti tra chi si occupa direttamente della produzione
materiale e chi gestisce quest’ultima, ovvero tra i proprietari dei mezzi di
produzione e coloro i quali vendono il proprio lavoro a tal fine. Non è nell’ottica
della FI ripensare i rapporti di produzione. Tutto ciò riflette appunto la situazione
di Melfi, in cui la produttività è altissima: 4363 operai
2
che producono
2
Al 31/12/2003.
6
mediamente 1200 auto al giorno, a fronte delle 900 prodotte dai circa 16 mila
dipendenti di Mirafiori, con ritmi di lavoro estremamente faticosi.
Notevoli le peculiarità del Sistema Melfi, particolarità che lo hanno contraddistinto
dalla sua gestazione al suo avviamento produttivo.
E tale singolarità ha fatto sì che Melfi ricoprisse un posto di rilievo nazionale per
quanto riguarda l’ambito della ricerca sull’organizzazione del lavoro: per il
modello innovativo che rappresenta, sin dalla sua progettazione il Sistema Melfi
è divenuto il centro di discussione per la produzione scientifica impegnata nello
studio dell’organizzazione del lavoro, nonchè per la letteratura militante. L’una, a
secondo dell’approccio utilizzato, intenta a verificare l’applicazione del modello
italiano di fabbrica integrata, l’altra impegnata nella ricostruzione di una categoria
analitica di classe, ormai destrutturata e uscita sconfitta dalla marcia dei 40.000
in poi, sia per quanto riguarda il potere politico-vertenziale, incentrando
l’attenzione sulla sua collocazione all’interno del sistema produttivo italiano, sia
nell’impegno a trovare spazi e margini di conflitto nuovi e possibili. C’è da dire
che, comunque, la visibilità di tale stabilimento e la sua importanza produttiva
sono rimaste limitate alla stretta cerchia degli interessati all’argomento, ai
dipendenti, nonché alle popolazioni locali.
Nell’aprile del 2004 Melfi ha fatto parlare di sé (Capitolo 3), o meglio, i soggetti
invisibili che la hanno da sempre animata, per la prima volta in dieci anni
dall’inaugurazione, hanno preteso voce in capitolo e influenzato, in maniera non
indifferente, l’andamento dell’esistente, all’interno di una fabbrica di per sé ideata
e nata come partecipata.
Da molti anni in Italia abbiamo assistito a proteste e manifestazioni indette da
lavoratori dipendenti, tutte aventi come primo, ed unico, obiettivo la difesa del
proprio posto di lavoro da un eventuale licenziamento o cassa integrazione,
7
considerati come effetti delle politiche economiche caratteristiche del periodo
economico attuale, designato come post-fordismo.
Lo scarto di Melfi sta proprio nel fatto che la protesta è letteralmente scoppiata,
oltre che da una calma apparente durata per ben dieci anni, proprio per motivi
che niente hanno avuto a che fare con la conservazione dell’ordine esistente:
sono stati messi in discussione salari, regime di fabbrica ed organizzazione del
lavoro. Per questo suo aspetto propositivo, la rivolta di Melfi, esplosa ben lungi
da ogni appuntamento sindacale, ha ben poco risentito, nel suo divenire, dei
limiti che contraddistinguono una protesta prettamente difensiva.
Messo definitivamente a fuoco l’oggetto della nostra indagine, e riportati nascita
e sviluppo della rivolta operaia di Melfi, verranno esposti i risultati della ricerca
empirica svolta nella zona del Vulture Melfese.
L’indagine è stata avviata proprio durante i 21 giorni di Melfi, tramite
l’osservazione diretta di quanto stava accadendo fuori i cancelli dello
stabilimento. Diversi sono stati gli ostacoli di percorso che ne hanno modellato, in
maniera non poco rilevante, svolgimento e prospettive; ostacoli comunque legati
alle realtà istituzionali direttamente interessate all’argomento, ed in possesso di
dati necessari per una sua conoscenza approfondita, anche per quanto riguarda
l’aspetto della salute fisica degli operai.
Ma questo probabilmente viene ritenuto come il prezzo inevitabile da pagare nei
confronti di chi offre migliaia di posti di lavoro, in una Regione dove questo
scarseggia.
Allo studio a tavolino e ad una quanto mai necessaria raccolta di dati sono stati
accompagnati periodi di presenza nelle zone che gravitano attorno al bacino
occupazionale dello stabilimento. Momenti fondamentali per evitare uno studio
disarticolato dall’effettiva realtà sociale ed economica propria dei soggetti
interessati. Sono appunto le relazioni esistenti fra le sfere individuali dei soggetti
8
appartenenti a tale contesto e l’ambito lavorativo, le dimensioni sulle quali si è
indagato per analizzare la rivolta dei 21 giorni e gli eventuali effetti che
quest’ultima ha avuto.
