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Pandemie: i (non)luoghi del contagio

Fino a 30 anni fa, in seguito alla eradicazione planetaria del vaiolo, il rischio di una pandemia sembrava una prospettiva ormai superata, in nome della vittoria della scienza sulla natura. Questa paura è ritornata prepotentemente in auge dalla fine degli anni Ottanta con i primi allarmi sull’AIDS e sul virus Ebola. Queste terribili malattie, ingrossato costantemente il numero dei morti nell’Africa nera, parevano già all’epoca incombere minacciosamente sull’Occidente, la cui scienza avanzata, la stessa che aveva dichiarato venti anni prima il debellamento del vaiolo, non riusciva a spiegare e tantomeno a curare fenomeni di tale violenza epidemica.
Se l’Ebola può considerarsi scomparso dalle cronache internazionali, altrettanto non può dirsi della sindrome da immuno-deficienza acuta, la quale, complice il suo rapido diffondersi nel mondo, si è trasformata in un vero e proprio fenomeno sociale, legato nell’immaginario collettivo a precisi comportamenti devianti. E’ però dall’esplosione della pandemia SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) nel 2003 e del successivo virus H5N1, comunemente definito Influenza Aviaria, che gli occhi del mondo occidentale si sono spostati dagli scenari lontani ed esotici dell’Africa nera all’Asia e alle nuove tigri dell’economia, Cina, India, Indonesia: le nuove potenze sono più vicine all’Occidente perché sono con esso fittamente collegate attraverso flussi di merci e voli intercontinentali. L’accusa che si rivolge a questi untori mondiali è quella di scarsa igiene, sovraffollamento disordinato, scarso controllo sull’inquinamento. In tal senso ha giocato un forte ruolo il rapido diffondersi delle epidemie SARS e Aviaria e il panico collettivo che hanno generato, alimentate dalla diffidenza per quella moltitudine di diversi che conquista quartieri e diventa rapidamente parte dei discorsi sulla sicurezza delle città.
Se fino a due secoli fa le strategie di sorveglianza sanitaria si potevano realizzare tramite i modelli dell’isolamento delle città colpite dall’epidemia o dell’esclusione e il confinamento dei malati in appositi luoghi, nella società globalizzata appare quasi impossibile l’una e l’altra strategia.
I motivi sono da ricercare innanzitutto nella mutata topografia dello spazio sociale: proliferano i nonluoghi, spazi dove vige la libertà di circolazione di uomini, merci, idee, che diventano ideali obiettivi strategici per attentati terroristici, a causa del loro elevato valore simbolico. Se i luoghi cambiano, e non solo in senso materiale, di certo i meccanismi di attribuzione della colpa sono gli stessi da secoli. Oggi i colpevoli non sono più gli ebrei dell’epidemia della grande peste nera, viandanti ricchi e scomodi del XII secolo, ma gli immigrati vomitati dalle carrette del mare, vagabondi dell’era contemporanea che vengono identificati come gli untori di malattie apparentemente scomparse dall’Occidente postmoderno. In questo quadro i media non fanno che amplificare a dismisura le nostre paure ancestrali, con la loro necessità di selezionare la notizia da prima pagina, o semplicemente l’aggiornamento dell’ultim’ora che ci porta a non dubitare mai che il pericolo sia veramente cessato. Il rapido cessare di queste emergenze mediatiche, veloce quasi quanto il loro inizio, ha poi l’effetto controproducente di portare la popolazione a sottovalutare il rischio pandemie che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è più concreto che mai. Da parte sua l’OMS, l’istituzione che si occupa della salute mondiale, spende da anni energie e fondi internazionali nella continua pianificazione delle corrette azioni preventive nei confronti della paventata pandemia.
Tale lavoro di tesi analizza, in base a specifiche categorie sociologiche, alcuni complessi rapporti che si instaurano all’interno dell’altrettanto complessa cornice del mondo postmoderno. Mezzi di comunicazione, popolazione, istituzioni, immaginario collettivo che si esprime nell'analisi di film e romanzi: ognuno di questi sistemi entrando in relazione con gli altri produce determinate conseguenze e atteggiamenti, sui quali si è indagato nell'ultima parte attraverso una ricerca qualitativa.

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Introduzione Fino a 30 anni fa, in seguito alla eradicazione planetaria del vaiolo, il rischio di una pandemia sembrava una prospettiva ormai superata, in nome della vittoria della scienza sulla natura. Questa paura è ritornata prepotentemente in auge dalla fine degli anni Ottanta con i primi allarmi sull’AIDS e sul virus Ebola. Queste terribili malattie, ingrossato costantemente il numero dei morti nell’Africa nera, parevano già all’epoca incombere minacciosamente sull’Occidente, la cui scienza avanzata, la stessa che aveva dichiarato venti anni prima il debellamento del vaiolo, non riusciva a spiegare e tantomeno a curare fenomeni di tale violenza epidemica. Se l’Ebola può considerarsi scomparso dalle cronache internazionali, altrettanto non può dirsi della sindrome da immuno-deficienza acuta, la quale, complice il suo rapido diffondersi nel mondo, si è trasformata in un vero e proprio fenomeno sociale, legato nell’immaginario collettivo a precisi comportamenti devianti. E’ però dall’esplosione della pandemia SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) nel 2003 e del successivo virus H5N1, comunemente definito Influenza Aviaria, che gli occhi del mondo occidentale si sono spostati dagli scenari lontani ed esotici dell’Africa nera all’Asia e alle nuove tigri dell’economia, Cina, India, Indonesia: le nuove potenze sono più vicine all’Occidente perché sono con esso 5

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Parole chiave

foucault
nonluoghi
oms
pandemia
sorveglianza
untori

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