Per la prima fortuna della Divina Commedia a Napoli: la poesia, l'esegesi, i ''Sermones'' di Agostino D'Ancona
Il lavoro che presento, suddiviso in tre capitoli, illustra le dinamiche della diffusione della Divina Commedia a Napoli in tutto l’arco del XIV secolo.
Il primo capitolo, articolato in tre paragrafi, tratta in modo molto dettagliato dell’influenza del poema dantesco principalmente a tre livelli: la produzione poetica, la tradizione manoscritta e l’esegesi.
Il secondo capitolo, composto da quattro paragrafi, è incentrato sulla figura di Agostino d’Ancona, monaco degli eremitani di s. Agostino, che giunse alla corte di Napoli nel 1322, per volere di re Roberto, e rimase nella città fino al 1328, anno della sua morte. Scrisse moltissime opere, tra le quali la famosa Summa de ecclesiastica potestate, un trattato composto da 112 quaestiones, distribuite in 476 articoli divisi in tre parti che si avvicina alle grandi summae teologiche del Medioevo, soprattutto a quella di Tommaso d’Aquino, e che rappresenta un’energica difesa del potere del papato.
Nella capitale angioina, il monaco anconitano portò a termine i Sermones Varii, argomento del terzo e ultimo capitolo, nei quali compie un’importante operazione: accanto alla Bibbia, a S. Tommaso, a S. Agostino, ai Santi Padri e ai grandi autori dell’età classica, come Ovidio, Macrobio e Virgilio, cita anche versi del divino poema per suffragare le proprie speculazioni teologiche. Inoltre, è ricordato e anche confuso con l’Alighieri il «poeta esculanus», Cecco d’Ascoli, la cui oscura opera dottrinale voleva opporsi al divino poema.
In ogni caso, le citazioni della Commedia, soprattutto del Paradiso, contenute nel codice III 8 A 29 della Biblioteca comunale di Ancona che tramanda i Sermones, sono le più precoci attestazioni di tale cantica, in quanto risalgono al 1328. Forse Agostino, giungendo dal Veneto, portò con sè uno dei primi esemplari del poema, contribuendo così alla diffusione della Commedia nel Meridione, ma ciò non si può affermare con sicurezza.
In seguito, nelle considerazioni finali si fanno alcune importanti constatazioni.
Tale codice è la prima testimonianza del fatto che Dante, a pochissimi anni dalla sua morte, era già considerato un auctor e, dunque, degno di essere citato non solo accanto a Virgilio, Ovidio, Seneca, S. Agostino e tanti altri, ma addirittura accanto alla Bibbia, in quanto la Commedia fu, da subito, sentita come un capolavoro di cristianità, di casistica e filosofia dell’oltretomba, e i suoi versi erano utilizzati dai monaci e sacerdoti nei propri sermoni, in chiesa e dal pulpito, per avvalorare le tesi sulle dottrine scolastiche e teologiche. Inoltre, l’interferenza tra i versi dell’Acerba e quelli della Commedia e anche l’attribuzione di due citazioni dell’opera di Cecco a Dante da parte di Agostino, sono difficili da comprendere se si considera che il monaco agostiniano dimorò a Napoli nel medesimo periodo in cui anche Cecco frequentava la corte angioina. Da ciò si potrebbe, dunque, ipotizzare con buone probabilità, non solo una conoscenza tra il poeta e il teologo ma, forse, anche una lettura dell’Acerba, da parte dell’agostiniano, direttamente dalle carte del poeta.
Purtroppo l’esiguità dei dati a disposizione non permette di fare chiarezza su tale importante questione, ma si deve, in ogni caso, constatare che tali citazioni contenute nel codice anconitano e risalenti, dunque, ad appena un anno dalla morte di Cecco (1328), sono, probabilmente, la prima testimonianza dell’Acerba, nonostante il più antico manoscritto dell’opera, il cod. Laurenziano Pl. XL, n. 52 della Laurenziana di Firenze, risalga alla prima metà del XIV sec.
Ma il dato fondamentale su cui bisogna riflettere è che Cecco è considerato un auctor al pari di Dante da un autorevole rappresentante della Chiesa; di quella stessa Chiesa che, invece, condannò al rogo il poeta esculanus come eretico, arso vivo, con le sue opere, il 16 settembre 1327 presso Porta della Croce a Firenze.
Per concludere, l’appendice tratta del componimento di 118 versi ritrovato nelle ultime tre carte del codice anconitano che, in realtà, è la preghiera finale di un poemetto in terzine diviso in undici capitoli di 1513 versi complessivi. Il nome dell’intero poemetto è Pianto de la Verzene Maria e l’autore è Enselmino da Montebelluna, monaco dell’Ordine Eremitano degli agostiniani di Treviso, vissuto tra la fine del XIII sec. e la prima metà del XIV.
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Informazioni tesi
Autore: | Maria Teresa Pesce |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2006-07 |
Università: | Università degli Studi di Napoli - Federico II |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Lettere moderne |
Relatore: | Corrado Calenda |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 143 |
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