Per la rilevazione e misurazione delle caratteristiche individuate come costituenti
delle suddette dimensioni, è stato scelto l’utilizzo di un questionario
standardizzato, principalmente dovuto al numero elevato del campione
individuato. La somministrazione è avvenuta tramite interviste faccia a faccia,
effettuate da un gruppo di studenti appartenenti alle Facoltà di Sociologia e
Scienze della Comunicazione, interessati all’argomento e preparati
appositamente per l’indagine in questione. Gli studenti che hanno partecipato alla
somministrazione del questionario sono: Capotosti Sara, Ciccone Ripalta,
Dabbicco Michele, Fontana Dario, Mantovani Lorena e Pennella Rocco. A loro
un sentito ringraziamento.
9
Capitolo 1
La Fiat a Melfi
1. Il modello onhista e la via italiana
Spesso identificato col modello toyotista, esso racchiude in sé tutti quei
cambiamenti, nei metodi di gestione della produzione e dell’organizzazione della
forza lavoro, architettati ed introdotti nel corso degli anni ’50 da Tajichi Ohno,
all’interno dello stabilimento madre della Toyota. In linea col Coriat di Ripensare
l’organizzazione del lavoro, qui si sostiene che quello di Ohno è solo un discorso
di metodo e, come il discorso di metodo coniato precedentemente da Taylor o da
Ford, esso può essere applicato secondo differenti varianti: come alla Toyota,
come in altri stabilimenti giapponesi, come alla Fiat stessa.
Per comprendere al meglio la natura di questo modello, il miglior modo è cedere
la parola allo stesso Ohno:
“Il sistema Toyota è nato dal bisogno particolare in cui si è trovato il Giappone di
produrre piccole quantità di numerosi tipi di prodotti; in seguito è evoluto fino a
diventare un vero sistema di produzione. In ragione della sua stessa origine,
questo sistema è dunque fondamentalmente efficace per la diversificazione.
Mentre il sistema classico della produzione di massa pianificata è relativamente
rigido di fronte al cambiamento, il sistema Toyota si dimostra al contrario
estremamente flessibile e si adatta facilmente alle più difficili condizioni di
diversificazione. La ragione è che esso è stato concepito proprio per questo”
(Ohno, 1978, trad. it. 1993: 49).
10
Si tratta di un metodo di produzione storicamente situato e contestualizzato,
plasmatosi nel Giappone degli anni ’50, in base sia alle esigenze produttive e alla
domanda di mercato, specifica del secondo dopoguerra, ma notevolmente
rinforzatosi anche e grazie alla spinta della domanda bellica negli anni della
guerra di Corea.
Tra il 1947 ed il 1950, in casa Toyota si assiste ad un riassettamento nel campo
automobilistico industriale, facilitato dall’importazione di innovazioni tecnico-
organizzative provenienti dall’industria tessile. A tal proposito, è bene ricordare
come la Toyota fosse, già prima di quegli anni, un’azienda principalmente
impegnata nel comparto tessile, e lo stesso Ohno un dipendente di tale
comparto.
Nel ’49 la Toyota attraversa una grave crisi finanziaria: si rischia il fallimento, e
per uscire dalla crisi viene effettuato un piano di ristrutturazione aziendale che
prevede la riduzione dell’organico di circa 1600 dipendenti. Neanche l’imponente
sciopero di quel periodo riesce a fermare tale situazione; si dimette anche il
presidente e fondatore Kiichiro Toyoda. Non appena finito lo sciopero inizia la
guerra di Corea.
Si crea una contingenza paradossale, per un’azienda appena uscita da una
drastica riduzione del personale, ed alla quale vengono indirizzate in massa delle
commesse. Come soddisfare queste ingenti commesse senza aumentare
l’organico? E’ proprio in questi anni che la piccola casa automobilistica sarà
costretta a trovare soluzioni e strumenti produttivi adeguati, per ottimizzare le
performance produttive ed economizzare i costi derivanti dagli sprechi che
avevano convissuto col processo di produzione. È lo stesso Ohno a far notare
come la produzione effettiva era stata limitata, fino a quel momento, quasi
esclusivamente alla seconda metà del mese, mentre la prima metà era stata
utilizzata nell’organizzazione delle componenti commissionate (la maggior parte
11
del processo di assemblaggio), e nell’attesa delle stesse. Le commissioni elevate
provenienti dalla guerra di Corea avevano creato intanto una situazione per la
quale lo sviluppo produttivo e la riduzione dei costi-sprechi non poteva passare
per i calcoli economici delle economie di scala, tipiche delle industrie fordiste,
considerata anche la relativa limitatezza (anche se in un certo senso il mercato
Giapponese era ancora e comunque vergine) del mercato al quale l’azienda si
rivolgeva. Ridurre in maniera esponenziale gli sprechi, e ottimizzare il processo
di produzione diventavano nodi fondamentali per il rilancio dell’azienda e per la
sua produttività.
