4
culturali, soprattutto dalla lingua, scrivendo in fiorentino, poiché tale
idioma rappresentava l’unico punto di riferimento.
Per quanto concerne la tradizione manoscritta della Commedia, essa
annovera alcuni importanti codici vergati a Napoli o, comunque, nel
Meridione, come il cod. 190 della Biblioteca dell’Abbazia di
Montecassino, o il CF 2 16 dell’Oratoriana di Napoli, detto anche codice
Filippino, che è il più importante codice partenopeo del poema. Anche
l’esegesi vanta alcuni interventi di rilevo, come il commento dantesco di
Guglielmo Maramauro e le chiose presenti nel codice Filippino.
Come già accennato sopra, il poema penetrò da subito anche nelle sedi
ecclesiastiche, che erano rappresentate, nel secolo in questione, dagli
Ordini Eremitani che a Napoli fiorirono numerosi, diventando il fulcro
della vita cristiana.
In tali Ordini la Commedia fu, da subito, sentita come un capolavoro
di cristianità, di casistica e filosofia dell’oltretomba, e i suoi versi furono
citati dai monaci e sacerdoti nei propri sermoni, in chiesa e dal pulpito, per
avvalorare le tesi sulle dottrine scolastiche e teologiche.
Agostino d’Ancona, monaco degli eremitani di s. Agostino, giunse
alla corte di Napoli nel 1322, per volere di re Roberto, e rimase nella città
fino al 1328, anno della sua morte. Nella capitale angioina, il monaco
anconitano portò a termine uno dei suoi tanti scritti, i Sermones Varii, nei
quali compie l’operazione descritta sopra: accanto alla Bibbia e ai grandi
autori dell’età classica, cita anche versi del divino poema per suffragare le
proprie speculazioni teologiche. Ma tali citazioni, soprattutto del Paradiso,
contenute nel codice III 8 A 29 della Biblioteca comunale di Ancona che
tramanda i Sermones, sono le più precoci attestazioni di tale cantica, in
quanto risalgono al 1328.
5
Forse Agostino, giungendo dal Veneto, portò con sè uno dei primi
esemplari del poema, contribuendo così alla diffusione della Commedia nel
Meridione, ma ciò non si può affermare con sicurezza.
Tuttavia, si deve assolutamente constatare che tale codice è la prima
testimonianza del fatto che Dante, a pochissimi anni dalla sua morte, era
già considerato un auctor e, dunque, degno di essere citato non solo
accanto a Virgilio, Ovidio, Seneca, S. Agostino e tanti altri, ma addirittura
accanto alla Bibbia.
6
CAPITOLO I
La diffusione della Commedia in Italia Meridionale
7
I.1 I lirici del regno di Napoli in età angioina.
La fortuna di Dante nel Trecento, ma non solo, fu straordinaria. La
fama dell'opera, così come quella del suo autore, penetrò nelle scuole, nelle
strade (il Sacchetti, ad esempio, in Trecentonovelle, narra l’aneddoto del
fabbro e dell’asinaio che recitano i versi della Commedia a memoria
1
), nei
luoghi sacri quanto nelle sedi di potere.
Il poema fu letto, riletto e immensamente utilizzato. Soltanto la Bibbia
godette di maggiore popolarità; e come aumentavano i copisti, i lettori e gli
ascoltatori della Commedia, così cresceva il prestigio del suo auctor, poeta
volgare giudicato da molti addirittura superiore ai grandi poeti dell'età
classica. Durante il XIV secolo anche luoghi in cui Dante non andò mai
sentirono sempre di più il fascino di quel “singulare splendore italico
2
”. Si
pensi al Meridione e, in particolare, a Napoli, in cui fu molto vivo il “culto”
dell’Alighieri.
