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Il nesso tra flessibilità e sicurezza: politiche di flexicurity nei paesi membri dell'Unione Europea

La genesi del concetto di flexicurity non è da ricercare all'interno dei trattati comunitari o da imputare al legislatore europeo: fu in Danimarca che vide la sua fioritura, in particolar modo dall'inizio degli anni '90 sotto la presidenza Poul Nyrup Rasmussen. Grazie alla spinta fornita dalla Strategia di Lisbona (il programma di riforme economiche approvato a Lisbona dai Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea tra il 23 ed il 24 marzo 2000) si passò alle prime elaborazioni comunitarie dei modelli sulla flexicurity e se ne diffuse l'idea. Una particolarità della Strategia consisteva nella serie di strumenti messi a disposizione dalla comunità agli Stati membri, perché potessero raggiungere gli obiettivi stabiliti, che ruotavano fondamentalmente attorno ad un approccio soft law: a livello comunitario venivano fornite linee-guida di carattere generale, non vincolanti, che dovevano essere implementate, secondo le modalità considerate più efficaci dai governi, da tutti i paesi membri dell'Unione europea.
L'elaborato verrà sviluppato in quattro capitoli. Nel primo si tenterà di dare una definizione di flexicurity sulla base della letteratura che riguarda questa particolare configurazione del mercato del lavoro, andando ad esaminare le due dimensioni (flessibilità e sicurezza) separatamente, tramite il ricorso ad una serie di indicatori che le collegano alle performance del mercato del lavoro. Successivamente si renderà conto dell'evoluzione che il concetto ha subito nel corso dell'ultima decade da parte delle istituzioni europee.
Nel secondo capitolo verranno presentati i diversi modelli di flexicurity attualmente operanti tra quattro paesi membri dell'Unione europea, che vengono definiti dalla letteratura e dalla Comunità con l'appellativo di flexicurity countries, nonché utilizzati come parametro con cui confrontarsi o da cui prendere esempio. Il capitolo proseguirà con un'analisi statistica di un'insieme di variabili caratterizzanti le dimensioni della flessibilità e della sicurezza, dalla quale emergerà una prima relazione tra le due dimensioni, oltre che ad una suddivisione per gruppi di Stati che presentano configurazioni di mercato del lavoro simili. Il capitolo si concluderà con una disamina del ruolo delle parti sociali all'interno dei diversi gruppi determinati in precedenza, e di come il loro comportamento influenzi le due dimensioni oggetto dell'analisi.
Il terzo capitolo costituisce il nucleo centrale dell'elaborato, in quanto tratta il nesso tra la flessibilità e la sicurezza. Inizialmente si indagherà l'impatto dei regimi di protezione dell'impiego sul mercato del lavoro, specialmente per quanto concerne le performance occupazionali. Si tenterà di far luce sui diversi effetti che provocano i regimi di protezione dell'impiego a seconda se vengano considerati come trasferimenti dalle imprese nei confronti dei lavoratori oppure come tasse a carico delle imprese. Si continuerà poi con la disamina dell'impatto dei sussidi di disoccupazione e delle strategie di attivazione sul mercato del lavoro, con particolare attenzione alla relazione tra la sicurezza percepita dai lavoratori e la spesa in politiche di welfare. La quarta sezione del terzo capitolo affronterà la configurazione ottimale di flessibilità e sicurezza ipotizzabile in un modello di flexicurity; nel modello economico presentato interagiscono per la prima volta contemporaneamente le due dimensioni.
Il quarto ed ultimo capitolo affronterà le criticità emerse negli studi sull'implementazione dei modelli teorici di flexicurity. In particolare si farà riferimento agli ostacoli che possono impedire la feasibility di politiche di flessicurezza (mancanza di fiducia reciproca tra istituzioni e società, mancanza di virtù civiche da parte degli agenti che caratterizzano il mercato). In secondo luogo verrà presentata una proposta alternativa ai modelli di flexicurity, che nasce proprio in relazione alle difficoltà riscontrate in fase di implementazione; si tratta del modello cosiddetto di flexinsurance, simile a quello di flessicurezza ma che tende a scaricare i costi della flessibilità sugli agenti che più ne beneficiano, ovverosia le imprese. Il capitolo, e l'elaborato, si concluderanno con una rapida disamina del mercato del lavoro italiano e dell'eventualità di riforme ispirate ai modelli di flexicurity.

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Introduzione La genesi del concetto di flexicurity non è da ricercare all'interno dei trattati comunitari o da imputare al legislatore europeo: l'origine del neologismo pare possa essere attribuito ad Al Melkert, il ministro per gli affari sociali e per l'occupazione dei Paesi Bassi in carica nel 1995. Ai tempi l'Olanda stava discutendo un importante pacchetto di riforme inerente al mercato del lavoro, nei confronti del quale il ministro si espresse suggerendo una serie di misure che attuassero contemporaneamente un incremento nella flessibilità della forza lavoro ed un aumento della sicurezza dei lavoratori all'interno del mercato del lavoro. L'idea di combinare sicurezza occupazionale, reddituale e sociale con diversi livelli di flessibilità richiesti dal mercato del lavoro non costituiva, tuttavia, una novità: fu in Danimarca che vide la sua fioritura, in particolar modo dall'inizio degli anni '90 sotto la presidenza Poul Nyrup Rasmussen [Rogowski 2009]. Durante quella stessa decade il concetto rimase abbastanza circoscritto all'interno di queste due entità nazionali, mentre fu con l'anno 2000 che si iniziò ad osservare una crescente attenzione nei suoi confronti. Fu infatti grazie alla spinta fornita dalla Strategia di Lisbona (il programma di riforme economiche approvato a Lisbona dai Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea tra il 23 ed il 24 marzo 2000) che si passò alle prime elaborazioni di modelli sulla flexicurity e se ne diffuse l'idea. Le decisioni prese a Lisbona coprivano l'intera decade degli anni duemila e, riservandosi la possibilità di aggiornamenti periodici, stabilivano impegni, da parte dei paesi membri, nel raggiungere determinati traguardi. L'ambizioso obiettivo di fondo dell'Unione era quello di divenire “ l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica al mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile e caratterizzata da nuovi e migliori posti di lavoro e da una maggiore coesione sociale” [Consiglio europeo 2000]. Una particolarità della Strategia consisteva nella serie di strumenti messi a disposizione dalla comunità agli Stati membri, perché potessero raggiungere gli obiettivi stabiliti 1 , che ruotavano fondamentalmente attorno ad un approccio soft law : a livello comunitario venivano fornite linee-guida di carattere generale, non vincolanti, che dovevano essere implementate, secondo le modalità considerate più efficaci dai governi, da tutti i paesi membri dell'Unione europea. Si tendeva così a creare una cornice di regole senza incontrare grosse difficoltà in fase di approvazione, anche se si trattava di un percorso, quello relativo alle 1 Ai paesi membri veniva chiesto di pervenire, entro il 2010, al 70% del tasso d'occupazione totale degli occupati, al 60% del tasso d'occupazione femminile ed al 50% del tasso d'occupazione dei lavoratori anziani. 7

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