Metodo innovatore, introdotto da Ohno in tal senso, sarà il progressivo utilizzo
del Kan-Ban, all’interno dei reparti di assemblaggio prima e alle imprese
appaltatrici poi. Kan-Ban, letteralmente cartellone, è un metodo di gestione degli
stock ideato in America verso la fine degli anni’40 per l’approvvigionamento dei
supermercati.
Tale metodo prevede che il carico di magazzino venga effettuato in base alla
quantità e alla varietà dei prodotti addebitati alla cassa. A determinare
l’ammontare e la varietà dei prodotti da riordinare, è direttamente l’ultimo anello
del processo di vendita al consumo. Si razionalizzano ed ottimizzano così i tempi
e i metodi delle ordinazioni: il flusso delle comunicazioni, infatti, non parte più dal
magazzino, ma direttamente dai registratori di cassa. La svolta di Ohno è
appunto quella di applicare questa logica a ritroso all’interno dei processi di
produzione. Diventa ora possibile attuare logisticamente l’intuizione che,
secondo le tradizioni della casa Toyota, era stata formulata già negli anni ’30 da
Kiichiro Toyoda. Produrre in tempo solo quello che necessitava, senza produrre
troppo: in breve, just in time
3
(JiT).
3
Secondo la definizione data da Schonberger (1982: 42) per just in time si intende: “Produrre e consegnare
merci finite al momento opportuno per essere montate nei prodotti finiti, parti al momento opportuno per
inserirle nei sottogruppi, e i materiali acquistati per trasformarli al momento opportuno in parti”.
12
Per capire la logica a ritroso del Kan-Ban, basta immaginare due diverse linee
parallele, ma di verso opposto: una che gestisce la produzione e l’altra, quella
pensata all’inverso da Ohno, di verso opposto, che funziona da flusso di
informazione. Ogni postazione di lavoro si approvvigiona dei pezzi necessari
dalla postazione precedente, e a fornire il programma di produzione è così
(almeno formalmente), la fase finale del processo produttivo. Tale metodo è
anche detto di supermercato, poiché ogni postazione è intesa come cliente della
postazione precedente, e insieme fornitrice di quella successiva. In questa
maniera, è possibile spostare solo i pezzi necessari ed evitare stazionamenti o
movimenti inutili di pezzi e stock semilavorati. L’applicazione di questo metodo
rende possibili tagli alla burocrazia di fabbrica, poiché il flusso produttivo viene
direttamente gestito in officina dagli operai, a loro volta gestiti dal metodo Kan-
Ban; insomma, non servono più gli uffici direzionali, adibiti allo smistamento delle
informazioni.
L’applicazione del metodo tramite Kan-Ban è comunque graduale nel tempo, ed
accompagnato in maniera complementare da un diverso modo di gestione della
manodopera, proprio per sopperire ai bisogni di cui sopra si è detto.
Se infatti il Kan-Ban può essere considerato come uno dei pilastri dell’ohnismo,
non bisogna comunque dimenticare le diverse intuizioni della casa, per quanto
concerne la gestione in senso proprio della forza lavoro. Infatti, per soddisfare le
commesse, con i pochi operai a disposizione rimasti dopo il licenziamento di
massa, venne allora adottato un “principio congiunto di linearizzazione della
produzione, e una concezione dell’organizzazione del lavoro intorno a posti
polivalenti” (Coriat, 1990, trad. it. 1991: 47). Ciò vuol dire la creazione di una
linea produttiva unica nella quale nasce la scocca, che passo dopo passo viene
assemblata con tutte le componenti necessarie per finire il prodotto-auto; inoltre
tale linea può contare sul lavoro non di grandi masse di operai, che compiono
13
lavori parcellizzati e singolari in ogni mansione, ma sul lavoro di pochi operai che
controllano contemporaneamente più postazioni (tecnica importata dal comparto
tessile), e capaci inoltre di coprire aree di lavoro e svolgere compiti diversi. Il
lavoratore viene liberato dalla mansione fissa e specializzante, per acquisire il
ruolo di plurilavoratore multifunzionale.