Qui, in età angioino-durazzesca, una numerosa colonia fiorentina,
soprattutto a partire dal regno di Giovanna I (1343-1381) detenne
l’egemonia nell’alta finanza, nel commercio e nelle industrie, formò gran
parte della classe imprenditoriale, prestò spesso i suoi servigi diplomatici e,
insieme con le altre comunità toscane, fornì gli esecutori delle opere
richieste dai grandi committenti d’arte. Alcuni membri di questa colonia
ascesero persino ad alte cariche di responsabilità, si immedesimarono nelle
strutture dello stato e, attraverso le ramificazioni familiari, si integrarono
nella classe dirigente locale.
1
Novella CXIV Dante Alighieri fa conoscente uno fabbro e uno asinaio del loro errore, perché con
nuovi volgari cantavano il libro suo.
2
G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante.
8
Mentre si compiva, in questo modo, una vera e propria
fiorentinizzazione dello Stato e dell’aristocrazia napoletana, l’influenza
della cultura fiorentina si estese decisamente anche ai ceti locali; a ciò si
deve la conoscenza e la diffusione, a Napoli, della Commedia dantesca, che
ebbe una rapida fortuna, cui forse contribuirono anche i vivaci richiami, nel
divino poema e nelle altre opere dell’Alighieri, alle grandi figure e alla
recente storia del Regno.
L’influenza della Commedia, nel Regno napoletano, si espande, nel
secolo in questione, in tre direzioni fondamentali: la poesia, che ha come
protagonisti cinque rimatori partenopei, condizionati dalle opere
dell’Alighieri; la tradizione, che comprende codici vergati o comunque
giunti al Sud, e l’esegesi, che vanta alcuni interventi di rilievo.
La letteratura toscana, che dappertutto mette precoci e salde radici, in
molte regioni del Centro-Sud si trova fronteggiata a lungo, sia pure su piani
diversi, da resistenti e spiccate tradizioni regionali e municipali: nelle
Marche, in Umbria, a Roma, all’Aquila e in Sicilia, alla produzione poetica,
per lo più lirica, d’imitazione toscana, si affiancano per molto tempo,
numerosi e importanti testi in volgare locali, come sirventesi, cantari, laude
ecc….A Roma ad esempio, già alla fine del Duecento la cultura toscana
penetra nelle tradizioni locali, che un secolo dopo saranno messe allo
sbaraglio; ma qualche anno prima del 1360 uno scrittore, sicuramente colto,
forse addottorato a Bologna e conoscitore anche dell’opera di Dante, con la
Vita di Cola di Rienzo eleva un vero e proprio monumento al volgare
romanesco. Nel piccolo comune dell’Aquila, il cronista Buccio, vissuto
fino al 1363, non avverte minimamente il peso degli autori toscani, e il suo
continuatore Antonio, che in un primo poema ha usato l’ottava toscana,
dichiara poi di voler tornare ai tradizionali “versi a quattro”, cioè alla
9
quartina monorima, per poter narrare «li fatti de nostra terra
3
». Si pensi,
poi, al caso della Sicilia: l’isola si apre molto presto alla penetrazione
toscana, ma è capace, allo stesso tempo, di difendere e riaffermare
continuamente l’autonomia del volgare siciliano, anche in rielaborazioni,
che sono vere traduzioni, di testi toscani.
Dunque, a Napoli la situazione appare notevolmente diversa proprio
per la scarsa consistenza di una tradizione municipale che, sulla base delle
testimonianze esistenti, è di brevissima durata: si riduce, praticamente, ai
soli due poemetti medicali, il De Regimen sanitatis e il De balneis
puteolanis, e si esaurisce con la seconda stesura già toscaneggiante di
questi testi.
L’uso del fiorentino, quindi, dominerà completamente il campo della
lirica colta, intaccando variamente il tessuto anche di testi cancellereschi
della metà del Trecento.
