Panoramiche d'interni. Approfondimenti e divagazioni sul cinema e l'unità di luogo
Uno sguardo nuovo e critico che unisce passato e presente.
Le unità aristoteliche presentate come i nuovi canoni per salvare la crisi del cinema.
[...] Il lavoro di analisi che ho svolto racconta il cinema amputato delle sue funzioni spettacolari, nega i campi lunghi, proibisce l’evoluzione spaziale, ingabbia i personaggi. L’unica cosa che concede allo spettatore è il più puro piacere voyeuristico: osservare, senza essere visto e da un punto di vista privilegiato, ciò che accade in una stanza. L’appagamento deriva dal fatto che la stanza potrebbe appartenere a chiunque in sala e i personaggi potrebbero essere qualsiasi spettatore. L’unità di luogo permette al cinema di confrontarsi con il fratello maggiore: il teatro. Attenendosi alle unità aristoteliche i registi si accostano ai grandi drammaturghi tragici della storia del teatro antico, per i quali il palcoscenico è set unico per eccellenza, e si battono per il conferimento della funzione catartica prospettata dallo stagirita. Ovviamente è necessario considerare i casi in cui l’unità di set è una scelta obbligata dal budget, tuttavia nella maggior parte dei casi è una prova a cui si sottopone il regista dettata da una precisa volontà autoriale. Sebbene la maggior parte delle sceneggiature siano di derivazione teatrale, le opere prese in esame non sono teatro filmato o cinema - teatro, ma film in cui i registi raccolgono la sfida lanciata dal teatro e la rimaneggiano con la propria arma: la macchina da presa. [...] In questa mia tesi, il tentativo è quello di “alzare il tiro”, di scegliere solo lungometraggi in cui la chiusura sia totale, gli spazi siano veramente angusti e nella maggior parte dei casi costituiti da una sola stanza per ricercare il climax emotivo assoluto. I film considerati hanno in comune l’unità di luogo totale e la scelta claustrofilica dell’ambiente chiuso e spazialmente limitato, in ogni film sono concesse due riprese en plein air che ne decretano l’inizio e la fine, come per lasciare respiro allo spettatore sfiancato e in alcuni casi qualche altra scena in esterno purché non abbia influenza alcuna nella narrazione. L’idea di questo lavoro è partita dalla visione al cinema di Carnage di Roman Polanski la cui critica letta su un blog «un film noioso, inutile, insopportabilmente borghese, teatrale ma della peggiore specie» mi aveva incuriosito al punto da indurmi a pagare il biglietto per vederlo su grande schermo. Il film mi ha dato l'idea di analizzare il cinema "privato" nelle due accezioni del termine, privato nel senso di un cinema chiuso, da camera, e privato perché amputato di alcuni mezzi e opportunità e privo di quella libertà di movimento che è l'essenza stessa della "settima arte". Ho potuto contare su una bibliografia abbastanza ampia per quanto riguarda le singole analisi dei film, ma non ci sono autori che abbiano analizzato il tema in questione; ogni riflessione deve essere dunque analizzata ricordando un detto in uso in ambito psicologico: i Freudiani sognano Freudiano e gli Junghiani sognano Junghiano. Entro dunque in questa disamina con la consapevolezza di piegare opere molto diverse al mio tema, ricercando caratteristiche e connessioni con cui costruire un discorso improntato sul claustrum come unità spazio - temporale che consenta la catarsi. Che questa selezione di opere rappresenti un percorso di declino del cinema, o costituisca un nuovo possibile esito creativo è una questione che rimarrà ai margini di questo lavoro.
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Informazioni tesi
Autore: | Asia Marta Muci |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2011-12 |
Università: | Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM) |
Facoltà: | Scienze della Comunicazione |
Corso: | Scienze della comunicazione |
Relatore: | Gian Battista Canova |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 62 |
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