Vengono progressivamente e gradualmente eliminati i tempi morti di produzione
e la manodopera in eccesso, e poiché il “sistema permette di far risalire a galla la
manodopera esuberante” (Ohno, 1978, trad. it. 1993: p.33), è possibile ridurre
l’organico in modo tale da ottenere una fabbrica ridotta ai minimi termini, capace,
col massimo utilizzo di impianti frugali
4
e con una manodopera così riformulata,
di ottimizzare la produttività. In senso inverso va invece la logica del fordismo,
secondo la quale per aumentare la produttività di uno stabilimento è necessario
aumentare l’organico, parallelamente all’aumento della produzione. L’interesse è
“quello di produrre a buon mercato una piccola serie di modelli differenti” (Ohno,
1978, trad. it. 1993: 49), controllandone la qualità in itinere lungo la linea di
montaggio.
Per il controllo della qualità, sempre e comunque mirato all’eliminazione degli
sprechi, si inserisce, come principio strutturante della produzione, il concetto di
autonomazione. Derivante dalla contrazione delle parole autonomia ed
automazione, esso consiste in dispositivi meccanici che bloccano
automaticamente le macchine in caso di funzionamento difettoso, rimanendo
comunque legati all’esecuzione del lavoro umano. Tale estensione del compito di
bloccaggio delle macchine all’intenzione umana dà vita al principio
dell’autoattivazione, che consiste nel “reintegrare la gestione della qualità negli
atti elementari di esecuzione delle operazioni” (Coriat, 1990, trad. it. 1991: 47), o
per dirla con Bonazzi, il quale confonde autonomazione con autoattivazione, “il
4
Ovvero impianti e macchinari del più semplice utilizzo possibile, in modo da favorirne l’uso, la gestione
ed il controllo direttamente da parte dei lavoratori addetti alla produzione. Frugale non è stupido o
tecnologicamente arretrato quindi, di semplice utilizzo.
14
diritto-dovere degli operai di interrompere autonomamente il flusso produttivo
tutte le volte che notano delle anomalie o difetti […]” (Bonazzi, 1993: 24),
totalmente differente dalla one best way, secondo la quale la produzione deve
sempre e comunque andare avanti.
Al lavoratore anzi, vengono delegate ampie responsabilità, impensabili secondo i
precetti della one best way. Esso viene stimolato ed incentivato a partecipare alla
vita aziendale, non soltanto per quanto riguarda l’aspetto produttivo in senso
stretto; l’operaio è l’azienda, e l’azienda è composta anche da operai, capitale
umano al quale vengono riconosciute, oltre le competenze tecniche, le capacità
intellettuali e creative portatrici di innovazione e risparmio: lo scopo è quello di
utilizzare al meglio tutte le risorse umane, al fine di ottenere un progressivo e
continuo miglioramento (kaizen)
5
, sia del singolo che dell’azienda. Un processo
di partecipazione che non viene direttamente dettato dall’alto (topdown), ma del
quale ne viene facilitata e stimolata la partecipazione dal basso (bottomup), da
parte del singolo e del gruppo, o dei vari gruppi all’interno dei quali egli è inserito.
Antonio Carbonaro, in un suo articolo comparso in Sociologia del lavoro, fa
notare come le “spinte latenti di riproduzione della propria identità” abbiano
influito coerentemente a se stesse durante lo svolgimento della razionalità anche
economica, ed ancora, “quelli che a noi sembrano sincretismi […], in realtà sono
delle innovazioni”. Infatti, già nel suo stato embrionale, durante l’epoca Meiji
6
, il
processo di industrializzazione si fondava “più sugli ideali della morale e della
5
Viene spesso utilizzata una metafora per illustrare il significato di tale peculiarità del modello:
“Immaginiamo un fiume con molti massi sul fondo su cui rischiano di infrangersi gli scafi e i battelli. Non
ci sono che due modi per rendere navigabile il fiume: o elevare il livello dell’acqua […] oppure rimuovere i
massi dal fondo. Mentre la produzione tradizionale sceglie di alzare il livello dell’acqua, il metodo Toyota
sceglie di rimuovere i massi. Ma non appena i massi maggiori sono rimossi, la sfida diventa quella di
abbassare ancora l’acqua del fiume in modo da obbligare a rimuovere anche i massi minori, e così via
lungo una curva asintotica di perfezionamento che non avrà mai fine”. (Bonazzi, 1993: 29).