I dati disponibili autorizzerebbero ad affermare per il napoletano
quello che è stato detto impropriamente, e perciò contestato, per il siciliano:
e cioè che veramente esso «prese un’andatura letteraria….dietro i passi del
toscano
4
»; si manifesta, in tal modo, la funzione risolutiva che ebbe la
pesante penetrazione del ceto mercantile fiorentino: colmando con la
propria presenza il vuoto tra la società di corte e il popolo, esso costituì
anche un nuovo polo di attrazione globale e di orientamento verso un tipo
di cultura “italiana” e borghese, una cultura, appunto per questo, capace di
risvegliare infinite energie anche dal fondo autoctono della società.
Paradossalmente, a Napoli una più libera e fiduciosa adesione degli scrittori
al volgare nativo maturò con il tempo e si espresse piuttosto in alcuni
3
F. Sabatini, La cultura a Napoli nell’età angioina, in Storia di Napoli, vol. IV, pp. 53-129.
4
L. Sorrento, Introduzione allo studio dell’antico siciliano, Milano, 1911, p. 33.
10
quattrocentisti (cronisti, narratori, poeti); da questi, nel Cinquecento e oltre,
scaturì la vivacissima tradizione reattiva dei «dialettali».
Ma tornando al Trecento, nell’arco di questo secolo emerge
certamente una linea di sviluppo della letteratura volgare napoletana che
ora, nel quadro complessivo della cultura angioina e dopo indagini che
hanno procurato nuovi documenti, appare molto chiara. Il corpus di questa
letteratura, compresa l’attività di trascrizione-assimilazione dei testi
forestieri, non è abbondante, ma è sufficiente per costruire un diagramma
continuo.
Innanzitutto, dando uno sguardo all’intero secolo, si coglie intorno ad
alcune date l’operato di tre generazioni: la prima, che all’inizio del secolo
ha prodotto due poemetti didascalici, ma che avverte poi tutto il peso della
trionfante cultura fiorentina; la seconda, che tra il quinto e il sesto decennio
cerca di aderire il più possibile al nuovo e indiscusso modello toscano; la
terza, dell’ultimo terzo del secolo, che trova al volgare locale uno sbocco
più libero in opere di tono meno sostenuto.
Il discorso sulla forte interferenza della corrente toscana nella tenue
tradizione municipale napoletana, già avviato parlando del
rimaneggiamento dei due poemetti medicali, trova la sua continuazione se
si considera l’opera dei cinque rimatori, Guglielmo Maramauro,
Bartolomeo di Capua conte d'Altavilla, Paolo dell'Aquila, Landulfo di
Lamberto e un anonimo, che poetarono dal 1350-60 fino alla fine del sec.
XIV. Il loro manipolo di rime (poco più di venti tra sonetti e canzoni) ci è
tramandato dal codice Gadd. Rel. 198 (=GR²) della Laurenziana di Firenze,
manoscritto membranaceo compilato, secondo l’opinione del Bandini
5
,
verso la fine del XIV secolo, ma più probabilmente da collocare agli inizi
5
A. M. Bandini, Bibliotheca Leopoldina Laurentiana seu Catalogus Manuscriptorum….,Tomus II,
Florentiae MDCCXCII, coll. 194.
11
del XV secolo
6
. Consta di 134 carte, tutte della stessa mano, con duplice
numerazione: la prima (di mano forse coeva al manoscritto) in alto a destra
di ogni carta, la seconda, più tarda, in basso a destra, avanzata di un’unità
rispetto alla prima; questo scarto nel conteggio si giustifica con l’esistenza
di una carta bianca (la 4 della numerazione più recente) che la numerazione
più antica esclude dal computo. La carta finale reca i numeri 133-134. Nel
codice è contenuta una ricca collezione di rime di natura amorosa e
«morale
7
»; componimenti completi di attribuzione si mescolano ad altri
adespoti.
