Una rivoluzione vista da lontano. La rivolta degli schiavi neri a Saint-Domingue (Haiti) nel 1791 e la sua eco in Francia.
“ Tutti gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti ”. Questo è, come è noto, il primo articolo della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, proclamata il 26 agosto 1789 dall'Assemblea nazionale costituente rivoluzionaria. Quello che mai i Costituenti si aspettavano, né tanto meno volevano, era che a questo principio si appellassero anche, fra la fine del 1790 e l'inizio del 1791, nella lontana colonia di Saint-Domingue (ora Haiti) i cosiddetti mulatti (termine quanto mai ora politicamente scorretto, ma all'epoca di uso comune) per far valere i propri diritti, giacché avevano l'impudenza di considerarsi esseri umani a tutto tondo.
All'approssimarsi del bicentenario della Rivoluzione, soprattutto in ambito francofono, si è riacceso il dibattito storiografico circa la natura e gli scopi di quei moti rivoluzionari che furono, in parte o del tutto, tributari della Révolution. Alla luce della rilettura di alcune delle opere più importanti dedicate a questo tema nel corso del XX secolo, si delinea un profilo dei protagonisti dei moti sull'isola di S. Domingo, in primo luogo dei mulatti, o meglio, dei liberi di colore. In buona sostanza, secondo la lezione di storici come Pierre Pluchon e Yves Benot, i liberi di colore erano una sorta di Terzo Stato coloniale, a metà strada fra i residenti bianchi, una specie di casta intoccabile, e gli schiavi neri, una forza lavoro anonima considerata e sfruttata come il bestiame da soma. Cosa volevano? Diritti civili e politici pieni, ovvero il diritto di votare ed essere eletti alle assemblee coloniali e presso la Costituente a Parigi, visto che molti di loro erano, come i bianchi, possidenti e contribuenti, quindi cittadini attivi nel sistema elettorale censuario istituito nell'ottobre del 1790.
Nel corso della tesi, sulla scorta in primo luogo degli studi condotti su testi dell'epoca, si cerca di illustrare cosa pensavano davvero i rivoluzionari francesi di questi loro improbabili concittadini. Le prese di posizione erano assai polarizzate. Da un lato, la destra parlamentare si batté ferocemente contro l'inclusione a pieno titolo dei liberi di colore nel cerchio della cittadinanza. La destra era convinta che concedere qualcosa alla gente di colore in quel frangente avrebbe significato stabilire un precedente pericoloso, in futuro, di fronte alle masse di schiavi, già in fermento dalla fine del 1789. Dall'altra parte della barricata politica, si sosteneva invece che solo un'alleanza tra l'aristocrazia dei coloni bianchi e i liberi di colore avrebbe tenuto a freno i neri; nella parte centrale della tesi si illustra quale fu l'epilogo tragico della vicenda dei liberi di colore. I loro capi vennero infatti condannati a morte dopo una feroce tortura nel corso di un lungo processo tenutosi nella capitale della colonia francese. Così si volle punire la loro insolenza e dare un esempio indimenticabile ai discendenti dei primi schiavi neri deportati dall'Africa sin dagli albori della colonia, verso la metà del XVII secolo.
Tuttavia, la fine penosa degli insorti di colore non dissuase i neri dal rivoltarsi , nell'estate del 1791, e fu proprio la rivolta degli schiavi a far venire a galla la contraddizione latente fra i principi rivoluzionari proclamati in Europa e l'esistenza stessa della schiavitù, istituto politico ed economico al quale la Rivoluzione non concesse quasi alcuna attenzione fino appunto al 1791. Infatti, tranne pochi personaggi controcorrente, come Mirabeau, Brissot, La Fayette, Condorcet e l'abate Grégoire, riuniti nella Società degli Amici dei Neri, nessuno si scandalizzava del fatto che degli esseri umani (ma molti erano convinti della natura scimmiesca degli schiavi) venissero comprati e venduti da un capo all'altro dell'Atlantico. D'altronde, la stessa Società degli Amici dei Neri, come la casa madre anglo-americana, perorava l'abolizione graduale dello schiavismo, secondo le idee di Condorcet, e, per l'immediato, desiderava solo la fine della tratta negriera e la concessione dei pieni diritti politici ai liberi di colore.
Nel capitolo III della tesi, sono illustrate le posizioni politiche a proposito di schiavitù e diritti umani dei grandi personaggi delle Assemblee rivoluzionarie (da Barnave a Brissot, da Robespierre a Mirabeau), anche sulla scorta della citazione di alcuni passi salienti dei loro discorsi e dei loro scritti. E' facile immaginare con quanto scalpore venne accolta in Francia la notizia della rivolta servile a Saint-Domingue, ma non tutti manifestarono esecrazione. Presso gli ambienti più estremisti del Giacobinismo si volle tracciare un parallelo suggestivo, ma improbabile, fra i sans-culottes e gli schiavi.
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Informazioni tesi
Autore: | Andrea Virgili |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2008-09 |
Università: | Università degli Studi Roma Tre |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Relazioni internazionali |
Relatore: | Alberto Aubert |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 214 |
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FAQ
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