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Educare alle differenze per un nuovo paradigma di normalità: dal perfezionamento della razza alla valorizzazione della diversità

Studiando la biografia di Ellen Key sono emersi i forti legami che la pedagogista svedese aveva con l'Italia e con le femministe italiane, tra le quali la dottoressa Maria Montessori. Le influenze apportate dalle concezioni pedagogiche espresse nel libro della Key, quali la centralità del bambino che apprende e gli spazi a misura di bambino, si manifestarono nel lavoro della giovane Montessori al suo esordio come pedagogista nel 1907. Ma al contempo nell’interesse delle due pedagogiste c’era anche il bambino visto come soggetto su cui intervenire per quel processo di miglioramento della “razza” umana così importante per gli eugenisti dell’epoca. Per approfondire le influenze esercitate dalle teorie eugenetiche nelle opere di Maria Montessori ho svolto una ricerca d’archivio per la consultazione di una sua opera fuori catalogo dal titolo Antropologia Pedagogica. In quest’opera, la dottoressa propone una sua teoria dell'uomo medio ispirandosi alla medesima teoria di Adolphe Quetelet il quale, per primo, aveva utilizzato la statistica per confrontare caratteristiche umane quali l’altezza e l’ampiezza del torace, teorizzando che un ideale uomo medio incarnasse tutti gli attributi umani rientranti nella media statistica. La media diventò quindi una sorta di ideale, una condizione a cui aspirare. L'ideale rappresentava la popolazione rientrante nella normale cui caratteristiche si posizionavano nell'arco della curva standard a campana e definiva quella che ancor oggi definiamo normalità. Alle estremità della curva invece stavano le persone devianti, fuori norma. Nella sua opera, Maria Montessori, promuoveva inoltre l'utilizzo nella scuola delle carte biografiche quali strumenti indispensabili per valutare le caratteristiche fisiche e mentali dei bambini tramite misurazioni antropometriche del corpo e del cranio. Obiettivo delle carte era di individuare i bambini che si discostavano dalla norma e intervenire con lo scopo di “normalizzarli”. La Montessori auspicava che le classi scolastiche diventassero laboratori di studio scientifico dei bambini in cui medici e maestri collaborassero insieme contro le degenerazioni umane.
La fine della seconda guerra mondiale segnò il declino delle teorie eugenetiche ma non determinò un cambiamento nel paradigma di normalità che radicatosi nella cultura, per certi aspetti ci influenza ancora oggi. Ognuno di noi infatti si paragona ad una idea di normalità che ci condiziona in ogni aspetto della vita rispetto a cosa una “persona normale” deve dire, fare, pensare, che peso e altezza deve avere, a scuola i bambini devono rientrare in una curva normale di apprendimento. Accanto a questo emerge però sempre più forte, l'esigenza di considerare e includere le specificità e le peculiarità di ogni essere umano e soprattutto il diritto a poterle manifestare liberamente senza essere vittima di bullismo o isolamento sociale.
Urge quindi un cambiamento del paradigma di normalità che proprio all'interno della scuola quale contesto culturale in cui la dicotomia normalità - diversità si manifesta per la prima volta in modo istituzionalizzato, può essere ripensato, decostruito e rinnovato.
La mia ipotesi è che una delle leve per il cambiamento del paradigma di normalità sia rappresentata dall'educazione alle differenze, un’educazione trasversale e interdisciplinare introdotta nella scuola dall'articolo 1 della legge 107 del 2015. Per sostenerla mi sono avvalsa del contributo dell’antropologia sia in relazione alle organizzazioni viste come sistemi culturali, sia all’antropologia dell’educazione.
Il costrutto teorico-concettuale che ha sostenuto la tesi è stato affiancato da una parte pratica di ricerca-azione, tramite la partecipazione al progetto di ricerca europeo pro-social Values. La ricerca intendeva valutare l'impatto dell'educazione ai valori prosociali sull'atteggiamento dei bambini verso la diversità mediante attività progettate per incrementare il rispetto dell'altro l'empatia la tolleranza l'aiuto reciproco. I risultati emersi dai questionari di post-test previsti dal progetto hanno dimostrato che le attività progettate per sviluppare le competenze prosociali nei bambini, hanno incrementato in loro atteggiamenti empatici e collaborativi verso gli altri.

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3 Introduzione L'attuazione dell'articolo 1 della legge 107 del 2015 ha normato, all'interno della scuola italiana, l'educazione alle differenze. Non si è trattato dell'inserimento di una nuova disciplina, ma della promozione di un approccio trasversale e interdisciplinare, atto a formare persone capaci di costruire una propria identità, nel rispetto delle proprie e altrui specificità, con l'obiettivo di creare una società plurale e aperta. Questo obiettivo accomuna l'educazione alle differenze con l'educazione civica, disciplina entrata a far parte delle materie scolastiche da settembre 2020. L'educazione alle differenze si accosta, inoltre, al processo di inclusione degli alunni diversamente abili, determinato da un lungo percorso storico che, dalla fine dell'Ottocento in poi, ha visto il passaggio dall'esclusione in scuole speciali, all'integrazione nelle classi “normali”, fino ad oggi in cui il concetto di inclusione non si riferisce più solamente alla disabilità, ma comprende la valorizzazione delle diversità di tutti e di ciascuno. Sulla base di questo processo, l'attuale paradigma di normalità appare quantomai obsoleto e inadatto per comprendere la complessità del mondo globalizzato in cui viviamo. Il concetto di normalità, come lo conosciamo oggi, si è sviluppato dalla fine del XIX secolo a opera dei teorici dell'eugenetica i quali, mediante l'applicazione della statistica agli esseri umani, hanno preteso di rendere scientifica la classificazione degli individui in due categorie: normali e anormali. Essere normali ha quindi assunto il significato di rientrare in misurazioni standard sia a livello fisico, tramite misurazione antropometriche, sia a livello mentale, con i test d'intelligenza. I primi anni del Novecento si sono quindi caratterizzati per l'ossessione verso il miglioramento della razza umana, arrivando a concepire, ad esempio, le leggi sulla sterilizzazione forzata. La teoria darwiniana della selezione naturale fu, inoltre, utilizzata come base scientifica per sostenere una gerarchia tra le razze, creando il fenomeno dell'etnocentrismo e, di conseguenza, del razzismo. Proprio durante un affondo sul tema del razzismo progressista, durante il corso di Etnografia delle Organizzazioni tenuto dalla Prof.ssa Chiara Brambilla presso l'Università degli Studi di Bergamo, una collega di corso ha condiviso un passo del

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