Un breve esame linguistico consente di localizzare l’area di
provenienza del copista, e per tale scopo si possono utilizzare soprattutto le
didascalie che precedono i componimenti, in quanto punti di minore
resistenza agli interventi del trascrittore. Alla carta 50v si legge: «In quisti
quinterni di sonecti son sonecti di Pitrarca, di Mastro Antonio da Ferrara,
Conte d’Altavilla, et altri extraordinarii de altre belle cose
8
»;
immediatamente si notano il metafonetico quisti e l’ipertoscano Pitrarca,
reattivo alla tendenza a conservare e protonica.
Comunque, tornando ai poeti, il primo editore che si è occupato della
loro produzione è stato il Torraca
9
, il quale ha attribuito quattro sonetti al
Maramauro, dodici al Conte d'Altavilla, quattro sonetti e due canzoni a
Paolo dell'Aquila e una canzone a Landulfo di Lamberto (l’anonimo non è
citato); tuttavia le indicazioni dello studioso si rivelano oggi
numericamente esatte solo per il secondo e il quarto di questi.
6
D. De Robertis, Censimento dei manoscritti di rime di Dante, «SD», XXXIX (1962), p. 176 e Maestro
Antonio da Ferrara (Antonio Beccari), Rime, edizione critica a cura di L. Bellucci, Bologna, 1976, p.
XIII.
7
V. la descrizione che ne danno il Bandini, op.cit, coll.189-194, e il De Robertis, op. cit., pp. 175-177.
L’intestazione «morale», assai comprensiva nella sua genericità, è premessa a molti componimenti.
8
R. Coluccia, Un rimatore politico della Napoli angioina: Landulfo di Lamberto, in «Studi di Filologia
Italiana», vol. XXIX, pp.191-218.
9
F. Torraca, Lirici napoletani del sec. XIV, in Aneddoti di Storia Letteraria Napoletana, Città di Castello,
1925, pp. 99-134.
12
Vari interventi, successivi al suo studio, come quelli di Benedetto
Croce
10
, dell’Altamura
11
, di Folena
12
e Maria Corti
13
, hanno ridimensionato,
o meglio precisato l’opera di Paolo dell’Aquila, e fondamentali sono stati
gli apporti del Coluccia
14
, che ha arricchito il corpus di rime del
Maramauro con altre due canzoni, tramandate entrambe dal codice Palatino
109 della Biblioteca Palatina di Parma, codice cartaceo, di singola mano del
sec. XIV, che conserva rime di diversi autori di area toscana e
settentrionale. Tali componimenti sconosciuti sono una cançona morale e
un altro testo, che occupa le carte 30v-31r del ms., e che si estende per otto
stanze, ognuna di tredici versi.
Le rime dei lirici partenopei si rifanno moltissimo ai grandi autori
della tradizione poetica, Petrarca e Dante in primo luogo (ma anche
siciliani, stilnovisti e Boccaccio
15
, sia pure in misura molto più limitata);
Petrarca rappresenta il modello prevalente per la coppia poetica più antica
(Maramauro e il Conte D’Altavilla), ma in seguito si affaccia sulla scena
Dante, che finirà col prevalere rispetto al grande concorrente nei gusti dei
successivi rimatori (Paolo dell’Aquila, Landulfo di Lamberto e l’anonimo).
Anche la lingua contribuisce a creare tale partizione tra i due “gruppi”,
tanto che il Sabatini afferma per il primo: «Si ha la precisa impressione che
questi scrittori si cimentassero con la lingua dei celebrati modelli senza
riuscire a padroneggiare a sufficienza né le strutture elementari né, tanto
meno, il valore di molti nessi sintattici e il senso di certa fraseologia!»; e
per il secondo invece parla di «una padronanza un po’ più sicura, rispetto
10
B.Croce, Di un sonetto del Trecento sul modo di comportarsi nell’avversa fortuna, e di Paolo
dell’Aquila, in Aneddoti di varia letteratura, Bari, 1953, vol. I, pp. 8-22.