6
Periodo (1868-1912) profondamente legato alla modernizzazione del Giappone, durante il quale ha inizio
il processo di assimilazione dei modelli strutturali occidentali per liberarsi dai “trattati ineguali” che
soffocano la diplomazia dell’Isola con il resto del mondo moderno (occidentale). La rivoluzione industriale
giapponese, associata a tale periodo, fu possibile tramite l’enfatizzazione della figura del samurai, di scarsa
rilevanza numerica, ma lampante esempio per l’intera collettività. Pur abbracciando gli schemi culturali
occidentali, rimasero intatti modelli di comportamento quali la fedeltà al proprio signore e la rinuncia
personale a vantaggio della comunità.
15
cultura del passato, che sulle teorie economiche e dell’organizzazione”.
(Carbonaro, 1994: 233-244).
Nella cultura giapponese, intrisa anche nella cosa pubblica di una forte
preminenza dei sentimenti familiari, le “persone sono portate ad identificarsi in un
noi sempre più allargato, fino all’azienda, intesa come grande famiglia
adottiva”(Carbonaro, 1994: 231).
In una ricerca curata da Sviluppo Personale – Fiat S.p.A., in collaborazione con
Isvor-Fiat e JMAC CONSIDI (Japan Abroad), presentata nel giugno del ’91 e
mirata allo studio dei transplant giapponesi in Europa, e del loro confronto con gli
stabilimenti autoctoni, vengono elencati in un paragrafo i principi del lavoratore
giapponese. Questo, per tradizione culturale è abituato a sviluppare rapporti
coinvolgenti con l’impresa e l’imprenditore; ad attribuire enorme importanza al
lavoro di gruppo, affidando e riconoscendo in questo un’enorme forza normativa;
a dedicare un’elevata quantità di tempo all’attività lavorativa.
In sintesi, le innovazioni al sistema industriale capitalistico apportate dall’ohnismo
possono essere così riassunte:
• riduzione dei costi-sprechi, tramite l’eliminazione degli stock di
magazzino e dei relativi movimenti di merci, dei tempi morti di
produzione e dell’esubero di manodopera;
• impiego del metodo Kan-Ban e del just in time;
• utilizzo flessibile ed intensivo della manodopera;
• utilizzo di macchinari frugali per diminuire i tempi di setup, e permettere
così dei veloci cambiamenti di stampo;
• attenzione nei confronti della qualità, in maniera costante e durante
tutto il processo di produzione;
• stretti legami di cooperazione con le aziende fornitrici, per quanto
riguarda i tempi di approvvigionamento, la qualità delle forniture e la
16
condivisione di conoscenze necessarie al miglioramento, sia del
reciproco rapporto economico, sia per quanto riguarda il miglioramento
del prodotto stesso;
• impiego a vita degli addetti minimi, loro inserimento all’interno
dell’azienda, attenzione alla loro formazione ed utilizzo dell’incentivo
rispetto all’applicazione delle sanzioni.
Nessuna rivoluzione tecnologica, ma semplicemente un utilizzo diverso della
manodopera e della gestione del doppio flusso produzione-comunicazione,
finalizzato all’ottimizzazione dei tempi e dei costi-sprechi. L’avanzamento
tecnologico infatti, non è, e non deve essere, repentino, ma graduale nel tempo,
per ottenere sempre il migliore bilanciamento possibile con il fattore umano,
necessario per il controllo ottimale della qualità e del processo, e capace di
riadattarsi più velocemente delle macchine ai cambiamenti di produzione. Il
metodo si è sviluppato infatti, non grazie ad una progettualità ex ante, ma come
evoluzione di un processo dinamico, che è riuscito a sfruttare a proprio vantaggio
contingenze storiche ed economiche, per meglio adattarsi progressivamente ad
obiettivi locali e circoscritti (interni). Basti pensare al progressivo aumento dei
controlli della qualità in linea, ben integrato all’interno di un sistema nascente
che, guardando al fordismo in quanto fabbrica industriale capitalista, ha fatto i
conti con un’esplosione della produzione durante la guerra di Corea e,
nonostante tutto, passo dopo passo, è riuscito a collocarsi a pieno titolo nel
processo produttivo.
Del resto, le strategie a lungo raggio sono sempre state peculiari nel
raggiungimento degli obbiettivi delle aziende giapponesi. La produttività degli
impianti Toyota, sia quelli in Giappone che i transplant esteri, continua oggi ad
aumentare, e per il 2006 l’obiettivo è diventato quello di togliere la leadership
mondiale alla General Motors, che attualmente detiene il primato. Altro obiettivo,