11
A. Altamura, La letteratura nell’età angioina, Napoli-Sorrento, 1952, pp. 130-138.
12
G. Folena, La crisi linguistica del Quattrocento e l “Arcadia” di I. Sannazzaro, Firenze, 1952, p.6 n.
13.
13
Pietro Iacopo de Jennaro, Rime e lettere, a cura di M. Corti, Bologna, 1956.
14
R. Coluccia, Due nuove canzoni di Guglielmo Maramauro, rimatore napoletano del sec XIV, in
«Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLX (1983), 510, pp.161-202.
15
P. G. Pisoni e S. Bellomo, Expositione sopra l‘ Inferno’ di Dante Alligieri, Padova, 1998, p. 16.
13
alla generazione precedente dei lirici napoletani, del mezzo linguistico
importato dalla Toscana
16
». Le parole dello studioso ci fanno comprendere
che in questo caso non siamo di fronte al fenomeno della
“toscanizzazione”, quale si era verificato già per i testi siciliani per cause
fortuite ed accidentali e che comunque, operato da copisti toscani, fu
esterno rispetto all’ambiente d’origine delle composizioni: i poeti
“durazzeschi” scrivono in fiorentino, allontanandosi quasi completamente
dall’idioma materno, perché la lingua della tradizione rappresenta un
preciso punto di riferimento, autonomamente e volontariamente scelto.
Il primo poeta in ordine cronologico è Guglielmo Maramauro che fu
rampollo di nobile, influente e ricca famiglia partenopea e nacque,
probabilmente, come si ricava dalla sua opera più notevole e importante, il
Commento al poema dantesco, tra il primo settembre del 1316 e la fine
d'agosto del 1317. I Maramauro appartenevano al “Sedile” di Nido, che con
quello di Capuana riuniva la nobiltà napoletana di più antico lignaggio. E’
probabile che provenissero da Amalfi, dove è stata registrata la stabile
presenza di un ramo della stessa famiglia. In ogni caso, nel 1264 i nomi di
un Landolfo e un Giovanni Maramauro appaiono tra i feudatari napoletani
nell’esercito di Manfredi.
Non è facile ricostruire l’albero genealogico a causa di frequentissime
omonimie dovute alla tradizione, molto radicata nei Maramauro, di
chiamare i primogeniti con il nome del nonno, e per questo motivo il
Bellomo
17
, dando credito al Di Pietro
18
, sostiene che quel primo Landolfo
sia nonno del secondo, che è il padre di Guglielmo: quest’ultimo, essendo
primogenito, portò con ogni probabilità a sua volta il nome del nonno, con
il quale fu confuso; ecco, dunque, la genealogia.
16
F. Sabatini, op. cit., pp. 117-129.
17
S. Bellomo, op. cit., pp. 3-22.
18
F. Di Pietro, Dell’historia napoletana, Napoli, 1634, pp. 153-54.
14
Landolfo I fu partigiano di Manfredi e fiorì alla metà del secolo
decimo terzo. Suo figlio, Guglielmo I, fu funzionario regio e, tra l’altro,
ricoprì la carica di tesoriere del giustizierato degli scolari dal 1303 e poi nel
1309 e 1310. Da lui nacque Landolfo II, il quale è menzionato tra i
quarantanove militi che accompagnarono Carlo duca di Calabria a Firenze
nel 1326-27. Nel 1331 fu capitano d’Anagni e ancora nel 1346 ebbe
emolumenti da Giovanna I. Nel 1348, come si apprende da un documento
del gennaio dell’anno successivo, morì, forse, a causa della peste. Suo
fratello più giovane fu Guido, frate domenicano e inquisitore del Regno, il
quale per la sua rigorosa condotta, entrò in urto con re Roberto; morì nel
1391 e fu sepolto nella chiesa di S. Domenico, dove c’era un tempo la
cappella di famiglia. Da Landolfo II nacquero quattro figli: Filippo, che fu
abate, Francesco, di cui non si sa nulla, Torella andata sposa a Landolfo
Caracciolo nel 1334, e il primogenito Guglielmo, il poeta. Quest’ultimo
ebbe tre figli, di cui il primo, secondo la tradizione, prese il nome del
nonno: Landolfo, cardinale di Bari, protettore tra l’altro di Poggio
Bracciolini, che ebbe un ruolo importante nelle vicende dello Scisma
d’Occidente e morì nel 1415; Carlo, funzionario o soldato di Carlo III di
Durazzo, e Feulo, ciambellano e maggiordomo maggiore dello stesso
sovrano e del successivo. Feulo fu padre di Filippo Antonio, che col nonno
condivise la passione per le lettere e forse a lui inviò un sonetto Paolo
dell’Aquila, rimatore della seconda generazione. Fra i Maramauro dei quali
non è chiara la posizione nell’albero genealogico, vale la pena di ricordare
Pietro, dottore in diritto canonico che nel 1309 ebbe incarico da Carlo II
d’Angiò di un’inchiesta sulle cappellanie regie; nel 1306 fu insegnante
presso lo Studio di Napoli e, nel 1318, vice rettore
19
; nel 1323 era ancora in
19
G. M. Monti, L’età angioina, in AA.VV., Storia dell’Università di Napoli, Napoli, 1924, pp. 40 e 79.
15
vita in quanto veniva ricordato nel testamento di Maria, vedova di Carlo II,
deceduta in quell’anno.
A Guglielmo si attribuisce per certo, oltre ai sonetti sopra ricordati,
anche un Cronicon de Regno neapolitano, in latino, di cui è rimasto
soltanto un brano relativo all'anno 1373; inoltre ebbe relazioni epistolari col
Petrarca, il quale gli inviò due lettere
20
responsive, che dimostrano una
buona familiarità tra i due. Nella prima, con la data di Padova, 9 novembre,
il poeta fiorentino, dopo essersi dispiaciuto per la noncuranza di un amico
comune, dice: «Passata per molte mani, giunse finalmente nelle mie la tua
lettera, che lessi con piacere grandissimo, e per essa fui certo che se tu mi
fossi stato vicino della persona quanto era quegli di cui finora mi dolsi,
saresti certamente venuto a trovarmi, e mi avresti fatto sapere dove io
potessi venire a cercarti. Se a tutto quello che tu mi dici dovessi rispondere
quel che il cuore mi detta, andrei per le lunghe un’altra volta…..Non punto
nuovo, ma grato oltremodo mi riesce l’amore, di cui tutte le lettere tue mi
danno costanti riprove: non così peraltro quel continuo parlare che tu mi fai
d’ossequio e di reverenza […] Piacciati di avermi nel numero dei tuoi più
fidi amici, e se posso esserti buono a qualche cosa, fa a fidanza con me».
Nella seconda lettera, priva di data, Petrarca loda, in modo abbastanza
sentito, le capacità scrittorie del corrispondente meridionale, infatti scrive:
«Come sei solito a fare di tutte le cose tu mi volesti partecipe di quanto non
a guari avvenne in Napoli: nè già fosti pago di far presente al mio pensiero,
o di pormi innanzi agli occhi tutta la serie di quegli avvenimenti per me
giocondissimi; che se così avessi fatto ti darei lode di egregio scrittore e di
dipintore eccellente: ma quella tu meriti di operator di prodigi, perocchè mi
trasportasti costà nel bel mezzo di tutte le cose che vi accadevano.
20
Da Lettere Senili di Francesco Petrarca, XI 5 e XV 4. Volgarizzate e dichiarate con note da G.
Fracassetti, II, Firenze, 1870, 154-57.
16
Queste a me non sembra aver lette, o udite, ma averle vedute cogli
occhi miei: tanto potè la singolare e veramente rarissima virtù delle tua
penna
21
». Quanto alla data di morte, questa è compresa nel decennio tra il
1373, data presente nella sua Cronaca, e il 1383, anno in cui il sulmonese
Giovanni Quatrario inviò al figlio di Guglielmo, Landolfo, l'epitaffio
tombale per il padre, nel quale si racconta la vita intensa e varia di
quest'uomo curioso ed eclettico:
Parthenopes miles celebris vi, Marte, Minerva
Effugiens Gulielmus adest Maramaurus Averna.
Multorum mores hominum nam vidit et urbes,
Naturam didicit, Musas, post sidera nubes.
Scripsit et in Dantem tenebrans quoscumque priores,
Stegmata cuncta deum describens arbore, mores.
Coniugis elate felici prole beatus,
Defuit, hac tandem praeceptor in ede creatus.
L’appellativo miles è da connettere non solo alla nobile origine, ma
anche a meriti bellici, di cui però non si ha notizia e ai quali rinvia
l’antonomastico Marte; anche Petrarca, nelle sue lettere, lo chiama con
l’appellativo eques
22
. Si prosegue parlando di viaggi e di interessi per le
scienze naturali, per la poesia, per l’astronomia e, addirittura, per la
mitologia, infatti si accenna alla composizione di una “genealogia degli
dei”. Il v. 7, coniugis elate felici prole beatus, come afferma il Bellomo
23
,
potrebbe alludere al fatto che il poeta provò la gioia di essere nonno,
soddisfazione che dovette attendere un po’ in quanto il primo dei tre figli,
21
F. Torraca, op. cit., pp. 99-124.
22
Lo osserva R. Coluccia, Due nuove canzoni…., pp. 161-202.
23
S. Bellomo, op. cit.,, pp. 3-22.
17
Landolfo, intraprese la carriera ecclesiastica e il secondo, Carluccio, morì
senza eredi. E’ verosimile che Guglielmo abbia conosciuto il nipote Filippo
Antonio, che visse nell’età di Ladislao (1386-1414) ed ebbe a sua volta
almeno tre figli, di cui uno, Landolfo, già dal 1415 è ricordato come
commissario regio.
Altra notizia interessante che si ricava dall’ultimo verso dell’epitafio è
l'assunzione della carica di praeceptor dello Studio di Napoli o, più
precisamente, di un lettorato dell'opera di S. Tommaso, in ciò forse
facilitato dalla famiglia, le cui sorti, in più occasioni, si intrecciarono con
quelle dello Studio: il nonno Guglielmo fu tesoriere del giustizierato degli
scolari e Pietro Maramauro fu professore di diritto canonico e persino
rettore. Lo studio dipendeva strettamente dal re, che affidava cariche
importanti e insegnamenti a propri funzionari, tra cui molti erano nobili.
Tuttavia le tre facoltà di teologia dei francescani, degli agostiniani e dei
domenicani, godevano di una maggiore indipendenza ed erano gestite
dall’autorità ecclesiastica attraverso gli ordini religiosi. Presso i frati
predicatori, che risiedevano nel convento di San Domenico Maggiore,
aveva insegnato, in quanto appartenente all’ordine, il doctor angelicus e,
appunto per questo, qui dovette tenere la sua lettura tomistica Guglielmo
24
.
Il suo caso ci fa capire che non necessariamente i professori dovevano
appartenere al clero, ma sicuramente si può porre in relazione la sua
nomina con il legame di parentela con un domenicano di grande prestigio
come Guido, che forse gli fu zio.
Comunque, tornando ai componimenti, sono ascrivibili al Maramauro,
come sopra si è già accennato, cinque sonetti e due canzoni, accomunati da
una quasi totale soggezione ai modelli toscani.
24
L’espressione hac….in ede nell’ultimo verso dell’epitafio indica forse proprio il convento con l’attigua
chiesa di San Domenico Maggiore dove probabilmente venne seppellito Guglielmo.